Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Rettificazione di attribuzione di sesso solo previo intervento chirurgico? La parola alla Consulta

di Alessandra Nocco
Avvocato e dottoranda di ricerca presso l’Università di Torino
Nota a Trib. Trento, Sez. civile, ordinanza n. 228 del 20 agosto 2014
Rettificazione di attribuzione di sesso solo previo intervento chirurgico? La parola alla Consulta

Sommario: 1. Il caso. 2. Le argomentazioni dei giudici rimettenti. 2a. La rilevanza della questione di costituzionalità. 2b. La non manifesta infondatezza. 3. La parola alla Consulta.

1. Il caso 
 

Il Tribunale di Trento, con ordinanza n. 228 del 20 agosto 2014 (che si può leggere qui, sottopone al vaglio della Corte costituzionale l’art. 1, primo comma, della l. 14 aprile 1982, n. 164, il quale stabilisce che “La rettificazione si fa in forza di sentenza passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali” (corsivo aggiunto).

Il caso specifico da cui la rimessione origina è quello di una donna che chiede la rettificazione da femminile a maschile e l’autorizzazione a compiere, in via eventuale e futura, gli interventi medico-chirurgici necessari alla demolizione dei propri organi sessuali, nonché alla ricostruzione di quelli maschili, ritenendo tuttavia detti interventi non indispensabili per la rettificazione. L’istante espone di aver percepito sin dall’infanzia un’identità maschile, di aver sviluppato un orientamento sessuale verso le donne e di provare frustrazione e disagio per il fatto che i propri documenti d’identità e le proprie risultanze anagrafiche attestino un genere femminile.

Il Tribunale di Trento, persuaso che il tenore letterale dell’art. 1, primo comma, della l. n. 164/1982 non lasci dubbi in ordine all’indispensabilità sia del trattamento ormonale che dell'intervento medico-chirurgico (e che quindi, nel caso di specie, l’istanza della transessuale non operata vada respinta) solleva incidente di costituzionalità, reputando la disposizione in insuperabile contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU).

Prima di entrare nel merito delle valutazioni dei giudici trentini, pare opportuno ricostruire il panorama giurisprudenziale su questo delicato tema.

In antitesi al provvedimento in commento, altri tribunali di merito, pronunciandosi su casi analoghi, hanno ritenuto di poter superare il tenore letterale della norma mediante una sua interpretazione costituzionalmente orientata. In forza di tale interpretazione hanno autorizzato le rettificazioni pur in difetto di intervento demolitorio seguito da attribuzione chirurgica di nuovo sesso, reputando sufficiente la verifica, da un lato, del transessualismo degli istanti, dall’altro, del loro fermo convincimento di appartenere al sesso opposto a quello attribuito alla nascita, nonché del raggiungimento di uno stabile equilibrio psicofisico, con piena accettazione del proprio corpo (così Trib. Roma 7.11.2014, inedita; Trib. Siena 12.6.2013, http://www.intersexioni.it/una-nuova-sentenza-di-riattribuzione-di-sesso-senza-intervento-di-rcs/; Trib. Rovereto 3.5.2013, in NGCC, 2013, I, 1116, con nota di Bilotta; Trib. Roma 11.3.2011 www.equal-jus.eu; Trib. Roma 18.10.1997 in Dir. fam. pers., 1998, 1033, con nota di La Barbera). Attesa la genericità dell’espressione “modificazioni dei caratteri sessuali”, alcuni tribunali di merito hanno, per esempio, ravvisato la sufficienza della terapia ormonale ai fini della rettificazione, in quanto anch’essa modificatrice di tali caratteri. Altri, facendo leva sul disposto dell’art. 31, comma quarto, del d.lgs. n. 150 del 2011,a tenore del quale “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”,hanno affermato che l’adeguamento dei caratteri sessuali mediante intervento chirurgico non integri affatto, per il legislatore, condizione indefettibile per la rettificazione.

In particolare, secondo questo orientamento, non potrebbero essere costretti a subire l’operazione quanti, aspirando alla rettificazione, corrano gravi rischi per la propria salute col sottoporvisi, ovvero, semplicemente, avendo già completato il percorso di transizione sessuale, non lo ritengano utile né, appunto, necessario (Trib. Rovereto cit.; Trib. La Spezia 25.7.1987, in Arch. civ. 1987, 1233, ma qui nel senso che vada negata l’autorizzazione al trattamento medico-chirurgico qualora esso consista in interventi che, oltre a poter risultare pericolosi al momento dell’attuazione, non rappresentino una soluzione certa del transessualismo del richiedente né dal punto di vista somatico né psichico – con la conseguenza dell’impossibilità giuridica di rettificazione).

Quello esposto, nondimeno, è un orientamento giurisprudenziale minoritario: il requisito delle “modificazione dei caratteri sessuali”viene infatti interpretato dalla maggior parte dei giudici nel senso che, ai fini della rettificazione, sia indefettibile, oltre al completamento della terapia ormonale e al raggiungimento di un armonioso rapporto soma-psiche, anche l’intervento chirurgico (Trib. Vercelli 12.12.2014, Redazione Giuffrè 2014; Trib. Piacenza 18.2.2012, confermata da Corte d’App. Bologna 22.2.2013 www.articolo29.it; Trib. Macerata 21.5.1985 in Arch. civ. 1986, 758; Trib. Macerata 12.11.1984 in Giur. It. 1985, I, 2, 195).

Lo scarso rigore terminologico della disposizione e la già evidenziata vaghezza dell’espressione “modificazione dei caratteri sessuali” hanno tuttavia determinato, all’interno del filone giurisprudenziale maggioritario, significativi scostamenti in ordine al tipo e al grado di invasività dell’intervento chirurgico minimo ritenuto necessario ai fini della rettificazione. In difetto di specificazione normativa, infatti, l’intervento richiesto ben potrebbe riguardare la demolizione dei soli caratteri sessuali esterni (così Trib. Milano 2.11.1983, in Foro it., 1984, I, 582) oppure anche di quelli interni (si pensi alla transizione da donna a uomo e all’imposizione o meno, ai fini della rettificazione, dell’intervento di asportazione dell’utero e delle ovaie. Per esempio, nel senso che occorra l’asportazione dell’utero, delle ovaie e delle ghiandole mammarie v. Trib. Bologna 5.8.2005 in Foro it., 2006, 12, I, 3542).

Ancora, l’intervento minimo necessario può interessare, a seconda che si acceda ad un’interpretazione restrittiva o estensiva della lettera della legge, i soli caratteri sessuali secondari (es. seno, pomo d’Adamo) ovvero anche i caratteri sessuali primari (organi genitali). A questo proposito, tuttavia, è stato acutamente osservato da recente giurisprudenza di merito come, a fronte dell’agevole individuabilità dei caratteri sessuali primari, il novero dei caratteri sessuali secondari sia da considerarsi assolutamente indeterminato (così Trib. Vercelli cit., secondo cui, sulla base del principio ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus, in difetto di specificazioni da parte del legislatore la norma vada interpretata nel senso che sia necessaria anche la modificazione dei caratteri sessuali primari).

La norma, per la sua indeterminatezza, è stata inoltre intesa sia nel senso che sia sufficiente ai fini della rettificazione l’intervento demolitorio di tutti (o alcuni) dei caratteri sessuali preesistenti (Trib. Pavia 2.2.2006 in Foro it. 2006, 5, I, 1596; Trib. Bologna cit.; Trib. Benevento 10.1.1986 in Dir. Famiglia 1986, 614 nonché Riv. it. medicina legale, 1988, 264), sia che sia necessario l’ulteriore e delicato intervento ricostruttivo dei caratteri propri del nuovo sesso (Trib. Cagliari 25.10.1982, in Giur. it., 1983, I, 2, 590; Trib. Vercelli cit.), ma, in quest’ultimo caso, quasi tutti i tribunali ritengono non indispensabile la regolare o completa funzionalità degli stessi (Trib. Monza 25.10.1983, in Giur. merito, 1984, 256; Trib. Milano 2.11.1982, in Foro it., 1984, I, 582). Una posizione intermedia assumono i tribunali che ritengono sufficiente la perdita dei caratteri anatomici principali del sesso originario, con acquisizione di una sufficiente specificazione anatomica dell’altro sesso (Trib. Roma 3.12.1982, in Giust. civ., 1983, I, 996; Trib. Bologna 5.8.2005 cit.).

Parte della giurisprudenza di merito, infine, fa riferimento al diverso requisito della necessità di perdita della capacità procreativa tipica del sesso originario (Trib. Pavia 26.2.2006, in Foro it., 2006, 5, I, 1596).

Com’è agevole intuire, non si tratta di discordanze interpretative di poco conto, soprattutto se si considera il diverso impatto che le prospettate alternative hanno sul corpo e sulla psiche dei transessuali che adiscono, in base alla propria residenza, questo o quel tribunale. Per non parlare della disparità di trattamento e del vulnus alla certezza del diritto che pronunce antitetiche determinano.

In tale contraddittorio panorama giurisprudenziale è possibile allora che, da un lato, una persona transessuale non ottenga la rettificazione di sesso pur avendo affrontato un’invasiva terapia ormonale e la demolizione dei propri caratteri sessuali primari e secondari sol perché, temendo per la propria salute, non si sia sottoposta anche alla riattribuzione chirurgica del sesso, e che dall’altro, al contempo, altra persona transessuale ottenga la richiesta rettificazione pur in difetto di qualunque intervento medico-chirurgico, in quanto i giudici ritengano di poter procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione.

Bene ha fatto, allora, il Tribunale di Trento a sollevare questione di costituzionalità e a chiedere un po’ di chiarezza. Ed anzi, in questa prospettiva, se dalla Consulta non dovesse arrivare un pronuncia risolutiva, sarebbe auspicabile una rimessione alla Corte di Cassazione, la quale, in funzione nomofilattica, offra finalmente un’interpretazione uniforme della disciplina.

Ciò premesso, il presupposto di fondo dal quale prende le mosse il Tribunale di Trento nell’ordinanza che si annota è, come accennato, l’impossibilità di superare il tenore letterale dell’art. 1, comma 1 l. n. 164/1982 ed ordinare la rettificazione di sesso dell’istante, pur in difetto di previo intervento chirurgico, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata. Detta presa di posizione, apparentemente limitante per chi si ponga nell’ottica della necessaria immediata tutela dei diritti dei transessuali che non vogliano o non possano essere operati, mostra invece la sua forza se si considera che un’eventuale declaratoria d’incostituzionalità o una sentenza interpretativa  (rectius manipolativa) di rigetto aprirebbero la strada ad una tutela ben più incisiva di quella che il più sensibile tra i giudici di merito potrebbe offrire in un sistema di civil law: una tutela per tutti.

 

2. Le argomentazioni dei giudici rimettenti.

2.a) La rilevanza della questione di costituzionalità 

E veniamo alle argomentazioni dell’ordinanza. Nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale, l’istanza di rettificazione di sesso della donna transessuale, in quanto non sottoposta a previo intervento chirurgico demolitivo-ricostruttivo, secondo l’interpretazione maggioritaria accolta dai giudici trentini andrebbe rigettata, con pregiudizio del diritto fondamentale dell’istante al rispetto della propria identità di genere.

La rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l. n. 164/1982 si riconnette direttamente, pertanto, all’interpretazione letterale della disposizione, la quale, subordinando la rettificazione di attribuzione di sesso all’intervenuta modificazione chirurgica dei caratteri sessuali, secondo il Tribunale di Trento si pone in contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU). Ed invero, in tutti i casi in cui la persona transessuale non voglia (per es. per aver già raggiunto un equilibrio psico-fisico) o non possa (per es. per motivi di salute) sottoporsi all’intervento chirurgico prescritto e, per questo, non possa accedere alla rettificazione di attribuzione di sesso, i suoi diritti costituzionali vengono conculcati. La questione, dunque, è ritenuta costituzionalmente rilevante.

La domanda avanzata dall’istante nel caso di specie, segnatamente, va decisa sulla base dell’art. 1, primo comma, l. cit., il cui tenore letterale, ove stabilisce che “La rettificazione si fa in forza di sentenza passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, (corsivo aggiunto) viene assunto come insuperabile. E neppure i rimettenti ritengono (così come anche Corte d’App. Bologna e Trib. Vercelli citt.) che valga a temperarne il rigore quanto disposto dall’art. 31, comma quarto, del d.lgs. n. 150 del 2011, rubricato “Controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”a mente del quale “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”.Ed invero, secondo la prospettiva ermeneutica accolta, quest’ultima disposizione ammette la riattribuzione chirurgica di sesso come eventuale (“quando risulta necessario) solo perché considera che i caratteri sessuali possano essere stati previamente modificati (per es. all’estero o per ragioni congenite), e non perché ammetta che si possa pervenire a rettificazione in difetto di intervento.

Dall’esegesi rigorosa ed ancorata al dato letterale dei giudici trentini, conclusivamente, non può che derivare la rilevanza della questione di costituzionalità dell’art. 1 della l. 164/1982, nella parte in cui - senza che la si possa diversamente interpretare – subordina, e senza distinzioni, la rettificazione di sesso del transessuale alla previa modificazione chirurgica dei caratteri sessuali.

 

2.b) La non manifesta infondatezza

Quanto alla non manifesta infondatezza, i giudici rimettenti argomentano diffusamente sui profili di contrasto della disposizione censurata con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU), anche facendo proprie (pressoché letteralmente!) le riflessioni di sensibile dottrina (Winkler, Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione e implicazioni del diritto fondamentale all’identità di genere, in Giur. merito, fasc. 3, 2012, p. 0571B, e segnatamente par. 2.2 Struttura e contenuti del diritto all’identità di genere e 2.3. La situazione italiana). I giudici trentini, inoltre, mostrano di tenere in grande considerazione le ultime acquisizioni in campo medico e psicologico sul tema, e questo è senz’altro uno dei grandi meriti dell’ordinanza che si annota.

In primo luogo, il Tribunale ritiene si possa dubitare della legittimità costituzionale della scelta del legislatore di subordinare la rettificazione agli interventi di demolizione e riattribuzione chirurgica di sesso - come noto dolorosi, invasivi e pericolosi - in quanto contrastante con l’art. 2 Cost. L’opzione legislativa in parola, infatti, col condizionare la rettificazione ad una tanto gravosa condizione, rende eccessivamente difficoltoso – e quindi pregiudica irrimediabilmente – l’esercizio del diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 561/1987), invero, il diritto di disporre liberamente della propria sessualità è un diritto assoluto, espressione della personalità. E’ dunque pacifico, secondo i giudici rimettenti, che l’art. 2 Cost. tuteli anche il diritto all’identità di genere, “nel senso che ogni persona ha il diritto di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico”. Per tali ragioni l’art. 1, primo comma, l. n. 164/1982, ove subordina la rettificazione anagrafica dei transessuali al previo intervento chirurgico, senza considerare i casi in cui essi non vogliano o non possano sottoporvisi, contrasta con l’art. 2 Cost. in quanto rende eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto di scegliere la propria identità sessuale, il quale trova nell’art. 2 Cost. il suo referente costituzionale.

D’altra parte, il Tribunale di Trento non trascura di considerare come il diritto al rispetto dell’identità sessuale vada annoverato anche alla luce delle fonti sovranazionali tra i diritti fondamentali dell’individuo: la CEDU e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (di seguito Corte EDU), infatti, negli ultimi anni hanno offerto un contributo ermeneutico prezioso ai fini della compiuta definizione e della tutela del diritto all’identità di genere. A questo proposito, bene viene evidenziato nell’ordinanza come, secondo la Corte EDU, il diritto in parola rientri a pieno titolo nella tutela prevista dall’art. 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), sicché è incontroverso che la legislazione di uno Stato, se incompatibile con un aspetto importante dell’identità personale sotto il profilo dell’identità sessuale, possa arrecare grave pregiudizio alla vita privata del soggetto, ponendosi in contrasto con detta disposizione (il riferimento è al caso Goodwin c. Regno Unito dell’ 11 luglio 2002, nonché al precedente Dudgeon c. Regno Unito, del 22 ottobre 1981). Ancora, per la Corte di Strasburgo, come ricordato dai giudici rimettenti, la dignità e la libertà dell’uomo costituiscono il nocciolo della Convenzione, e all’art. 8 CEDU va ricondotta la tutela della sfera personale di ogni individuo, compreso il diritto di decidere i particolari della propria identità di essere umano (il riferimento è al caso Pretty c. Regno Unito del 29 aprile 2002).

Da questo punto di vista, all’ordinanza che si annota va riconosciuto l’ulteriore merito di fare buon uso degli strumenti ermeneutici offerti dalla CEDU e dalla giurisprudenza della Corte EDU per rafforzare il ragionamento giuridico e dare spessore al contenuto del diritto dei transessuali al rispetto della propria identità di genere, il quale - già riconducibile sul piano interno, come detto, all’art. 2 Cost. - viene altresì ancorato, attraverso il richiamo alle pronunce della Corte di Strasburgo, all’art. 8 CEDU, con conseguente ampliamento della sua base giuridica. E questo, va detto, non solo a beneficio della forza persuasiva della stessa ordinanza, ma altresì delle possibili tutele azionabili da quanti dovessero, successivamente ad un’eventuale dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità o di rigetto nel merito (v. infra par. 3), scontrarsi ancora con i limiti della vigente disciplina, potendo ritenere, anche alla luce delle argomentazioni svolte dai giudici trentini, nient’affatto peregrina l’ipotesi di adire allora la Corte EDU per ottenere il rispetto del diritto all’identità di genere da parte dello Stato italiano.

Svolti i predetti rilievi in ordine al contrasto della normativa italiana con le norme CEDU e con le pronunce della Corte EDU, il Tribunale conclude ricordando che detto contrasto, per consolidata giurisprudenza, dà luogo ad incidente di costituzionalità con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. Tra i parametri costituzionali in relazione ai quali viene prospettata la questione di illegittimità figura, infatti, anche l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, quale norma interposta.

Orbene, già alla luce di queste considerazioni pare potersi predicare la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità della disciplina in tema di rettificazione di attribuzione di sesso, sollevata con l’ordinanza n. 228/2014 del Tribunale di Trento. Eppure non molto tempo fa il Tribunale di Piacenza (18.2.2012), con valutazione confermata dalla Corte d’Appello di Bologna (22.2.2013) riteneva, in un caso analogo, di dover rigettare l’eccezione di costituzionalità della disciplina sollevata da un transessuale. La scelta del legislatore, pur non essendo l’unica soluzione di diritto positivo astrattamente possibile, non era infatti apparsa, allora, ai giudici piacentini e bolognesi, né illogica né irragionevole, “non comportando alcuna lesione del diritto all’identità sessuale o all’autodeterminazione ex art. 2 Cost.”, non ponendosi neppure in contrasto con l’art. 32 Cost. per essere il trattamento chirurgico “meramente facoltativo”, e non sussistendo ostacoli a che la persona transessuale vivesse la propria condizione senza la rettificazione dello stato civile.

L’analisi di questi giudici di merito, tuttavia, non pare poter essere condivisa, ed anzi è comprensibilmente tacciata (Winkler, Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione e implicazioni del diritto fondamentale all’identità di genere, cit.) di stravolgere la realtà. “Se laratio legis va individuata nella ricongiunzione dell’individuo con il proprio genere quale risultato del procedimento di rettificazione, infatti, bisogna prendere atto – come da tempo ha fatto la scienza medica – che le modificazioni dei caratteri sessuali non sempre sono necessarie e che anzi, alla luce dei diritti in gioco, l’interessato/a dovrebbe avere il potere di rifiutarle. Senza dubbio, non vi sono né logicità né ragionevolezza nel condizionare il riconoscimento di un diritto a un simile prezzo”(Winkler, Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione e implicazioni del diritto fondamentale all’identità di genere, cit.).

In linea con la dottrina, nell’iter motivazionale dell’ordinanza in commento viene messo in rilievo come, se nel passato la medicina qualificava in termini di disturbo dell’identità di genere qualunque dissociazione tra il sesso anagrafico attribuito e il genere cui la persona sentisse di appartenere, oggi tale prospettiva è stata abbandonata. Similmente, se in passato il disturbo dell’identità di genere veniva considerato guaribile solo attraverso la c.d. triadic therapy (percorso articolato in tre fasi – un’esperienza reale nel ruolo del sesso desiderato, il trattamento ormonale, la riattribuzione chirurgica di sesso – all’esito del completamento del quale la persona si considerava ristabilita ed appartenente al nuovo sesso) oggi si riconosce (così Trib. Roma 7.11.2014 cit.) che una persona transessuale possa raggiungere il proprio equilibrio psico-fisico anche solo con la trasformazione di alcuni dei suoi caratteri sessuali (per es. secondari), atteso che l’identità sessuale è concetto che ingloba anche elementi di carattere psicologico e sociale. Come evidenziato anche dalla giurisprudenza costituzionale infatti, essa integra un “dato complesso della personalità, determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l'equilibrio, privilegiando - poiché la differenza tra i due sessi non é qualitativa, ma quantitativa - il o i fattori dominanti” (Corte Cost. n. 161/1985). Abbracciando quest’ottica, il Tribunale di Trento definisce allora la sessualità umana come espressione di molteplici componenti, essendo al contempo “genetica, fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e sociale”, e dunque ritiene che la normativa vigente risponda ad una logica antiquata, non in linea con le recenti acquisizioni in campo sanitario e psicologico, con la conseguenza che l’imposizione del trattamento ormonale, nonché dell’intervento demolitorio e ricostruttivo alle persone transessuali costituisca “grave ed inammissibile limitazione al riconoscimento del diritto all’identità di genere, specie considerando che il trattamento clinico non influisce sul riconoscimento sociale dell’individuo nella stessa misura in cui influisce, invece, il mutamento del sesso anagrafico”.

In punto di fatto, il Tribunale si sofferma altresì sui rischi che i trattamenti ormonali possono comportare per la salute della persona. I giudici ricordano, infatti, che la transazione da donna a uomo può comportare ipercoagulabilità del sangue con rischio di embolia polmonare, infertilità, aumento di peso, patologie epatiche e labilità emotiva, mentre la transizione opposta può portare infertilità, malattie cardiovascolari, acne. Non meno pericolosi, per quanto le evoluzioni in campo medico-sanitario li abbiano resi meno invasivi di un tempo, sono gli interventi chirurgici per la demolizione e la ricostruzione dei caratteri sessuali.

Nel complesso, si tratta evidentemente, secondo il Tribunale, di un prezzo troppo alto per i transessuali che non ritengano utile né necessario per il proprio benessere pagarlo; eppure, al fine di ottenere la rettificazione di attribuzione di sesso, vi si trovano costretti in forza della legge che dovrebbe tutelarli. E’ dunque pacifico, secondo i giudici rimettenti, che la disciplina vigente in materia entri in conflitto altresì con l’art. 32 Cost., il quale presidia la salute, diritto assoluto dell’individuo ed interesse della collettività. Secondo quanto la disposizione di cui all’art. 1, comma 1, l. n. 164/1982 letteralmente stabilisce, infatti, la possibilità di effettivo esercizio del diritto all’identità di genere e di autodeterminazione in ambito sessuale non possono che passare attraverso l’imposizione di trattamenti sanitari invasivi e pericolosi, quando non anche inutili (come nei predetti casi in cui il soggetto abbia completato il suo percorso di transizione sessuale, dimostri di aver raggiunto uno stabile equilibrio psicofisico, non manifesti alcuna forma di rifiuto/disgusto dei propri caratteri sessuali e, per tali ragioni, non intenda sottoporsi ad interventi chirurgici).

Interessante notare, da ultimo, come nell’ordinanza non si argomenti in ordine al contrasto della disposizione con l’art. 3 Cost., pur invocato quale parametro di legittimità nella rimessione alla Consulta. Forse così ovvia è parsa la violazione del principio di uguaglianza (sub specie di discriminazione basata sul sesso e sulle condizioni personali) a sfavore dei transessuali, da averne ritenuto superflua la dimostrazione.

Come che sia, i giudici trentini concludono affermando che, “alla luce dei diritti «in gioco»” è necessario riconoscere alla persona transessuale il diritto di rifiutare le modificazioni chirurgiche dei caratteri sessuali, senza che questo comporti, a priori, impossibilità giuridica di rettificazione. Ed invero, secondo l’ordinanza di rimessione, “una volta riconosciuto che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso costituisce un vero e proprio diritto della personalità, non sembra consentito al legislatore subordinarlo a restrizioni tali da pregiudicarne gravemente l’esercizio, fino a vanificarlo”.

 

3. La parola alla Consulta

Quali prospettive possano aprirsi ora è difficile a dirsi. Una prima possibilità è che la Corte Costituzionale dichiari la questione inammissibile, con preclusione dell’esame del merito. Non del tutto eccentrica pare, infatti, l’ipotesi che la questione sia dichiarata inammissibile: a) perché si fonda su un erroneo presupposto interpretativo; b) per mancato esperimento, da parte del giudice a quo del tentativo di interpretazione conforme a Costituzione (pur se, in questo caso, si tratterebbe, secondo i più, di interpretazione contra legem); c) perché la questione si risolve in una richiesta di avallo della Corte dell’opzione interpretativa del giudice rimettente, la quale tuttavia non costituisce l’unica interpretazione possibile della normativa censurata, come dimostrato dalle oscillazioni giurisprudenziali; d) perché la questione coinvolge scelte discrezionali del legislatore, al quale esclusivamente spetta di decidere (come infatti è stato) se subordinare o meno la rettificazione anagrafica di sesso alla condizione del previo intervento chirurgico.

Fatta salva l’ipotesi di cui alla lett. d), la Consulta potrebbe, pertanto, decidere di non entrare nel merito della questione di legittimità sollevata, e di sostenere che i rimettenti avrebbero dovuto interpretare la disposizione - non secondo il suo tenore letterale, ma - in modo costituzionalmente e convenzionalmente orientato, così come già fatto da altri tribunali di merito, consentendo la rettificazione dell’istante pur in difetto di intervento chirurgico. Se si verificasse detta ipotesi, pur a fronte di una decisione di inammissibilità (semplice o manifesta) della questione, il diritto vivente ne sarebbe arricchito, atteso che sarebbe finalmente chiara l'interpretazione (in contrasto con il dato letterale, ma costituzionalmente orientata) da dare alla disposizione, con la conseguenza che non vi sarebbe spazio per ulteriori disparità di trattamento determinate da sentenze di segno opposto.

Molto diversa l’ipotesi di cui alla lett. d): in questo caso, pur ritenendo corretta l’interpretazione letterale del Tribunale di Trento, la Consulta potrebbe affermare che la scelta di subordinare la rettificazione all’intervento chirurgico rientri nella discrezionalità del legislatore e, come tale, non sia sindacabile in sede di incidente di costituzionalità. L’inevitabile conseguenza sarebbe la dichiarazione d’inammissibilità della questione (così è avvenuto di recente, in materia di famiglia, con Corte cost. n. 138/2010). Anche in tale ipotesi, pur a fronte di una decisione di inammissibilità, il quadro giurisprudenziale sarebbe più chiaro, ma qui nel senso, opposto, di dover interpretare la disposizione sempre e solo secondo il suo tenore letterale, escludendo in radice ogni possibilità di autorizzare rettificazioni anagrafiche in difetto di intervento medico-chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali. Se così dovesse essere, non sarebbe forse peregrina, come accennato, la possibilità di rivolgersi, da parte dei transessuali, alla Corte EDU per invocare l’auspicabile tutela dei propri diritti.

Ulteriore possibilità è quella che la Consulta emetta una pronuncia interpretativa – rectius manipolativa - di rigetto, dichiarando la disposizione censurata non in contrasto con i gli artt. 2, 3, 32 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, se correttamente interpretata nel senso di consentire la rettificazione anche in difetto di previo intervento chirurgico demolitivo-ricostruttivo, qualora esso possa compromettere la salute del transessuale ovvero quanto questi non voglia sottoporvisi, avendo già raggiunto (e documentato di aver raggiunto) uno stabile equilibrio psico-fisico, nonché completato il proprio percorso di transazione sessuale dal genere attribuito alla nascita al nuovo genere. Se tale ipotesi dovesse verificarsi, il vantaggio della pronuncia - stavolta nel merito - sarebbe quello di una tutela omogenea su tutto il territorio nazionale, atteso che non sarebbe più percorribile, così come nella prima ipotesi esaminata, la strada di un’interpretazione meramente letterale della norma, pur tante volte sin’ora imboccata da pronunce dimentiche, a tacer d’altro, degli insegnamenti sovranazionali in tema di diritto all’identità di genere.

Da ultimo, la Consulta potrebbe emettere una sentenza di illegittimità costituzionale del’art. 1, comma 1 della l. cit. nella parte in cui subordina la rettificazione della attribuzione di sesso alla intervenuta modificazione dei caratteri sessuali, per contrasto con tutti o alcuni dei parametri costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione (artt. 2, 3, 32, 117 Cost. - art. 8 CEDU), così estromettendo dall’ordinamento una disposizione ritenuta irrispettosa dei diritti fondamentali delle persone transessuali. Come evidenziato nell’ordinanza in commento, peraltro, il Tribunale di Trento non ignora che una declaratoria di incostituzionalità avrebbe ripercussioni pratiche per nulla irrilevanti, “nel senso che, allora, l’esame «esteriore» della persona sarebbe inidoneo a rilevare il suo sesso”. Ma questo, secondo i giudici rimettenti, non deve lasciare perplessi: “in un paese civile, infatti, l’identità sessuale viene accertata tramite i documenti di identità e non certo per mezzo di un’ ispezione corporale”.

 

 

 

04/03/2015
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