Magistratura democratica
Magistratura e società

Ricostruire la giustizia penale nel dopoguerra. I nuovi valori costituzionali e l’indipendenza del giudice

di Paolo Borgna
Procuratore vicario presso la Procura della Repubblica di Torino
Pubblichiamo la relazione tenuta presso la Scuola superiore della magistratura di Scandicci il 23 giugno 2017

C’è un piccolo romanzo autobiografico, scritto da un pubblico ministero alla fine degli anni’40 che ha questo incipit:

«A venticinque anni Mario Ferrari aveva prestato giuramento di fedeltà allo Statuto ed alle altre leggi del Regno ed era stato nominato Sostituto Procuratore del Re; a quarantacinque aveva giurato fedeltà alla Costituzione Repubblicana ed era diventato Sostituto Procuratore della Repubblica. Tra questi due giuramenti egli ne aveva prestato un terzo di fedeltà al regime fascista e al suo capo, e per qualche anno aveva esercitato le sue funzioni con il titolo di “Sostituto Procuratore del Re Imperatore”. Aveva anche prestato servizio con il titolo di “Sostituto Procuratore di Stato”, ma solo per qualche mese, durante l’occupazione tedesca, e di “Sostituto Procuratore del Regno” durante la breve luogotenenza del Principe Umberto, tra la liberazione dell’Italia settentrionale e la proclamazione della Repubblica. La proclamazione dell’Impero, l’occupazione tedesca, l’occupazione anglo-americana e infine la caduta della monarchia non avevano modificato sostanzialmente le sue funzioni […]. Diventato Sostituto Procuratore della Repubblica egli aveva continuato a fare il suo dovere con lo stesso zelo, la stessa onestà e lo stesso scrupolo con cui lo aveva fatto per un ventennio. Nella sua vita pubblica di magistrato integro i grandi eventi storici di quegli anni non avevano avuto altra conseguenza che quella di costringerlo a modificare la dicitura dei suoi biglietti da visita…»[1].

Amo molto questo incipit perché riassume mirabilmente una mia idea di fondo: che le vicende generazionali e il clima sociale e culturale respirato negli anni della formazione contano, a ben vedere, più delle norme ordinamentali e dei codici. Perché il pubblico ministero Mario Ferrari, nato nel 1901, aveva respirato, da ragazzo, il clima culturale dell’Italia prefascista e giolittiana; era cresciuto alla scuola di maestri liberali, che avevano contrassegnato quel clima fino agli anni dei suoi studi universitari. Entrato in magistratura quando ormai il fascismo era al potere da quattro anni, era stato uditore di anziani giudici di formazione liberale risorgimentale. Quello era stato il suo stampo. Tutto il resto, aveva contato poco: per l'appunto, poco più che la modifica dei suoi biglietti da visita.

È in virtù di questo predominio della formazione culturale sugli ordinamenti che, senza alcun dubbio, i vertici della magistratura degli anni Cinquanta furono più conservatori dei vertici degli anni ’20 e ‘30. Ernesto Eula, che dal 1954 al 1959 guiderà la Cassazione e che presiederà il collegio disciplinare che infliggerà a Dante Troisi la sanzione della censura per il suo indimenticabile Diario di un giudice, forse aveva cambiato (oltre ai suoi biglietti da visita) anche il distintivo che portava all’occhiello[2] Ma era lo stesso che nel 1938 esaltava la trasformazione istituzionale dello Stato «ormai attuata sotto i segni della rivoluzione mussoliniana e della romanità»[3].

Se non si tiene nella giusta considerazione questo fattore – il clima culturale degli anni della formazione – non si potrà comprendere il ritardo e la lentezza con cui la magistratura italiana, nei primi decenni del dopoguerra, saprà assimilare ed attuare (nella propria attività giurisprudenziale) quei «nuovi valori costituzionali», di cui parla il titolo della relazione che mi è stata affidata.

La magistratura italiana si affaccia alla fase democratica del dopoguerra ed è chiamata ad applicare i valori costituzionali essendo inquadrata nell’ordinamento giudiziario varato dal fascismo soltanto nel 1941[4] e dovendo applicare un codice penale ed un codice di procedura penale del 1930. In realtà l’ordinamento giudiziario del 1941 era stato (solo marginalmente) corretto dalla legge sulle Guarentigie[5], varata dal Guardasigilli Palmiro Togliatti due giorni prima del referendum istituzionale del giugno 1946. Legge che aveva operato una “rimozione chirurgica” di alcuni punti che maggiormente limitavano l’indipendenza del magistrato.

Riassumo, per cenni, i ritocchi più significativi all’Ordinamento giudiziario del 1941:

- estensione, anche al pm, dell’inamovibilità, sino ad allora prevista soltanto per i giudici;

- sottrazione del «potere di direzione sugli uffici del pubblico ministero» al Ministro della giustizia, che, da quel momento, esercita una mera «vigilanza»;

- attribuzione del «potere di sorveglianza» sugli uffici (oltre che al Guardasigilli) anche ai capi degli uffici medesimi (potere che prima era attribuito ai procuratori generali presso la Corte d’appello anche sui giudici istruttori, sui pretori e sui conciliatori);

- attribuzione della titolarità dell’azione disciplinare anche al procuratore generale presso la Corte di cassazione, oltre che al Ministro della giustizia (cui, in precedenza, era attribuita in modo esclusivo).

A parte questi ritocchi, rimaneva l’impianto dell’Ordinamento giudiziario del 1941. Il quale, peraltro, seguiva il solco dei precedenti OG del periodo liberale: quello del 1865 (modificato dal Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando nel 1907 e nel 1908 e poi dal Guardasigilli Rodinò nel 1921); cui seguirà l’OG del 1923, emanato un anno dopo la marcia su Roma ma che in sostanza riproduceva l’impostazione di fondo della precedente normativa.

Piccola annotazione: solo alla luce di questa continuità (e all’impronta generazionale di cui dicevamo) riusciamo a spiegare come mai, nel 1960, redigendo, per il dizionario enciclopedico Utet, la voce «pubblico ministero», Luigi Conti – grande giudice, entrato in magistratura con il “decreto Togliatti” – potesse scrivere: «Il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria … Quale rappresentante del potere esecutivo è vincolato a eseguire gli ordini dei superiori gerarchici»; così riproponendo tranquillamente, a dodici anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la medesima definizione dell’ordinamento giudiziario del 1865.

Per decenni la storiografia ha discusso la maggior o minor adesione dei magistrati italiani al regime fascista (alle sue leggi e alle sue ispirazioni politiche di fondo). Alcuni studiosi accentuando le numerose e a volte rumorose manifestazioni di adesione al regime; che certo non mancarono, soprattutto negli alti uffici e nella capitale (si pensi a certe cronache romane dell’inaugurazione dell’anno giudiziario). Altri invece rimarcando gli altrettanto numerosi e diffusi episodi di reale indipendenza. Penso a certe condanne per violenze commesse da gerarchi fascisti. O ad assoluzioni esemplari: come quella (della sezione istruttoria della Corte di appello di Cagliari) che riconobbe la legittima difesa ad Emilio Lussu che, nell’ottobre 1926, aveva freddato uno squadrista che aveva cercato di entrare nel suo studio scalando il balcone, fulminandolo con un colpo di fucile alla tempia, mentre aveva ancora la mano sinistra afferrata alla ringhiera[6]. Penso ancora a decisioni che costituirono una sfida al regime: come quella del Tribunale di Savona che, nel settembre 1927 – processando (tra gli altri) Ferruccio Parri, Carlo Rosselli e Sandro Pertini per la procurata evasione di Filippo Turati del dicembre 1926 – dapprima si rifiutò di trasmettere gli atti per competenza al Tribunale speciale (istituito nel novembre 1926); quindi, derubricando il reato, applicò la pena minima di dieci mesi di reclusione.

Non mi addentro, se non altro per mancanza di tempo, in questa discussione sul livello di “fascistizzazione” della magistratura italiana.

Rilevo soltanto che indubbiamente la fedeltà al regime di tutta la magistratura fu rivendicata dal Guardasigilli Rocco con evidenti esagerazioni propagandistiche[7]. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché mai il fascismo, per poter più incisivamente perseguire gli oppositori politici, abbia dovuto istituire i Tribunali speciali.

Volendo riassumere i termini essenziali della questione, Antonella Meniconi ricorre ad una suggestiva immagine tratta dal romanzo Porte aperte di Leonardo Sciascia. Laddove il procuratore generale diceva al “piccolo giudice”: «Si sono fatti i loro tribunali speciali, ci hanno tenuto al di fuori e – perché non riconoscerlo – al di sopra della politica… non potevamo opporci: avremmo perduto quello che ancora ci resta; ci siamo contentati»[8]. E comunque, al netto della propaganda, rimane il fatto che il fascismo non attuò mai una radicale ristrutturazione dell’OG in quanto il quadro normativo, sedimentato nel periodo liberale, assicurava comunque una certa possibilità di controllo sui magistrati che, per contiguità culturale e sociale, erano portati a non discostarsi troppo dalla volontà del potere esecutivo. C’è un celebre discorso del liberale Giovanni Giolitti in una campagna elettorale del 1897 che ben testimonia questa continuità ordinamentale e che, soprattutto, ci dice quanto indipendenza, interna ed esterna, dei magistrati fossero concetti estranei alla cultura politica di quel periodo storico. Parlando nel suo collegio del cuneese (nel piccolo paese di Caraglio), lo statista piemontese definiva la posizione della magistratura nei confronti del governo con parole emblematiche:

«Al governo restano i seguenti poteri sulla magistratura. Dei pretori dispone liberamente, senza alcuna garanzia. I magistrati sono tutti nominati dal governo; le promozioni loro dipendono per intero dal beneplacito del governo; il governo può negare loro qualsiasi trasferimento; è il governo che determina le funzioni a cui ciascun magistrato deve essere addetto, e che ogni anno designa i magistrati che devono giudicare le cause civili e penali, e li riparte fra le varie sezioni delle corti e dei tribunali; è il governo che compone a piacer suo le sezioni di accusa presso le corti d’appello e sceglie i giudici che devono, presso i tribunali, adempiere le funzioni di giudici istruttori; nel qual modo ha in mano sua l’istruzione dei processi penali e così l’onore e la libertà dei cittadini; infine il ministro Guardasigilli ha diritto di chiamare a sé e di ammonire qualunque membro di corte e di tribunale»[9].

L’idea che sottende tale articolata definizione emerge in modo quasi brutale: la giustizia (in particolare quella penale) è gestita, sia pure indirettamente, da chi detiene il potere politico. È al Principe che spetta di tutelare «l’onore e la libertà dei cittadini». Per dirla napoleonicamente: «L’intendenza seguirà». Il fascismo, dunque, si limitò ad usare, semplicemente in modo più incisivo, l’assetto ordinamentale precedente e la cultura dei magistrati di tale epoca che, anche per omogenea provenienza sociale, non erano estranei alle paure che, dopo il biennio rosso, avevano alimentato il consenso verso il fascismo[10]. I giudici che, nella seconda metà degli anni ‘20, emisero le sentenze che prima ho ricordato, facevano parte di quella che Calamandrei chiamerà «minoranza eroica» della magistratura italiana, che oppose una tenace opposizione legalitaria alle prepotenze del regime. Lo strumento principale di questa “opposizione legalitaria” fu la difesa, nel campo della giustizia, del «sistema della formulazione legislativa», in cui vige una rigida ripartizione tra giustizia e politica.

La polemica dei giuristi liberali si dispiegava dunque contro le teorie del “diritto libero” che, affermando la giustizia del “caso per caso”, affidano all’interprete un vasto potere creativo. Esemplare, in questo senso, è la polemica che Calamandrei, nella conferenza tenuta nel gennaio 1940 davanti agli universitari cattolici della Fuci[11], ingaggia contro la «formulazione giudiziaria del diritto», secondo cui il giudice, nell’applicare la norma scritta, la deve rinvigorire con le esigenze della società, con il senso di giustizia ispirato dal singolo caso, attingendo alle regole sociali da lui stesso rilevate; lasciandosi investire dal «vento che irrompe dalle finestre», sino a modificare la stessa norma. In tal modo – polemizza Calamandrei – si annulla la distinzione tra il momento della creazione del diritto e quello della sua applicazione.

A sorreggere questa rigorosa difesa del principio di legalità vi è la convinzione che il quadro legislativo italiano fosse rimasto in larga parte coerente con l’impronta liberale che lo aveva caratterizzato prima del ventennio e che il regime soltanto in parte aveva intaccato. Certo, i giuristi liberali sanno bene che le leggi razziali del ’38-’39 avevano costituito, rispetto a questo sistema, un vulnus difficilmente classificabile come una semplice contraddizione. Eppure, rimaneva in loro l’idea di fondo che, persino negli anni del fascismo trionfante, la difesa della legalità avrebbe perlomeno costituito un freno, un rallentatore, un argine contro l’invadenza accentratrice del potere esecutivo. Persino con l’obbrobrioso innesto delle “leggi che facevano orrore” il sistema legislativo, nel suo complesso, era preferibile all’irruzione prepotente, nel sistema della giustizia, dell’ordalico “spirito dei tempi” affidato all’interpretazione delle nuove generazioni di giudici politicizzati, allevati dal regime.

I magistrati che, in quegli anni di fascismo trionfante, impugnano come un usbergo il principio di legalità – in particolare i più giovani tra loro – avvertono di combattere una battaglia difensiva. Sanno di essere stranieri in mezzo ai loro coetanei. Si sentono eredi di un passato che forse sta tramontando. Avvertono, con angoscia, di essere testimoni di un momento cruciale della storia del ‘900: quando le dittature affermatesi negli anni ’20 e ’30, dopo aver plasmato culturalmente una nuova generazione, stanno per travolgere gli ultimi residui di una civiltà liberale che, agli occhi dei giovani, apparivano come vecchi arnesi di un “passato in dissoluzione”. La rigorosa difesa della funzione interpretativa della norma affidata ai giudici, come momento meramente applicativo e non di creazione, fu la migliore difesa contro la dittatura: con cui si poté impedire l’ingresso nel sistema positivo di meccanismi capaci di consegnare alla sfera della politica l’amministrazione della giustizia. Dobbiamo infine ricordare che questi anziani giuristi liberali, che erano stati protagonisti della “opposizione legalitaria” al fascismo, alla vigilia della Liberazione – nel momento in cui si trattò di stabilire come celebrare i processi nei giorni in cui, crollato il regime, le rappresaglie di nazisti e fascisti avrebbero imposto una pronta repressione, per la quale certamente i tribunali ordinari sarebbero stati inadeguati – furono i più strenui difensori delle garanzie processuali e del rispetto del tradizionale principio di irretroattività della legge penale[12]. Furono proprio loro ad opporsi all’istituzione, da parte dei CLN, di organi di giustizia composti da membri designati dai partiti anziché da magistrati di carriera. E nei giorni di fine aprile – quando gli equilibrati compromessi raggiunti per la creazione di corti d'assise straordinarie non reggeranno l’onda d’urto dell’esplosione della piazza e saranno spazzati dagli eventi e da una giustizia sommaria che colpirà inesorabilmente alcune spie, qualche torturatore ma che a volte darà anche sfogo a «rancori e vendette private»[13] – saranno proprio i vecchi magistrati liberali, intransigenti avversari del fascismo, a contribuire, più di chiunque altro, alla riaffermazione della Legalità, prima ancora che gli Alleati facciano ingresso nelle grandi città del Nord Italia.

È con questo complesso ed articolato bagaglio culturale che la magistratura italiana affronta la fase del dopoguerra. È noto che, nel dibattito alla Costituente sull’ordine giudiziario, la discussione su come declinare i principi di autonomia ed indipendenza fu molto aperta[14]. E che, soprattutto fra le forze progressiste, era diffuso il timore – fondato sul sostanziale conformismo verso il regime che la grande maggioranza dei magistrati aveva mostrato durante il ventennio – che una magistratura molto indipendente ed un forte Csm potessero farsi portatori di istanze corporative e di una eccessiva separatezza dell’ordine giudiziario rispetto ai cittadini. Queste preoccupazioni furono in gran parte superate grazie agli interventi di Calamandrei (autore della relazione della II sezione della II sottocommissione sul potere giudiziario) e dal confronto con altri grandi giuristi, membri di quella sottocommissione (tra cui, particolarmente, Giovanni Leone)[15].

L’impianto costituzionale che derivò da questo confronto è stato il pilastro del ruolo assunto dalla magistratura nel dopoguerra:

- principio della pre-costituzione per legge del giudice naturale (art. 25, comma 1);

- autonomia e indipendenza da ogni altro potere (art. 104, comma 1);

- soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101);

- inamovibilità (art. 107);

- obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112);

- Csm unico (per giudici e pm), composto per due terzi da magistrati eletti dai loro stessi colleghi (art. 104);

- accesso alla carriera tramite concorso, riservando la possibile elettività (sostenuta dai comunisti e segnatamente da Togliatti[16]) soltanto ai magistrati onorari (art. 106).

Oggi, la discussione, sull’eccessiva o non eccessiva rigidità di questi principi, è aperta.  E vi è chi sostiene che erano, almeno in parte, fondate le preoccupazioni democratiche sul rischio che un’assoluta indipendenza e una totale autonomia dei magistrati potessero, ad un certo punto, degenerare verso un neo-corporativismo autoreferenziale che, rendendo difficili reali controlli sul lavoro dei magistrati e sulla loro progressione in carriera, fornisce risposte inadeguate alla domanda di giustizia dei cittadini (così producendo un risultato esattamente opposto a quello perseguito dai Costituenti). Ma, comunque la si pensi in proposito, si deve ammettere che il ruolo giocato dalla magistratura, a partire dagli anni ’70, nella gestione di grandi indagini che hanno segnato la storia d’Italia, non sarebbe stato possibile senza l’impianto istituzionale disegnato dalla Costituzione del 1948.

Sappiamo che non tutti i principi costituzionali ora ricordati ebbero immediata attuazione: il nuovo Csm inizia a funzionare solo nel 1959; soltanto nel 1963 una sentenza della Corte costituzionale cancella la norma che subordinava l’azione del Csm all’iniziativa del ministro e solo nel 1975 c’è una riforma del sistema elettorale del Csm che sottrae ai magistrati di Cassazione una posizione assolutamente predominante nella composizione del Consiglio. Ma probabilmente, a rallentare l’effettiva attuazione dei valori costituzionali, ancora una volta giocherà un ruolo fondamentale la vicenda generazionale. Come negli anni ‘30 la magistratura era stata, sia pure in modo non omogeneo, una piccola roccaforte di resistenza liberale al fascismo ormai imperante, così, sul volgere degli anni ’50, ai vertici della magistratura si troveranno spesso giudici che erano stati giovani nel momento di maggior consenso sociale al regime e che avevano fatto carriera durante e grazie al fascismo.

Una conferma eclatante di questa considerazione fu costituita dall’applicazione dell’amnistia Togliatti del 1946, sui crimini commessi in guerra[17]. L’amnistia era una necessità politica, ispirata ad un intento di pacificazione di un popolo che era stato diviso da una guerra civile. Fu un giusto atto di magnanimità da parte dei vincitori. Ma il governo non voleva elargire un’indulgenza plenaria. Sapeva bene che se certi crimini, particolarmente odiosi, fossero stati cancellati, anziché pacificare si sarebbe rischiato di perpetuare vecchi odi e di farne nascere nuovi. Per questo, il decreto del governo escludeva dall’amnistia le «sevizie particolarmente efferate». Non potendo certo compiere, nel corpo della legge, una dettagliata e macabra casistica, ci si affidava, per l’individuazione del concetto di “efferatezza”, alla discrezionalità e al buon senso della magistratura. La quale invece dimostrerà di aver ben poco buon senso e assai scarso senso di giustizia. È soprattutto la Corte di Cassazione a dar prova di questa insensibilità. Manca la «particolare efferatezza» – dirà – nelle percosse ai genitali e in ferite con coltello sotto le unghie alle mani e al viso «se la vittima poté il giorno stesso essere trasportata in altra località». Né le sevizie sono particolarmente efferate nel fatto di «sospendere un partigiano per i piedi e fargli fare da pendolo mediante calci e pugni, onde indurlo a dichiararsi colpevole e ad accusare i propri compagni». Con la stessa logica, la Cassazione concede l’amnistia al «capitano delle brigate nere che, dopo l’interrogatorio di una partigiana» l’aveva fatta «possedere dai suoi militi, uno dopo l’altro, bendata e con le mani legate» perché «tale fatto bestiale non costituisce sevizia ma solo la massima offesa all’onore e al pudore di una donna»[18].

Dopo il 1° gennaio 1948, il baluardo difensivo dei vecchi valori fu, come è noto, la distinzione fra «norme direttive o programmatiche» e «norme precettive» della Costituzione che, a cominciare dalla materia del processo penale, consentì per anni la sopravvivenza di norme che stridevano clamorosamente con l’affermazione del principio secondo cui «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».

È indubbio, però, che il terreno su cui, per molti anni ancora, la cultura più gretta della magistratura si manifesterà in modo esemplare, fu soprattutto quello del diritto di famiglia e dei reati connessi. Sono gli anni in cui si poteva leggere in sentenze dei tribunali che picchiare la moglie «a scopo di correzione» è un modo lecito per salvaguardare l’unità familiare. O che «il costante rifiuto delle prestazioni sessuali da parte di un coniuge costituirebbe il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare»[19]. Decisioni che non devono stupire se, ancora nel 1961, la Corte costituzionale dichiarava la legittimità dell’art. 559 del codice penale che puniva la moglie adultera e il suo correo, mentre il marito adultero andava esente da pena a meno che tenesse «una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove» (art. 560 cp). Sono manifestazioni di una cultura che, all’interno della magistratura, resisterà decisamente più a lungo che nella società civile.

Chiunque sia stato giovane negli anni ‘60 ricorda il “caso Zanzara”, del 1966. Tutti ricordiamo i termini essenziali della vicenda. Alcuni studenti e il preside del liceo Parini di Milano furono imputati per il reato di «pubblicazione di scritti osceni», per aver pubblicato sul giornale scolastico (La Zanzara, appunto) un’indagine sulla vita affettiva delle «ragazze d’oggi». Tutti ricordiamo che, per fortuna, il Tribunale di Milano assolse gli imputati[20]. Ma non tutti ricordiamo – e facciamo un salto sulla sedia a rievocarlo oggi – cosa c’era scritto nei capi di imputazione. In uno di questi, fu riportata – come idonea a «costituire incitamento alla corruzione di fanciulli ed adolescenti» – la seguente frase:

«Sarebbe necessario impostare il problema sessuale su basi serie, cioè introdurre un’educazione sessuale anche nelle scuole, per chiarire le idee su certi problemi fondamentali che ognuno ad una certa età si trova a vivere, in modo che il problema sessuale non sia un tabù, ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza»[21]

Sarà proprio sul fronte della parità uomo-donna che i principi costituzionali cominceranno a far breccia. Il primo sintomo forte di questo cambiamento sarà l’ingresso delle donne in magistratura. Ingresso molto faticoso: che inizia, nel 1959, con un ricorso al Consiglio di Stato di due donne che volevano partecipare al concorso per uditore giudiziario[22]; e terminerà soltanto con la legge 9 febbraio 1963, n. 66[23].

La riforma del 1963 coincide con un nuovo cambio generazionale. A metà di quel decennio cominciano ad entrare in magistratura giovani nati nell’immediato dopoguerra e che erano stati studenti liceali in anni ancora segnati da grande conformismo ma in cui già covavano – sul piano culturale, politico, ecclesiale – i germi dei grandi cambiamenti, sociali e di costume, che esploderanno negli anni ‘60. Per dirla con una battuta: se la generazione che li aveva preceduti aveva avuto vent’anni ai tempi della conquista dell’Etiopia, loro erano stati giovani ai tempi della battaglia di Algeri. Ed è con questa generazione che “la Costituzione si muove”. Anche nel processo penale.    

Come ricordavamo all’inizio, l’Italia repubblicana aveva ereditato dal regime fascista il codice Rocco, varato nel 1930 ma già presentato alla Camera il 10 giugno 1925, sette mesi dopo l’omicidio Matteotti. Quel codice escludeva la presenza del difensore a tutti gli atti istruttori: ristabilendo la disciplina del primo codice di rito dell’Italia unita (quello del 1865) e cancellando le timide aperture del codice liberale del 1913 (che prevedeva l’assistenza dell’avvocato ad alcuni atti della fase di indagine: esperimenti giudiziari, perizie, perquisizioni domiciliari, ricognizioni). Nella relazione che presentava la riforma Alfredo Rocco spiegava che era giusto escludere la presenza della difesa perché «lo zelo invadente» degli avvocati, tanto più se «coscienziosi ed alacri» è «molto pericoloso nell’istruzione» e, mettendo in discussione la fiducia verso l’autorità del magistrato, «contrasta con i principi fondamentali del Regime». Dunque: istruttoria completamente segreta. L’avvocato non può presenziare né alle perquisizioni né tantomeno all’interrogatorio: che dovrà essere una partita a due tra magistrato inquirente ed accusato, come il confronto del gatto che gioca con il topo. I colloqui tra difensore ed imputato detenuto sono possibili soltanto «quando sono terminati gli interrogatori». E l’avvocato potrà conoscere gli atti dell’indagine soltanto dopo la requisitoria scritta finale del pubblico ministero.

Ci vollero dieci anni dalla Liberazione per intaccare questo monolite autoritario. La prima breccia viene aperta con la riforma del 18 giugno 1955, n. 517: che, con l’art. 304 bis cpp, ristabilendo quanto previsto nel codice del 1913, prevede il diritto dell’avvocato ad assistere agli esperimenti giudiziari, alle perizie, alle perquisizioni domiciliari e alle ricognizioni (e con i collegati nuovi articoli 304 ter e quater impone al giudice istruttore l’avviso all’avvocato e poi il deposito dei verbali relativi a tali atti). Il difensore non è ancora ammesso all’interrogatorio dell’imputato, ma la strada è ormai tracciata. Sono trascorsi nove anni dall’elezione dell’Assemblea Costituente, otto dall’entrata in vigore della Costituzione. E finalmente il suo articolo 24 non rimane scritto solo sulla carta ma comincia a realizzarsi. Gli anni successivi costituiranno una costante espansione delle garanzie, che corrisponde alla stagione più feconda ed ottimista della storia repubblicana. Non fu una marcia incontrastata. Eppure, negli stessi anni in cui si videro il procedimento disciplinare a Dante Troisi e le manette ai polsi di Danilo Dolci davanti ai giudici di Palermo[24], si attuò una sostanziale riscrittura del codice Rocco, che si accompagnò alla cancellazione delle fattispecie più vergognose del codice penale: il reato di adulterio, l’omicidio per causa d’onore, il matrimonio “riparatore” come causa estintiva del «ratto a fine di matrimonio».

Un complesso e faticoso intreccio di sentenze della Corte costituzionale e di riforme del Parlamento plasmarono un nuovo rito: piena applicabilità di tutte le garanzie difensive previste dagli artt. 304 bis, ter e quater anche all’istruttoria sommaria condotta dal pubblico ministero (sentenza costituzionale n. 52/1965: resa necessaria in quanto per  dieci anni la Cassazione pervicacemente si era opposta a tale estensione!); avviso di procedimento (poi chiamato comunicazione giudiziaria) da inviare alle parti private sin dal primo atto di istruzione (art. 304, come riformulato dalla legge 5 dicembre 1969, n. 932); estensione delle garanzie difensive previste per gli atti istruttori del giudice a tutti gli accertamenti e alle operazioni tecniche della polizia giudiziaria (sentenze costituzionali n. 86/1968 e n. 148/1969 e legge 5 dicembre 1969, n. 932); finalmente (sono trascorsi ventitré anni dall’entrata in vigore della Costituzione), ammissione della presenza dell’avvocato all’interrogatorio dell’imputato (sentenza Corte cost. n. 190/1970 e legge 18 marzo 1971, n. 62); sua presenza anche alle ispezioni, alle perquisizioni personali, alla testimonianza e ai confronti a futura memoria (sentenze Corte cost. n. 63/1972 e n. 64/1972).

E così, dopo aver vissuto abusivamente per un quarto di secolo, l’impianto rigidamente inquisitorio del codice del 1930 è scardinato. Il rito con cui si istruiranno e celebreranno i grandi processi degli anni ’70, ’80 e ’90 in materia di terrorismo, mafia e criminalità economica non sarà quello concepito da Alfredo Rocco. Rimane la segretezza delle testimonianze raccolte dal pubblico ministero e dal giudice istruttore. A chi sostiene che non c’è ragione per trattare l’esame del teste diversamente dall’interrogatorio dell’imputato, la Corte costituzionale risponde dichiarando infondata la questione (sentenza n. 63/1972). Sarà il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore il 24 ottobre 1989, a risolvere anche questo nodo.

*In copertina un fotogramma tratto da In nome della legge (P. Germi, 1949)

 



[1] M. Berutti, Un magistrato indipendente, Gastaldi editore, Milano, 1949, p. 9.

[2] Nel 1955 Dante Troisi pubblicò, per Einaudi, Diario di un giudice, libro che rifletteva, con tono pacato e pensoso, le angosce quotidiane di un giovane magistrato di fronte alle piccole miserie della giustizia. In modo del tutto inaspettato, a seguito di un’interpellanza di un celebre avvocato romano, deputato del Msi, il ministro avviò contro Troisi un procedimento disciplinare che si concluse con la sanzione della censura.

[3] Cit. da A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 188.

[4] Con R.D. 30 gennaio 1941, n.12.

[5] R.D. Lt. 31 maggio 1946, n. 511.

[6] La decisione dei giudici sardi è particolarmente rimarchevole, se si tiene conto che, proprio nell’autunno 1926, il regime vara le cd. leggi fascistissime; con cui vengono sciolti i partiti, chiusi i giornali non allineati, istituito il tribunale speciale, revocati tutti i passaporti. Si aggiunga che Mussolini intervenne ripetutamente e direttamente nel corso dell’istruttoria contro Emilio Lussu. Tanto che, al termine dell’istruttoria, il Guardasigilli Rocco dispose che il processo si celebrasse non a Cagliari ma (per motivi di ordine pubblico) a Chieti. Sennonché, la sezione istruttoria della Corte di appello di Cagliari, riunendosi quasi clandestinamente in una notte tra il sabato e la domenica, prima che l’ordine di Rocco fosse ufficializzato, dichiarò non doversi procedere nei confronti di Lussu.

[7] Come quando, in un discorso alla Camera del 16 maggio 1929, Rocco ebbe ad affermare che «lo spirito del Fascismo è penetrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti» e che «la magistratura italiana ha dimostrato di essere aderente allo spirito del Fascismo».

[8] A. Meniconi, op. cit., p. 172.

[9] Il discorso di Caraglio è citato da G. Neppi Modona – verso cui siamo tutti debitori per i suoi studi sul tema – nel testo Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Einaudi, Torino, 1973 (vds. il capitolo La magistratura e il fascismo).

[10] G. Neppi Modona ricorda, ad esempio, il fatto che il 2 agosto 1922 (nonostante la richiesta del Prefetto) il procuratore generale di Milano si rifiutò di procedere contro i fascisti che avevano occupato con violenza il Comune (Sciopero, potere politico e magistratura, 1870-1922, Laterza, Bari, 1979).

[11] Pubblicata da Laterza, nel 2008, con il felice titolo Fede nel diritto.

[12] Ad esempio, a Torino, vecchi liberali come Domenico Riccardo Peretti Griva, Renato Greco e Giovanni Colli ritenevano che fosse possibile processare gli esponenti del regime autori dei fatti più gravi utilizzando gli strumenti del codice fascista, semplicemente invertendone i presupposti ideologici. Reati come il disfattismo politico a seguito di «intelligenza con lo straniero», puniti gravemente dal codice Rocco del 1930 – una volta assunto che lo Stato italiano, dopo il settembre 1943, è il regno di Brindisi – potevano servire a colpire i fascisti. Al contrario i più giovani, soprattutto gli uomini d’azione del CLN, non amavano questi esercizi troppo giuridici: avrebbero voluto organi di giustizia e procedure eccezionali, capaci di realizzare una giustizia di popolo, con una repressione immediata e inflessibile.

[13] Così A. Galante Garrone, Il mite giacobino, Donzelli, Roma, 1994, p. 93.

[14] La discussione si svolse all’interno della II sottocommissione della Costituente (sul potere giudiziario). Importante fu il contributo della Cassazione, che nell’ottobre 1946 presentò ufficialmente all’Assemblea uno schema di progetto approvato dall’adunanza dei presidenti di sezione.

[15] Nella II sezione della II sottocommissione erano presenti ben 7 magistrati: cinque della Dc (tra cui Oscar Luigi Scalfaro) e uno del Fronte liberale dell’Uomo qualunque.

[16] Togliatti voleva l’elettività dei magistrati, affinché fossero eliminati tutti i sovrani «senza corona e senza autorità» portatori di «spirito reazionario giuridico» (sul punto vedi A. Meniconi, op. cit., p. 284).

[17] Precisamente, si tratta del dl 22 giugno 1946 n. 4, che porta la firma di Palmiro Togliatti, all’epoca Guardasigilli.

[18] Massime riportate da C. Galante Garrone, Vita e opinioni di Alessandro Prefetti, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 72.

[19] Per un’ampia analisi della giurisprudenza di merito e legittimità in materia di famiglia, tra gli anni ’50 e i primi anni ’60, si veda A. Galante Garrone: I diritti degli italiani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1968.

[20] Luigi Bianchi d’Espinosa, Presidente del Tribunale di Milano, presiedette il collegio che celebrò il processo.

[21] Vds. G. Nozzoli e P. M. Paoletti, “La Zanzara” Cronache e documenti di uno scandalo, Feltrinelli, Milano, 1966.

[22] Rivolgendosi al Consiglio di Stato le due ricorrenti chiedevano al Consiglio di trasmettere preliminarmente gli atti alla Corte costituzionale affinché dichiarasse l’illegittimità dell’art. 8 dell’Ordinamento giudiziario del 1941 che prevedeva che «per essere ammesso a funzioni giudiziarie» era necessario essere cittadino italiano di sesso maschile.

[23] Per una precisa ricostruzione della vicenda, vds., tra gli altri, G. Marzia Locati, Le donne in magistratura, in Questione giustizia trimestrale, n. 2/2014, pp. 180-186.

[24] Danilo Dolci, dopo una prima esperienza di educatore e sociologo a Nomadelfia con don Zeno Saltini, dedicò il suo impegno riformatore a una zona particolarmente depressa della Sicilia occidentale, ingaggiando battaglie non violente, come l’occupazione e coltivazione di terre incolte di proprietari latifondisti di Partinico. Per questo fu inquisito, arrestato e condotto in catene al processo, celebrato con rito direttissimo, davanti ai giudici di Palermo, nel febbraio-marzo 1956. Difeso da Piero Calamandrei (fu l’ultimo processo del giurista fiorentino), Dolci fu assolto da tutte le imputazioni più gravi.

10/10/2017
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