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Sulle proposte di riforma del processo civile di cognizione: contro la pubblicità ingannevole

di Giorgio Costantino
professore ordinario di Diritto processuale civile, Università di Roma Tre
Note sulla genesi del disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri il 5 dicembre 2019 e sui principii e i criterii direttivi della proposta: dubbi e perplessità su una riforma che non potrà mantenere ciò che promette

1. L’11 luglio 2018, in occasione della audizione in Parlamento sulle linee programmatiche del Ministero della giustizia, il Ministro ha illustrato i propositi di riforma: “nell’ottica di realizzare un obiettivo di semplificazione con una significativa riduzione dei tempi del procedimento, la dilatazione dell’attività istruttoria rappresenta uno dei punti rispetto ai quali deve essere incentrata una riforma del rito civile, proprio perché, valutando le macro aree del contenzioso ordinario– rito ordinario e rito del lavoro – la durata delle controversie trattate con quest’ultimo, cioè il rito del lavoro, risulta inferiore di circa il 40%". In funzione di questo obiettivo, il Ministro ha manifestato il proposito “di intervenire sul rito del processo civile tratteggiando, sia per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica sia quelle in cui giudica in composizione collegiale un unico rito semplificato conformato ai principi del case management e di proporzionalità, con i quali risulta incompatibile un sistema processuale contrassegnato dalla predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice. Il modello della predeterminazione legale, non a caso non più rinvenibile in nessun altro ordinamento europeo, risulta una soluzione poco efficiente perché non può, in ragione dell’inelasticità della fonte legale, che essere declinata con riguardo ai casi di maggiore complessità".

L’11 novembre 2018, il Ministro ha annunciato che la riforma sarebbe stata presentata la settimana successiva.

Il 23 novembre 2018, al Congresso dell’Unione delle Camere Civili il Ministro ha annunciato l’apertura di un confronto sul testo che sarebbe stato, a breve, pubblicato sul sito del ministero.

Il 21 gennaio 2019, l’Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile (Aispc), “in riferimento alle modalità con le quali la proposta di riforma è stata informalmente presentata, alla circostanza che essa prescinde dalle iniziative relative al processo civile già pendenti in Parlamento (ddl n. 844/S, 735/S, 755/S e 1427/C), dallo schema di decreto legislativo del Codice della crisi e dell’insolvenza e da quelle assunte dagli operatori (v. le mozioni approvate dal XXXIV Congresso Forense, Catania, ottobre 2018), nonché agli specifici aspetti sopra messi in evidenza e a quelli che la sua eventuale applicazione potrà suscitare”, ha espresso “un giudizio fermamente critico, anche a tutela della dignità degli operatori e degli interpreti, esposti, ancora una volta, al rischio di essere costretti ad esercizi di pazienza per comporre le tessere di un mosaico incautamente lacerato”.

Il 9 marzo 2019, sulle proposte allora informalmente circolanti, si è espressa l’Associazione Nazionale Magistrati (Anm).

Il 31 luglio 2019, il Consiglio dei ministri n. 67 “ha approvato, salvo intese, un disegno di legge che introduce deleghe al Governo per l’efficienza del processo civile e del processo penale, per la riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e della disciplina su eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati nonché disposizioni sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e sulla flessibilità dell’organico di magistratura”.

Con il dPR 4 settembre 2019, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 6 settembre 2019, il Ministro della giustizia è stato confermato nel nuovo Governo.

Il 23 settembre 2019, con l’ "Atto di indirizzo politico-istituzionale per l’anno 2020", il Ministro ha annunciato l’elaborazione di “un articolato progetto di riforma diretto ad ‘asciugare’ l’attuale rito ordinario” ed ha affermato che “il percorso già avviato nel corso di questa legislatura dovrà proseguire ponendo in essere ogni necessaria interlocuzione in vista del definitivo completamento”.

Il 18 novembre 2019, in relazione al disegno di legge di riforma del processo civile, l’Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile (Aispc) ha comunicato al Ministro il parere del Consiglio direttivo.

Si è messo in evidenza “preliminarmente ad ogni altra valutazione, come sia inutile, per non dire dannoso, intervenire ancora sulle regole del processo, quando invece è noto che i problemi, che incidono sull’efficienza della macchina della giustizia civile, emergono, quasi esclusivamente, sul piano strutturale e organizzativo”. Si è, quindi, rilevato “come l’incessante moto riformatore, che ha interessato la giustizia civile nell’ultimo decennio, non solo non ha prodotto risultati positivi in termini di durata e di efficienza del processo, ma ha comportato un senso di diffuso disagio tra gli operatori, in quanto è principio pacificamente riconosciuto che la stabilità delle regole processuali costituisce fattore primario per una più virtuosa attività degli avvocati e del giudice”.

Contro il proposito di sopprimere ogni “predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice”, il Consiglio direttivo della Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile (Aispc) ha manifestato perplessità nei confronti della “scelta ipotizzata nel progetto legislativo, che sembra contemplare un rito sommario per così dire spurio o, secondo altra definizione, un rito ordinario semplificato, destinato a governare tutte la cause (eccetto le poche affidate al collegio), a prescindere dal grado della loro complessità"; ed ha ricordato che “pur nell’ottica di semplificazione delle regole e di perseguimento dell’obiettivo della ragionevole durata, è necessario assicurare la predeterminazione delle regole del processo, il quale, come afferma la Carta costituzionale, è “giusto” se “regolato dalla legge”".

Il 5 dicembre 2019, il Consiglio dei ministri n. 15 ha approvato “un disegno di legge di delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Il testo contiene disposizioni destinate a incidere profondamente sulla disciplina del contenzioso civile, nell’ottica della semplificazione, della speditezza e della razionalizzazione delle procedure, fermo restando il rispetto delle garanzie del contraddittorio”.

Nel comunicato stampa, sono indicate “le novità più significative”: “la riduzione dei tempi del processo, attraverso la compressione dei termini per lo svolgimento delle varie fasi e l’obbligo, da parte del giudice, quando provvede sulle istanze istruttorie, di predisporre il calendario delle udienze nonché, per le parti, l’obbligo di deposito dei documenti e degli atti esclusivamente con modalità telematiche”; “a scopi deflattivi del contenzioso, si amplia il catalogo delle controversie nelle quali è obbligatorio il preventivo tentativo di risoluzione alternativa, che viene invece escluso, quale condizione di procedibilità, in alcuni settori nei quali non ha funzionato adeguatamente (responsabilità sanitaria; contratti finanziari, bancari e assicurativi)"; “la semplificazione e la riduzione dei riti, con la revisione della disciplina del processo di cognizione di primo grado nel rito monocratico e la riduzione del novero dei casi in cui la competenza è attribuita al tribunale in composizione collegiale. In coerenza con le nuove disposizioni, si dispone che anche il processo davanti al giudice di pace si svolga sul modello di quello davanti al tribunale in composizione monocratica, eliminando il tentativo obbligatorio di conciliazione”; “in tema di espropriazione immobiliare, si introducono nuove norme che mirano da un lato a una maggior tutela del debitore, dall’altro alla riduzione dei tempi e dei costi, a vantaggio del creditore, con la previsione che il debitore possa essere autorizzato dal giudice a vendere direttamente il bene pignorato”. “Infine, particolare attenzione viene riservata dal testo al procedimento per lo scioglimento delle comunioni, che risulta oggi tra quelli con durata più elevata. Poiché lo strumento della mediazione si è rivelato in questa materia particolarmente efficace, si introduce uno speciale procedimento di mediazione, che dovrà essere condotto da un mediatore, avvocato o notaio, iscritto in uno speciale elenco e si prevede che, in caso di esito negativo della mediazione, la relazione finale redatta dal mediatore sia assunta come base per il successivo procedimento contenzioso”.

Il disegno di legge delega attende ora l’esame del Parlamento e, se approvato, la sua attuazione in base ai decreti legislativi.

 

2. Per quanto riguarda il processo di cognizione, in funzione dell’obiettivo, espresso dalla lett. a) dell’art. 3, comma 1, di “assicurare la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo”, il disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri n. 15 del 5 dicembre 2019, in base alla lett. b), n. 1, dello stesso art. 3, comma 1, prevede, all’art. 4, comma 1, lett. b), e all’art. 5, lett. a), quale unica e generale forma dell’atto introduttivo, il ricorso da depositare.

Nelle controversie attribuite al tribunale in formazione monocratica e regolate dal processo ordinario di cognizione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 3, il convenuto dovrebbe costituirsi in giudizio, mediante il deposito di una memoria difensiva, almeno quaranta giorni prima dell’udienza, che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 2, dovrebbe essere fissata non oltre centoventi e non prima di ottanta giorni dal deposito del ricorso. Nella memoria, il convenuto sarebbe tenuto, a pena di decadenza, a chiamare in causa terzi ed a proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni in senso stretto. Nel termine di venti giorni precedenti l’udienza e, quindi, nei venti giorni successivi al deposito della memoria del convenuto, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 4, il ricorrente potrebbe proporre “le domande, le chiamate in causa e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni delle altre parti e replicare alle loro difese”. Nel successivo termine di dieci giorni precedenti l’udienza e, quindi, nei dieci giorni successivi al deposito della replica dell’attore, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 5, il convenuto ed i terzi chiamati in causa potrebbero, a pena di decadenza, precisare o modificare “le domande e le eccezioni, solo in quanto conseguenti alle domande e alle eccezioni proposte dalle altre parti”.

La definizione del thema probandum, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 6, n. 7 e n. 8, dovrebbe cominciare all’udienza di comparizione, all’esito della quale il giudice potrebbe fissare un termine di trenta giorni per la articolazione dei mezzi istruttori e per il deposito di documenti e un successivo termine di venti giorni “per la sola indicazione della prova contraria”. Decorsi questi ulteriori termini, il processo potrebbe proseguire per l’espletamento della attività istruttoria, all’esito della quale le parti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c), n. 1 e n. 2, potrebbero precisare le conclusioni, depositare note difensive e di replica e discutere la causa ed il giudice pronunciare sentenza, “dando lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione” oppure riservandone “il deposito entro i trenta giorni successivi”.

Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. g) ed h), peraltro, le prove potrebbero essere acquisite nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, prima dello scambio delle memorie anteriori all’udienza, cosicché, in tale occasione, ogni questione relativa alla loro ammissione ed assunzione potrebbe essere superata. Sennonché ciò presuppone l’accordo delle parti, ma l’esperienza applicativa dell’art. 257 bis cpc, sulla testimonianza scritta, induce a dubitare che tale possibilità incontri il favore degli operatori e trovi applicazione ed a ritenere che, anche nel modello processuale proposto, l’attività istruttoria sia diretta dal giudice e si svolga davanti a lui.

Nelle controversie riservate alla decisione collegiale, che il legislatore delegato, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a), dovrebbe ridurre “in considerazione dell’oggettiva complessità giuridica e della rilevanza economico-sociale delle controversie”, dovrebbe operare “un regime di preclusioni e di fissazione dell’oggetto della causa analogamente a quanto previsto per il procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica”.

La disciplina sinteticamente riassunta non prevede alcuna preclusione, né commina alcuna decadenza per la proposizione delle “domande, le chiamate in causa e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni delle altre parti e replicare alle loro difese”. Il ricorrente potrebbe, pertanto, anche non depositare la memoria prevista dall’art. 3, comma 1, lett. b), n. 4, e replicare all’udienza, all’esito della quale sarebbe necessaria la concessione di ulteriori termini per il deposito di memorie integrative del thema decidendum.

Nell’ambito della fase introduttiva precedente l’udienza, non è prevista alcuna preclusione, né è comminata alcuna decadenza per il deposito di documenti e per l’articolazione dei mezzi di prova. Queste attività dovrebbero essere successive all’udienza: dovrebbero essere svolte nelle memorie da depositare nei termini, “perentori”, di trenta e di venti giorni, ad essa successivi.

Secondo il documento allegato al comunicato stampa relativo al Consiglio dei ministri n. 15 del 5 dicembre 2019, la nuova disciplina dovrebbe ridurre del 50% la durata dei processi civili.

 

3. Appare ragionevole dubitarne e ritenere, invece, che il documento allegato al comunicato stampa relativo al Consiglio dei ministri n. 15 del 5 dicembre 2019 sia uno spot di pubblicità ingannevole.

In primo luogo, appare ragionevole dubitare che, come si afferma nel menzionato documento, la proposta sia diretta alla “semplificazione”, perché “si passa da tre riti ad un rito (prima: giudice di pace, monocratico ordinario e monocratico sommario; adesso: un solo rito)".

Ai sensi dell’art. 311 cpc, infatti, “il procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili”. Non si tratta di un rito diverso che la nuova normativa dovrebbe abolire.

Per altro verso, il procedimento sommario di cui agli artt. 702 bis ss. cpc è facoltativo: può essere scelto dell’attore, ai sensi dell’art. 702 bis, comma 1, cpc e può essere imposto dal giudice, ai sensi dell’art. 183 bis cpc, ma non risulta che tale facoltà e tale potere abbiano trovato diffusa applicazione. È imposto quale unica forma di tutela nelle ipotesi menzionate nel capo III del d.lgs 1 settembre 2011, n. 150, nelle controversie sulla responsabilità medica dalla l. 8 marzo 2017, n. 24, che consente, tuttavia, il passaggio al rito ordinario. Ed è anche previsto, ma con significative varianti, per la tutela collettiva, introdotta dalla l. 12 aprile 2019, n. 31. Sennonché, la possibilità che il giudice regoli il processo “nel modo che ritiene più opportuno” ha fatto sì che, per lo più, il procedimento sommario di cognizione si svolga nelle stesse forme previste per il processo ordinario.

Ai sensi dell’art. 281 bis cpc “nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dei capi precedenti, ove non derogate dalle disposizioni del presente capo”. Il disegno di legge vorrebbe introdurre regole diverse per le controversie riservate alla decisione collegiale.

La “semplificazione” reclamizzata dal documento allegato al comunicato stampa relativo al Consiglio dei ministri n. 15 del 5 dicembre 2019, pertanto, è più apparente che reale. In riferimento al processo innanzi al giudice di pace, al processo ordinario innanzi al tribunale in formazione monocratica e al procedimento sommario, la proposta non appare diretta a fornire alcun contributo di “semplificazione”.

In funzione di una effettiva “semplificazione”, potrebbe essere, invece, necessaria o opportuna la unificazione del processo ordinario di cognizione con il rito di cui agli artt. 413 ss. cpc, che non può più essere qualificato come “processo del lavoro”. Esso, infatti, si applica non soltanto alle controversie di cui all’art. 409 cpc e a quelle previdenziali di cui all’art. 442 cpc, ma anche a quelle locatizie di cui all’art. 447 bis cpc, a quelle agrarie di cui all’art. 11 d.lgs 1 settembre 2011, n. 150, alle opposizioni ad ordinanza-ingiunzione di cui all’art. 6 dello stesso decreto, a quelle al verbale di accertamento di violazione del codice della strada di cui all’art. 7 dello stesso decreto, a quelle alle sanzioni amministrativa in materia di stupefacenti di cui all’art. 8 dello stesso decreto, a quelle contro i provvedimenti di recupero di aiuti di Stato di cui all’art. 9 dello stesso decreto, alle controversie in materia di applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali di cui all’art. 10 dello stesso decreto, nel testo novellato dall’art. 17 d.lgs 10 agosto 2018, n. 101, alle impugnazioni dei provvedimenti in materia di registro dei protesti, di cui all’art. 12 d.lgs 1 settembre 2011, n. 150, all’opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato di cui all’art. 13 di questo stesso decreto.

In funzione della invocata “semplificazione”, si potrebbe prevedere che, nell’ambito di un unico modello processuale, in alcune ipotesi, con gli atti introduttivi debbano essere, a pena di decadenza, prodotti i documenti e debbano essere articolate le richieste istruttorie.

Un contributo di “semplificazione” potrebbe essere anche necessario o opportuno in relazione a tutte le ipotesi nelle quali è prevista l’applicazione del rito camerale di cui agli artt. 737 ss. cpc nelle materie contenziose. Non sono pochi, né marginali i casi nei quali l’evanescente disciplina generale è stata arricchita, fino a configurare un processo “regolato dalla legge”, ma diverso da quello ordinario e dal modello di cui agli artt. 413 ss. cpc: basti pensare, ad esempio, al procedimento per le controversie sull’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali di cui all’art. 99 l.f., al quale succede l’art. 207 cci, o a quello per la dichiarazione dello stato di abbandono dei minori all’art. 10, l. 4 maggio 1983, n. 184.

Ma un tale lavoro di effettiva “semplificazione” implicherebbe un impegno serio, forse incompatibile con una iniziativa diretta a risultati di mera immagine.

In secondo luogo, appare anche ragionevole dubitare che, come si afferma nel menzionato documento, “il perimetro della causa è definito 10 giorni prima che le parti compaiano davanti al giudice”.

Per un verso, come si è rilevato, non è prevista alcuna preclusione, né è comminata alcuna decadenza al ricorrente per replicare al convenuto, cosicché è possibile che, all’udienza, sia ancora necessario definire “il perimetro della causa”, ovvero il thema decidendum, con la fissazione di termini per il deposito di ulteriori memorie.

Per altro verso, neppure è prevista alcuna preclusione, né è comminata alcuna decadenza per il deposito di documenti e per l’articolazione dei mezzi di prova: lo svolgimento di queste attività dovrebbe essere successivo all’udienza.

In terzo luogo, appare anche ragionevole dubitare che, come si afferma nel menzionato documento, siano “eliminati i tempi morti (es. ridotto il numero delle udienze; eliminata l’udienza di precisazione delle conclusioni)".

L’udienza di prima comparizione dovrebbe essere fissata non oltre centoventi e non prima di ottanta giorni dal deposito del ricorso. Il convenuto dovrebbe costituirsi quaranta giorni prima. Il ricorrente dovrebbe replicare nei successivi venti giorni. Il convenuto dovrebbe rispondere nei successivi dieci giorni. All’udienza, le parti potrebbero godere di ulteriori termini di trenta e di venti giorni per depositare documenti e articolare mezzi di prova. La effettiva trattazione della causa, pertanto, potrebbe cominciare, nel migliore dei casi, non prima di centocinquanta giorni dal deposito del ricorso, rispetto all’attuale termine a comparire, che è di novanta giorni.

Ma sembra ragionevole supporre che il termine minimo di ottanta giorni possa trovare scarsa applicazione e che anche il termine massimo di centoventi giorni possa essere disatteso, in considerazione di flussi di lavoro di ciascun ufficio giudiziario.

In mancanza, poi, di un’espressa previsione di decadenza e preclusioni per la replica dell’attore, non può escludersi la necessità di ulteriori attività dirette alla definizione del thema decidendum all’udienza o successivamente ad essa. Ed è espressamente prevista la fissazione di termini ed il rinvio dell’udienza per la definizione del thema probandum.

Né può escludersi che il convenuto, se non intende proporre domande riconvenzionali o eccezioni non rilevabili d’ufficio o chiamare in causa terzi, si costituisca direttamente all’udienza e, quindi, sia necessario offrire spazi al ricorrente per replicare. Anche in questo caso, l’udienza di prima comparizione è destinata ad essere rinviata per la definizione del thema decidendum, nonché del thema probandum.

Occorre anche considerare l’eventualità dell’insorgenza di questioni pregiudiziali di rito che impongano il rinvio dell’udienza: l’elenco contenuto nell’art. 183, comma 1, cpc esplicita una serie di verifiche formali, comunque necessarie in ogni processo, anche nei procedimenti cautelari.

In riferimento alla proclamata “eliminazione” dell’udienza di precisazione delle conclusioni, infine, si può ricordare che, in base alla disciplina vigente, questa non è mai necessaria: lo stabiliscono, nel processo ordinario, gli artt. 183, comma 7, 187 cpc e 80 bis disp. att., nel processo innanzi al giudice di pace l’art. 321, comma 1, cpc, nel rito semplificato di cui agli artt. 413 ss. cpc l’art. 420, commi 4 e 6, cpc, nel processo di appello l’art. 352, comma 1, cpc La prassi è nel senso della fissazione di un’apposita udienza per la precisazione delle conclusioni per consentire al giudice la calendarizzazione delle decisioni in relazione ai flussi di controversie, ma la disciplina positiva non la prevede.

Sembra, dunque, facile contestare che la proposta di riforma sia diretta alla “semplificazione”, che il nuovo prospettato modello processuale consenta di definire “il perimetro della causa” prima dell’udienza e che esso elimini “i tempi morti”.

Queste affermazioni appaiono velleitarie e superficiali.

Manifestano una preoccupante inconsapevolezza sul funzionamento del processo civile.

 

4. Le regole del processo sono considerate un elemento essenziale del “giusto processo”.

L’art. 111, comma 1, Cost. (novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.

È stato, quindi, fermamente contestato il proposito, espresso dal Ministro della giustizia, di sopprimere ogni “predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice”.

Già nella Relazione al codice del 1940, si era messo in evidenza (§ 15) che “la chiarezza e la lealtà dei dibattiti sarebbe messa in pericolo se le parti e i loro patroni non potessero conoscere in anticipo con sicurezza quale sarà lo svolgimento del processo che si inizia; e troppo pericoloso sarebbe consentire alla discrezione del giudice la soppressione di qualsiasi forma di procedimento, perfino di quelle che sono state considerate in ogni tempo come garanzia essenziale o insopprimibile d’ogni giudizio”.

L’obiettivo dovrebbe essere, pertanto, quello di ridurre o eliminare i casi nei quali lo svolgimento del processo è affidato all’esercizio dei poteri discrezionali del giudice, non solo mediante l’attribuzione a questo, ai sensi dell’art. 702 bis cpc, del potere di regolare il processo “nel modo che ritiene più opportuno”, ma anche mediante la previsione del rito camerale di cui agli artt. 737 ss. cpc. In queste ipotesi nelle quali la trattazione del processo è affidata all’estro del giudicante, è comunque necessaria l’osservanza delle garanzie fondamentali, ma, in assenza di regole predeterminate, non sono censurabili, o lo sono a maglie larghissime, gli errores in procedendo.

Se il processo “giusto” deve essere regolato dalla legge, appare utile ricordare la struttura comune dei processi di cognizione.

Ogni processo di cognizione, quale che sia la disciplina, si snoda attraverso una serie di passaggi obbligati, che non possono essere pretermessi. La normativa può fissare diversi tempi e scadenze, può concentrare o diluire le diverse attività; non può ignorarle.

In primo luogo, sono necessarie alcune verifiche formali.

Quanto previsto dall’art. 183, comma 1, cpc nel processo ordinario di cognizione riflette esigenze generali, operanti in tutti i processi. In ogni processo, anche in quelli cautelari e nei procedimenti camerali, il giudice è tenuto a verificare la regolarità del contraddittorio e, se occorre, a disporne l’integrazione, a rilevare la nullità degli atti introduttivi, ad ordinare la regolarizzazione della costituzione in giudizio e a dichiarare la contumacia delle parti non costituite.

Compiute queste attività, che non richiedono un autonomo e specifico spatium deliberandi, il passaggio successivo consiste nella definizione del thema decidendum, ossia nella individuazione dei fatti rilevanti ai fini del decidere, ovvero dei termini della controversia.

Tale attività presuppone la tradizionale opera di ricognizione della fattispecie.

A seconda del rapporto dedotto in giudizio o della pretesa fatta valere, tale attività può essere più o meno complessa, perché implica una analisi degli elementi costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Si tratta, comunque, di un’attività fisiologica, diretta a scomporre la fattispecie per individuarne i singoli elementi costitutivi.

Un primo momento valutativo è, quindi, possibile già in base alla mera prospettazione dell’attore; indipendentemente dalla strategia difensiva del convenuto, il giudice è tenuto a verificare la sufficienza o l’idoneità dei fatti costitutivi allegati dall’attore a fondare la pretesa dedotta in giudizio.

Le strategie di difesa del convenuto possono consistere nella negazione dei fatti costitutivi allegati dall’attore ovvero nella contestazione della idoneità di essi a fondare il diritto fatto valere; nella allegazione di fatti estintivi, modificativi ed impeditivi e nella proposizione di domande riconvenzionali.

La prima attività consiste nelle mere difese ed assume rilevanza, in relazione alle conseguenze collegate alla inosservanza dell’onere di contestazione, soprattutto in riferimento alla pianificazione della istruzione probatoria.

La seconda implica la allegazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi: talvolta è sufficiente l’allegazione del fatto, altre volte occorre una espressa dichiarazione di volontà di avvalersene, cosicché soltanto la parte, non anche il giudice, può rilevarli.

Il terzo momento valutativo, relativo alla idoneità dei fatti costitutivi a fondare il diritto affermato e alla rilevanza dei fatti estintivi, modificativi ed impeditivi, è quello più complesso e delicato nella gestione delle attività processuali e nella direzione del processo.

L’attività istruttoria è meramente eventuale: è possibile omettere l’accertamento dei fatti costitutivi, allorché questi non siano comunque idonei a costituire fondamento del diritto o allorché sussistano fatti estintivi, modificativi ed impeditivi, non contestati o di facile accertamento.

Costituisce principio generale, espressione di un orientamento consolidato, quello per il quale il Giudice deve dare la precedenza alla “ragione più liquida”, cioè a quella che consenta la più rapida conclusione della vicenda processuale, anche in deroga all’ordine logico delle questioni.

La giurisprudenza afferma senza contrasti che, in applicazione del principio della “ragione più liquida”, la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre.

Questo orientamento fa assurgere a principio generale la regola espressa dall’art. 187, commi 2 e 3, cpc, per il quale il giudice, se ritiene presumibilmente fondata una questione pregiudiziale di rito avente carattere impediente ovvero una questione preliminare di merito avente carattere assorbente, dichiara la causa matura per la decisione e il processo viene definito prima di esaminare il merito della controversia.

Nello stabilire se la causa sia matura per la decisione prima dell’accertamento dei fatti costitutivi controversi e indipendentemente dai risultati della istruzione probatoria ad essi relativa, il giudice è tenuto ad una prognosi della presumibile ed apparente infondatezza della domanda o della fondatezza delle eccezioni proposte, ossia della presumibile ed apparente insussistenza dei fatti costitutivi o della loro inidoneità a fondare il diritto affermato e della presumibile ed apparente sussistenza dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi allegati dal convenuto e, quindi, della sufficienza di questi ultimi a fondare il rigetto della domanda, indipendentemente dall’accertamento dei fatti costitutivi.

L’esperienza, tuttavia, indica che, sovente, tali possibilità non vengono colte.

Non sono infrequenti i casi in cui, nonostante la manifesta infondatezza della domanda o la manifesta fondatezza delle eccezioni proposte dal convenuto, il processo prosegua per l’accertamento dei fatti costitutivi e addirittura si apra e si svolga l’istruzione probatoria su tali fatti e, al momento della decisione, tale attività si riveli affatto inutile.

La possibilità di definire immediatamente le controversie nelle quali si pongano questioni preliminari di rito aventi carattere impediente, di rigettare subito le domande manifestamente infondate, di evitare l’accertamento dei fatti costitutivi in presenza di questioni preliminari di merito aventi carattere assorbente, costituisce un potere-dovere del giudicante in ciascun modello processuale.

 

5. L’attenzione tradizionalmente dedicata alla fase introduttiva dei processi di cognizione riflette l’esigenza di realizzare un effetto deflattivo, definendo le controversie in limine litis, anche mediante la rinuncia a resistere ad una pretesa manifestamente fondata ovvero a coltivare una pretesa presumibilmente infondata o, comunque, mediante una conciliazione.

Quest’ultima appare più probabile, se l’esito è prevedibile, ma, se l’esito è incerto, il processo sarà coltivato fino all’esaurimento di ogni possibilità.

L’impegno riformatore si è orientato sui flussi in uscita, in base all’ovvio presupposto che è più semplice definire una causa correttamente impostata, piuttosto che cercarne il bandolo in un fascicolo farraginoso.

La disciplina dei processi a cognizione piena ha avuto diverse varianti: dal "pro­cedimento sommario" del 1901, al codice del 1940, alle Novelle del 1950, del 1973, del 1990/1995 e del 2005/2006.

Il codice del 1940, nel suo testo originario, imponeva uno sbarramento alla prima udienza, ma consentiva la costituzione del convenuto in quella occasione, cosicché quel sistema non avrebbe mai potuto funzionare, essendo evidentemente necessario concedere all’attore uno spatium temporis per replicare alle difese del convenuto e a quest’ultimo un ulteriore termine per definire la propria posizione.

Con la Novella del 1950, le preclusioni furono previste in riferimento alla udienza di precisazione delle conclusioni, senza alcuna distinzione tra attività diretta alla individuazione del thema decidendum e attività istruttoria, cosicché questa aveva un oggetto obiettivamente incerto e, sovente, si rive­lava inutile.

Uno dei punti fermi dell’ampio dibattito sull’argomento, che precedette la ri­forma del 1990/1995, riguardava appunto la necessità di prevedere uno scambio di scritture pre­paratorie della trattazione orale della causa, anche semplicemente mediante la pre­visione della obbligatorietà della costituzione anticipata delle parti rispetto all’udien­za: “ciò che conta veramente non è tanto l’accelerazione “in assoluto”, quanto il fatto che il processo, magari a co­sto di una pausa iniziale, sia posto in condizioni di non partire col “piede sbagliato” di una udienza di mero rinvio” (così la Risoluzione sul tema “misure per l’accelerazione dei tempi della giustizia civile”, con riferimento al ddl governativo presentato sull’argomento nella decorsa legislatura e in vista di eventuali iniziative, approvata dal Csm il 18 maggio 1988, in Foro it., 1988, V, 249 ss.).

Con le modifiche del 1995, è stata introdotta l’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 cpc.

Ai problemi ed alle questioni suscitati da quella modifica ha tentato di porre rimedio la riforma del 2005/2006, che ha sostituito alla uggiosa cadenza 180-183-184 quella, altrettanto uggiosa, di 30+30+20.

Già nella relazione del 1940, si era rilevato che “il codice si è ispirato al principio della adattabilità (o, come anche autorevolmente fu detto, della elasticità) del procedimento: ad ogni tappa del loro iter processuale le parti e il giudice trovano dinanzi a sé, proposte dalla legge alla loro scelta, molteplici strade e sta a loro scegliere, secondo i bisogni del caso, la via più lunga o le scorciatoie […] la legge, invece di costruirlo tutto d’un pezzo, lo ha costruito come un congegno composto di pezzi smontabili e tra loro variamente combinabili, che sta alla sensibilità delle parti e alla saggezza del giudice rimontare caso per caso nel modo più conforme ai fini sostanziali della giustizia […] il giudice istruttore deve per prima cosa eliminare dalla discussione il troppo e il vano, e se non riesce a conciliare le parti su tutti i punti, ridurre la controversia a quelle poche questioni essenziali che hanno veramente bisogno di esser decise”.

Nella richiamata Risoluzione sul tema “misure per l’accelerazione dei tempi della giustizia civile”, i passaggi erano così indicati: “1) per l’attore, allegazione nell’atto introduttivo, a pena di decadenza, dei fatti sto­rici posti a fondamento della domanda; 2) per il convenuto, allegazione nella comparsa di risposta, a pena di decadenza, dei fatti storici modificativi, impeditivi ed estintivi; e, sempre a pena di decadenza, proposizione delle eccezioni in senso stretto di merito e di rito, nonché proposizio­ne di domande riconvenzionali; 3) costituzione del convenuto anticipata rispetto all’udienza, pena la decadenza di cui al punto 2); 4) in prima udienza, possibilità per l’attore di allegazione di fatti storici nuovi corre­lati alle domande ed eccezioni del convenuto e per entrambe le parti, previa au­torizzazione del giudice, possibilità, ferme le allegazioni dei fatti storici, di modifi­care le domande, eccezioni e conclusioni formali; 5) termini perentori, correlati alla data della seconda udienza, fissata dal giudice, per la produzione e richiesta dei mezzi di prova, nonché ulteriori termini perentori (sempre correlati come momento, alla seconda udienza) per la formazione di prova contraria alla prova altrui; 6) discussione e decisione, nella seconda udienza, sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova richiesti; 7) nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, concessione di un termi­ne alle parti per dedurre le prove che si rendono in relazione a ciò, necessarie; 8) possibilità di superare in corso di causa le preclusioni maturate (sia in punto di al­legazioni e di eccezioni che in in punto di prove) soltanto per motivato provvedi­mento del giudice, che accerti la forza maggiore o il fatto dell’avversario; 9) adeguamento della tecnica degli interventi e delle chiamate alla struttura della fase introduttiva del giudizio, come sopra delineata”.

Con le precisazioni prima indicate, questo è il modello adottato dal processo ordinario di cognizione, ma, in una serie di controversie ritenute più semplici, l’operatività delle preclusioni è anticipata al momento della costituzione in giudizio e al deposito degli atti introduttivi.

È, comunque, prevista la possibilità che la controversia sia definita alla prima udienza, in assenza di questioni formali che ne impongano il rinvio, ovvero nel caso in cui l’attività istruttoria non sia stata chiesta o se si manifesti superflua, anche in considerazione di questioni pregiudiziali di rito aventi carattere impediente o di questioni preliminari di merito aventi carattere assorbente.

Appare ragionevole ritenere che, se non occorre assumere prove costituende, vuoi perché non richieste, vuoi perché ritenute inammissibili o irrilevanti, il processo possa essere definito già nella prima udienza, come prevedono, sulla carta, il primo periodo dell’art. 183, comma 7, e l’art. 420 cpc, al fine di evitare il rischio che sia disposto sempre, senza alcuna valutazione preventiva, lo scambio di memoria integrative e sia imposta la sequenza 30+30+20 di cui all’art. 183, comma 6, cpc ovvero quella memoria+memoria, in base all’art. 420, comma 6, cpc.

In funzione di una affermata “semplificazione” e della eliminazione dei “tempi morti”, la proposta di riforma disegna un nuovo modello, prima sinteticamente descritto: alla cadenza 30+30+20 dovrebbe sostituirsi, prima dell’udienza, quella 40+20+10 e, dopo l’udienza, quella 30+20.

Prima di dedicarsi allo sviluppo delle possibilità offerte dal proposto modello processuale, appare, comunque, doveroso continuare ad operare al fine di sventare la prassi di non consultare il fascicolo, di limitarsi a fissare termini per memorie integrative degli atti introduttivi, di ammettere ogni attività richiesta e di riservarsi una lettura degli atti soltanto al momento della decisione, che, in questo modo, diventa, come sovente si ripete, il collo di bottiglia.

 

6. Come è stato rilevato dal parere del Consiglio direttivo della Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Civile (Aispc), “l’incessante moto riformatore, che ha interessato la giustizia civile nell’ultimo decennio, non solo non ha prodotto risultati positivi in termini di durata e di efficienza del processo, ma ha comportato un senso di diffuso disagio tra gli operatori, in quanto è principio pacificamente riconosciuto che la stabilità delle regole processuali costituisce fattore primario per una più virtuosa attività degli avvocati e del giudice”.

La frenesia legislativa ha spinto gli studiosi del processo e gli operatori della giustizia (avvocati, magistrati, funzionari di cancelleria) in un girone infernale, nel quale la pena consiste nel tentare di comporre la sinopìa di un mosaico lacerato nel tentativi di riportare a sistema interventi estemporanei, velleitari e superficiali.

Il dibattito scientifico si è impoverito per ricondurre a logica disposizioni prive di senso e renderle norme.

Il processo commerciale, al quale pure è stata dedicata diffusa attenzione, è stato abrogato dopo meno di cinque anni. Non ha avuto migliore sorte la previsione del quesito di diritto nei ricorsi per cassazione. Il “filtro” in appello, grazie al quale, “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile”, superato il primo entusiasmo, trova ormai ridotta applicazione. Il procedimento sommario di cognizione, fuori dei casi nei quali è stato reso obbligatorio, non ha incontrato il favore degli utenti. Gli interpreti si arrovellano per comprendere il significato del “sommario esame” in base al quale la sesta sezione della Cassazione restituisce il fascicolo al Presidente per l’assegnazione alla sezione tabellarmente competente. Le questioni di coordinamento tra disposizioni emanate in epoche diverse costituiscono il tormento degli utenti della giustizia: basti pensare a quella relativa agli artt. 354, comma 2, e 308 cpc o a quella tra gli artt. 26 bis e 678 cpc, alle conseguenze della previsione della forma dell’ordinanza per risolvere le questioni di competenza, che sono comunque questioni pregiudiziali di rito aventi carattere assorbente, la cui definizione presuppone la precisazione delle conclusioni e le attività previste per la fase decisoria. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 5 dicembre 2019 è un incubo che rischia di risospingere gli studiosi del processo e gli operatori della giustizia (avvocati, magistrati, funzionari di cancelleria) nel girone infernale dal quale faticosamente tentano di uscire, costringendoli a penosi esercizi di tetrapiloctemia, per la gioia delle case editrici, ma non anche per l’efficienza dei processi civili.

La giustizia civile è una cosa seria. Il suo funzionamento non può essere affidato a spot di pubblicità ingannevole.

Richiederebbe un impegno per una preventiva opera di “pulizia” complessiva della disciplina del processo, per eliminare le contraddizioni e le incrostazioni, determinate dalla frenesia legislativa.

Appare legittimo dubitare che un impegno in tal senso sia richiesto dal legislatore, cosicché con testardaggine e rassegnazione, come si è fatto in queste pagine, occorre proseguire nel tentativo di ricomporre un sistema inopinatamente e periodicamente lacerato.

 

11/12/2019
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