Magistratura democratica
Magistratura e società

Propaganda ateistica: laicità e divieto di discriminazione

di Nicola Colaianni
già consigliere della Corte di cassazione e ordinario di diritto ecclesiastico, Università di Bari
La libertà di propaganda della propria fede religiosa, sancita dall’art. 19 Cost., si estende a quella ateistica o agnostica, anche se fatta con modalità pubblicitaria. La disparità di trattamento urta contro il divieto di discriminazione e viola il principio di laicità

1. La pubblicità in materia religiosa

È una zona di turbolenza la libertà di propaganda in materia religiosa, come dimostra la vicenda giudiziaria che trova ora un punto fermo nella sentenza della Cassazione 17 aprile 2020, n. 7893. A ricorrere era la UAAR - Unione atei agnostici razionalisti -, un’associazione di promozione sociale che tende ad entrare nel discorso pubblico con proposte e ideali e ad ottenere riconoscimento e azioni positive da parte dei pubblici poteri, pari a quelli delle confessioni religiose. Essa, infatti, è nota alle cronache giudiziarie soprattutto per essere stata causa di un conflitto di attribuzione tra il Governo e la Corte di cassazione risolto dalla Corte costituzionale[1] nel senso che non spettava a quella Corte affermare la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei ministri aveva negato all’UAAR l’apertura, non diversamente dalle antagoniste confessioni religiose, delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, della Costituzione.

Questa forma di militanza attiva e collettiva, inedita per l’ateismo, un ateismo de combat [2], si propaganda in varie forme da quelle culturali degli eventi, riviste, convegni fino a quelle essenzialmente pubblicitarie, come le scritte sugli autobus o nelle stazioni delle metropolitane[3] o sui cartelloni stradali: manifesti di grande formato con scritte quali “la cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno” oppure, come in questo caso, «10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c'è l'UAAR al loro fianco», con in più la D di Dio barrata con una crocetta e il logo dell’associazione.

La pubblicità in materia religiosa, fatta da organizzazioni religiose o ateistiche o agnostiche[4], rispetto alla propaganda in generale presenta la novità derivante dal trattare una materia altamente sensibile e complessa per le coscienze in maniera inevitabilmente semplificatoria, cercando di persuadere non con un pensiero argomentato ma con un disegno grafico, uno slogan, un aforisma. “Un aforisma non si può dettare su nessuna macchina da scrivere. Ci vorrebbe molto tempo” - insegnava il massimo creatore di aforismi, Karl Kraus – e anche perciò “un aforisma non ha bisogno di essere vero, ma deve scavalcare la verità. Con un passo solo deve saltarla”[5]. O almeno, nella odierna pubblicità attraverso mass-media, manifesti e social, aumentarne il valore percepito, alimentando la visibilità del brand con un linguaggio sincopato, fatto di frasi di effetto che lavorano sull’emotività. Non a caso in Francia l’ateismo si va diffondendo, grazie alla componente essenziale costituita dal giornale satirico Charlie Ebdo, attraverso un “simple funny language. This is a language that normally avoids intellectual efforts, as normally requested by some forms of contemporary atheism[6].

Non è incompatibile questo sbrigativo e poco meditato marketing ateo, del tutto simile a quello utilizzato a fini commerciali per offrire un servizio o un prodotto, con la sensibilità religiosa, diffusa a livello sociale? “Dio” con la D barrata, dieci milioni di italiani che vivono bene senza Dio, una grafica che sembra uno sberleffo…. Affissione negata, dunque, dalla Giunta comunale perché il messaggio sarebbe “potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione” e, stante la sua rappresentazione grafica, “tale da urtare la sensibilità del sentimento religioso in generale” secondo il tribunale di Roma, il cui giudizio trova conferma nella Corte d’appello.

2. Tra libertà e limiti

I rilievi dei giudici di merito sono simili a quelli opposti, per una trentina d’anni dopo la Costituzione, alle confessioni religiose diverse dalla cattolica. L’art. 113 TULPS, che prevedeva l’autorizzazione di polizia per la distribuzione di scritti e volantini – per prassi poliziesca applicato solo nei confronti dei cosiddetti “culti ammessi” –, venne meno solo con la prima storica sentenza della Corte costituzionale nel 1956. Ma persisteva – e persisterà fino alla soglia del nuovo secolo, quando fu dichiarato illegittimo costituzionalmente[7] – l’art. 402 cod. pen. sul vilipendio della religione cattolica e, in particolare, del suo patrimonio dogmatico, che si giudicava illecito offendere con critiche che non siano “frutto di osservazioni meditatamente formulate a seguito di studi”[8]. Un livello già difficilmente attingibile nell’ordinaria discussione, a meno che vi si impegnino dotti filosofi e teologi, ma sicuramente non nella messaggistica pubblicitaria attraverso cartelloni stradali. Nondimeno proprio a questo riguardo quell’indirizzo di recente è stato citato nella giurisprudenza penale, sia pure non decisivamente ma a buon peso visto che si trattava di due casi di evidente e aggressivo disprezzo della religione, di mera offesa fine a se stessa[9]. La condivisione dell’esito di queste sentenze quanto ai limiti della critica non toglie che quella in esame si distacchi consapevolmente dalla ritenuta necessità che il carattere meditato sia necessario anche nella pubblicità per abbracciare piuttosto il filone interpretativo inaugurato nel 1975 dalla Corte costituzionale.

Questa perimetrò al minimo l’area del vilipendio riconoscendo che “non sussisterebbe quella libertà di far “propaganda” per una religione, come espressamente prevede e consente l’art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi”[10]. “Liberamente”, cioè “in qualsiasi forma” come recita l’art. 19. Si raggiunse così anche a livello giurisprudenziale l’obiettivo della “eguale libertà delle confessioni” (art. 8 Cost.) sotto il profilo della propaganda, rafforzatasi poi sul piano legislativo per molte di esse (undici al momento) grazie all’approvazione delle intese stipulate con il governo. E anche per quelle – peraltro, con maggior numero di fedeli: le comunità islamiche e i testimoni di Geova – rimaste fuori dal convenzionamento con lo Stato l’art. 19 dispiega al massimo la sua tutela, in uno con l’art. 9 CEDU. La Corte EDU, infatti, a questa stregua ha riconosciuto, per esempio, il proselitismo dei testimoni di Geova quale “the right to try to convince one’s neighbour”, altrimenti “freedom to change [one’s] religion or belief", enshrined in Article 9 (art. 9), would be likely to remain a dead letter[11]. Naturalmente, occorre che il proselitismo, e la propaganda in genere, non sia “improper”, non oltrepassi cioè, nella confutazione pur se vivacemente polemica, i limiti del rispetto dell’altrui credenza[12] e, in genere, gli altri limiti previsti dall’art. 9 a motivo dell’ordine pubblico, della morale pubblica sempre che necessari ad una società democratica.

 

Per vero, di fronte alla variante della pubblicità la Corte EDU ha vacillato: valgono interamente tali principi per la propaganda religiosa di massa, attuata attraverso la cartellonistica stradale o manifesti pubblicitari, di natura ordinariamente commerciale? Il caso riguardava un manifesto con cui il movimento raëliano – un gruppo che gode, secondo la Corte federale svizzera, del diritto alla libertà religiosa “nella misura in cui difende una visione globale del mondo, specialmente con riferimento alla sua creazione e all’origine delle varie religioni” – propagandava “le message donné par les Extra-Terrestres”: “La science remplace enfin la religion!”. Quasi accedendo alla celebre teoria di Marshall McLuhan secondo cui “il mezzo è il messaggio”[13], indipendentemente dai contenuti che veicola, la Corte, dato lo strumento utilizzato, ha visto in quest’azione di proselitismo qualcosa di simile alla “induzione all’acquisto di un particolare prodotto”. Sembrando perciò tali manifesti “di per sé più vicini a comunicazioni commerciali che a comunicazioni politiche”, essa ha riconosciuto sussistente il più ampio margine di apprezzamento concesso agli Stati “nella regolazione delle espressioni in ambito commerciale o pubblicitario” [14].

Tuttavia, di recente la Corte è tornata sui suoi passi e alla sua giurisprudenza consolidata, riconoscendo che, sebbene il mezzo utilizzato sia di carattere essenzialmente pubblicitario, è necessario comunque un corretto e proporzionato bilanciamento tra l’espressione del pensiero, involgente temi religiosi, e le ragioni sociali: così, quanto ad un manifesto censurato perché pubblicizzava capi di abbigliamento con espressioni religiose, essa non ha riconosciuto il legittimo esercizio del margine di apprezzamento perché ha giudicato essere mancato un fair balance tra protezione della morale pubblica e libertà di espressione dell’azienda da parte delle autorità lituane, che, in violazione dell’art. 10 della Convenzione, “gave absolute primacy to protecting the feelings of religious people, without adequately taking into account the applicant company’s right to freedom of expression[15].

È esattamente il tipo di bilanciamento completamente omesso – rileva la Cassazione – nella sentenza della Corte d’appello, che pure, confermando quella del tribunale, aveva espresso il convincimento che la barratura della lettera “D” dalla parola “Dio” – anche se seguita dalla scritta “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c'è l’UAAR al loro fianco” e dal logo dell’UAAR – non integrasse un messaggio di propaganda ma solo un “annullamento del concetto di Dio”, lesivo, quindi, di ogni credo religioso e dei suoi fedeli. Ma, pure a voler seguire tale percorso, è compito del giudice spiegare perché questo mero “annullamento” trasmodi in condotta vilipendiosa, perciò da prevenire con il diniego di autorizzazione ad affiggere il manifesto, e non rimanga manifestazione lecita del pensiero: sul che, non avendolo fatto quello della sentenza cassata, dovrà pronunciarsi il giudice di rinvio.

 3. Il quadro normativo europeo…

Pare comunque, e giustamente, semplicistico alla Cassazione negare che un tale messaggio si risolva in una forma di propaganda, almeno indiretta, a favore dell’ateismo: non c’è bisogno di un messaggio “propositivo o didascalico” per integrare una forma di propaganda. È sufficiente una forma grafica[16], l’indicazione dell’esistenza di una realtà opposta: se in campo ci sono solo a e b, annullando a rimane in campo solo b. E nel caso, proprio perché il messaggio critica non un altare, ma tutti gli altari, esso evidentemente propaganda il contraltare, indicato anche nella sua forma organizzativa come UAAR. Basterebbe, del resto, essere attratti subito dal logo, come spesso accade nei messaggi pubblicitari, prima di cominciare a leggere le frasi per rintracciare la propaganda almeno a livello subliminale.

Non è allora che la strana esclusione del carattere propagandistico di quel messaggio, involgente temi religiosi, sia funzionale alla rimozione della questione di fondo della garanzia posta dall’art. 19 della Costituzione? Se, cioè, la propaganda religiosa è garantita solo ai credenti, a favore della confessione di ciascuno e/o della religione in genere, o anche ai non credenti, a favore dell’ateismo o dell’agnosticismo? L’eventuale deficit di tutela, va avvertito, sarebbe più ampio di quanto lo schematismo degli estremi faccia apparire in quanto la realtà è fatta di un’iridescenza di posizioni, che in molti casi si stenta ad ascrivere interamente alla religione o all’ateismo perché si pongono nel range tra questi due estremi (s’è visto prima il caso del movimento raëliano: è religioso, perché creazionista come dice il tribunale federale svizzero, o ateo perché ambisce a sostituire la religione con la scienza?). Che possano darsi anche religioni senza Dio è tema dall’illuminismo in poi presente nel dibattito culturale e con impostazioni molto discordi[17]. Ma anche tra le posizioni religiose le più autorevoli per spiritualità si ammette che in ogni credente c’è anche un non credente, al punto di considerare come fondamentale la distinzione tra persone pensanti e non pensanti[18]. Ciò che importa, tuttavia, è che, al cospetto di varie espressioni di ateismo comunitario, quale quella dell’UAAR, un autorevole dibattito filosofico comincia ad interagire con il livello giuridico–istituzionale. Come negli Stati Uniti dove oltre cinquant’anni fa la Corte suprema, nello statuire che “neither a State nor the Federal Government can aid those religions based on a belief in the existence of God as against those religions founded on different beliefs”, inseriva, sia pure in nota, tra le religioni non teiste anche il “secular humanism[19]. E lì pure e tuttora quell’affermazione non la passa liscia: che la Corte suprema sia “riuscita anche a introdurre una nuova religione, l’umanesimo secolare”[20], appare un arbitrio, un’invasione del campo riservato al Congresso, ai sostenitori dell’interpretazione “originalista” del First Amendment, secondo la volontà (originale, appunto) dei padri costituenti.

Il rischio di una tutela ineguale di tali situazioni di fatto non esiste alla stregua dell’art. 9 CEDU che pone sullo stesso piano delle religioni anche le “convinzioni” non religiose e, quindi, anche a queste si estende il “diritto di convincere” a cambiare religione o abbandonarla. Analogamente dispone l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha lo stesso valore dei trattati, e, del resto, l’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea pone le organizzazioni religiose e quelle filosofiche e non confessionali sullo stesso piano. Tale normativa europea, quella sopranazionale della UE e quella internazionale della Convenzione EDU, grazie al richiamo ad essa operato dall’art. 117 Cost. fa blocco con la Costituzione formale[21], ancorché abbia una forza subcostituzionale trovando il limite dei principî supremi (quelle unionali) o addirittura di tutte e singole le norme costituzionali, per dir così “ordinarie” (quelle convenzionali)[22]. Ma – a parte il fatto che questa barriera opposta all’ingresso in Costituzione in concreto non è stata finora operativa e con il passare del tempo si va rivelando un orpello retorico[23] – rimane assodato che, se non si “può consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno” neppure si “può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale” [24]. La conseguenza di questo ragionamento – ha aggiunto la Corte – è che “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti”.

 4. …e quello italiano

Ma la parità di trattamento delle opposte posizioni sul sentimento religioso nel nostro ordinamento non dipende solo dal soccorso della normativa europea. In realtà, per quanto non emerga ictu oculi dal testo dell’art. 19 e per alcuni decenni la giurisprudenza sia stata invero di contrario avviso, la normativa costituzionale è di identico tenore. Già la sentenza citata 188/1975, lungi dal riferirsi soltanto alla propaganda di una confessione religiosa rispetto alle altre, aveva esteso il suo raggio interpretativo anche alle concezioni non religiose affermando la liceità della “espressione anche di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano”. E non si trattava della classica rondine che non fa primavera perché quattro anni dopo interveniva la sentenza 117/1979, che, operando un revirement rispetto ai precedenti giurisprudenziali sul giuramento processuale[25], accoglieva l’eccezione di incostituzionalità dando atto che “l’opinione prevalente fa ormai rientrare la tutela della c.d. libertà di coscienza dei non credenti in quella della più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall'art. 19”. Con questa sentenza la Corte per la prima volta collega la tutela della libertà religiosa non agli elementi essenziali, propri e peculiari, della religione ma alla salvaguardia della coscienza, di credenti e non credenti. Si coglie così il rapporto di chiara interdipendenza[26] tra prospettiva religiosa e prospettiva agnostico-ateista in una visione unitaria del fenomeno, talvolta recepita anche nella legislazione, come in tema di riconoscimento dello status di rifugiato[27], o nelle proposte legislative sulla libertà religiosa, in cui sono espressamente previste le associazioni ateistiche o agnostiche tra quelle che “soddisfano istanze di libertà della persona in materia religiosa”[28].

Intanto, a livello giurisprudenziale capitola definitivamente il criterio quantitativo della numerosità dei fedeli e, quindi, della presumibile “maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali che suscitano le offese” alla religione cattolica[29]. Di conseguenza, “l’abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza”[30]. E ancora, l’anno successivo, è la protezione della coscienza (“problemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta” quanto all’avvalersi dell’insegnamento di religione cattolica[31]) che giustifica l’affermazione della laicità come principio supremo dell’ordinamento costituzionale e, quindi, non modificabile neppure con procedimento di revisione costituzionale se non al costo di una rottura della legalità costituzionale e di un mutamento di regime.

Specialmente nelle sentenze sulla tutela penale dei culti la Corte richiama il principio di laicità, che “comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose”[32], quale “riflesso del principio di laicità”[33], che la “distinzione tra ‘ordini’ distinti, caratterizza nell’essenziale”[34] . Esso percorre la motivazione di alcune sentenze della Cassazione[35], che infatti lo ha evocato anche nella specie come principio di diritto, desunto dagli “artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e dell’art. 1 del Protocollo addizionale al Concordato tra Stato e Chiesa del 1984”.

(Benché, va osservato, sia improprio desumere un principio costituzionale supremo non solo da altri principî costituzionali ma anche da una norma subcostituzionale, come quella contenuta nel citato protocollo addizionale, che quale accordo internazionale integra il parametro costituzionale espresso dall’art. 117 Cost. ma intanto può vincolare la legislazione ordinaria in quanto non sia a sua volta contraria alle norme costituzionali[36]: esame che, peraltro, la detta norma protocollare supera perfettamente senza necessità di scomodare il principio di laicità – del resto, nel 1984 non ancora elaborato dalla Corte - in quanto la cessazione di vigore del principio della religione dello stato è conseguente alla norma costituzionale, per così dire “ordinaria”, della eguale libertà di tutte le confessioni religiose, compresa la cattolica, contenuta nel primo comma dell’art. 8).

Vero, quindi, che come affermato nella sentenza d’appello richiamando la sentenza della Corte costituzionale, il principio di laicità implica la “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione”: ma, conformemente alla sentenza 117/1979, tanto se il risultato della libera ricerca sia positivo quanto se sia negativo, e quindi “anche se si tratta di un credo ateo o agnostico”. Nel “regime di pluralismo confessionale e culturale” affermato dalla Corte costituzionale la laicità si connota come laicità pluralista.

 5. Laicità e divieto di discriminazione

Dal principio di laicità discende che la violazione della parità di trattamento tra credenti e non credenti, tra organizzazioni confessionali e organizzazioni non confessionali o filosofiche, configura un atto discriminatorio. Stranamente la Corte d’appello lo aveva ritenuto ravvisabile nella specie solo se, nel medesimo contesto locale e temporale, fosse stata – in ipotesi – concessa ad organizzazioni religiose la possibilità di manifestare il proprio credo: ciò non risultando, non si darebbe discriminazione. Ma la volontà discriminatoria può individuarsi anche con una comparazione diacronica, valutando se, prima o dopo il diniego, siano stati concessi spazi ad organizzazioni di religioni “positive”: è evidente, infatti, che la negazione di spazi, in ipotesi concessi alle confessioni con concordato o intese ad esempio per propagandarsi allo scopo di raccogliere risorse come l’otto per mille presso i contribuenti, alle organizzazioni non confessionali che intendono pubblicizzare un’opzione religiosa “negativa”, integrerebbe una palese discriminazione in danno di queste ultime.

Giustamente, quindi, la Cassazione ha ancorato agli art. 1 e 2 della Direttiva n. 78/2000 e agli artt. 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, la “discriminazione vietata, che si verifica quando, nella comparazione tra due o più soggetti, non necessariamente nello stesso contesto temporale, uno di essi è stato, è, o sarebbe avvantaggiato rispetto all'altro, sia per effetto di una condotta posta in essere direttamente dall'autorità o da privati, sia in conseguenza di un comportamento, in apparenza neutro, ma che abbia comunque una ricaduta negativa per i seguaci della religione discriminata”.

Ci si può chiedere, peraltro, se la valutazione comparativa, propria del giudizio antidiscriminatorio, debba necessariamente operarsi tra due o più soggetti concreti, che versino in contesti analoghi, o anche tra il trattamento concreto di un soggetto e quello di giustizia o di congruità ipoteticamente dedotto e deducibile dalla Costituzione. Almeno nel campo dei diritti costituzionalmente garantiti sembrerebbe congruo doversi accordare la tutela a prescindere dalla comparazione con altri soggetti, cioè non perché si assuma di non aver goduto di un diritto a differenza di altre comunità o di altri soggetti ma perché si ritiene che il trattamento legato a quella differenza sia, in sé, ingiusto alla luce dei loro diritti costituzionalmente garantiti.

Ed in effetti già nella sentenza Mangold il divieto di discriminazione (nella specie, relativo all’età) - svincolato dalla direttiva comunitaria 78/2000, il cui termine di recepimento non era ancora scaduto - venne collegato ad un principio generale dell’ordinamento comunitario, che “trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri”[37]: il quale ora è ancorato, ben più che sommariamente in tradizioni costituzionali comuni e in accordi internazionali, specificamente nell’art. 21 della carta di Nizza[38], che ha lo stesso valore dei trattati: e perciò non è resistibile – sia pure nelle materie di competenza UE, quanto alla giustiziabilità dinanzi alla Corte di giustizia, ma anche al di fuori del campo di applicazione delle direttive in cui è concretizzata - da alcuna normativa europea o nazionale.

Inoltre, con l’importante direttiva, di così ampia applicazione, viene data rilevanza per la prima volta nel diritto antiscriminatorio all’offesa alla dignità personale. Ed è evidente che in questo caso la discriminazione prescinde dalla comparazione con il trattamento di soggetti in condizioni analoghe: ed infatti la giurisprudenza aveva prevenuto il legislatore, stabilendo che quando è sotto attacco la dignità della persona la tutela non può essere subordinata a condizioni, come la comparazione con altre situazioni, perché la dignità è incomparabile. Il caso era quello del mutamento di sesso di un transessuale: il licenziamento per tale motivo fu giudicato discriminatorio a prescindere da comparazioni, perché lesivo del principio generale di uguaglianza in base al sesso di ogni persona e, quindi, del “rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare”[39].

Il trend europeo sembra, pertanto, ammettere che il principio di non discriminazione operi direttamente come principio generale sovranazionale non necessariamente attraverso una comparazione. Per fare un altro esempio, qualora il pregiudizio arrecato a una donna sia dovuto al suo stato di gravidanza, essa sarà considerata vittima di una discriminazione diretta basata sul sesso, senza necessità di un termine di confronto. Non è necessario in tal caso provare l’esistenza di un soggetto avvantaggiato perché è notoria la mancanza di pregiudizio, nella parità di tutte le altre condizioni, dell’uomo o della donna non in stato di gravidanza[40]. Analogo discorso si potrebbe fare per la propaganda ateistica, essendo notorio che quella confessionale non subisce alcun pregiudizio.

In generale, quindi, a livello dell’Unione, con i suoi riflessi su quello nazionale, c’è spazio per questa nuova frontiera del diritto antidiscriminatorio nel campo dei diritti garantiti dalla Costituzione, dalla carta di Nizza e dalla CEDU: un diritto assoluto non a non essere più svantaggiati rispetto ad altri, bensì a non essere svantaggiati, puramente e semplicemente. La libertà di religione o dalla religione o verso la religione, cioè ad esito positivo o negativo o agnostico, rientra tra questi diritti e perciò sussiste il divieto diretto di discriminazione nell’ostacolarne il godimento.

La complexio oppositorum tra religioni e ateismi[41] è alla base del principio di laicità, il quale, separandosi dalla normativa ecclesiasticistica che ne è stata solo la levatrice, oggi sempre più si propone come governance della complessità sociale determinata dalle diversità culturali e religiose delle società contemporanee: l’unico modo per evitare quel che, in coincidenza con la sentenza 203/1989, un giurista americano ha chiamato the clash of absolutes[42] in una società in cui “hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse”[43]. E, tuttavia, non è ancora diventato l’algoritmo dell’interpretazione della giurisprudenza di merito, pure la più vicina ai cittadini, in combinazione con la difficoltà che incontra la recezione dei diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, come diritti dei più deboli, delle minoranze, rispetto alle leggi dei più forti, delle maggioranze.

  

 

[1] Corte cost. 27 gennaio 2016, n. 52, che annulla Cass. sez. un. 28 giugno 2013, n. 16305.

[2] N. Colaianni, Ateismo de combat e intesa con lo Stato, in Rivista AIC. Associazione italiana dei costituzionalisti, 2013, n. 4; P. Floris, Ateismo e Costituzione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2011, n.1, pp. 87 ss. 

[3] G. Cimbalo, Ateismo e diritto di farne propaganda tra dimensione individuale e collettiva, ibid., p. 119 s., riporta anche altre scritte affisse in Australia, Spagna e Stati Uniti.

[4] M. Toscano, L’ordinamento radiotelevisivo e la comunicazione religiosa, in Nozioni di diritto ecclesiastico, a cura di G. Casuscelli, Giappichelli, Torino, 2015, p. 443 propone la definizione “pubblicità di tendenza”, corretta ma generica perché non rende l’oggetto specificamente attinente alla materia religiosa.

[5] K. Kraus, Detti e contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano, 2009 (1955), p. 137.

[6] F. Alicino, Atheism and the Principle of Laïcité in France. A Shifting Process of Mutual Adaptation, in Stato e chiese, 2018, n. 32.

[7] Corte cost. 20 novembre 2000, n. 508.

[8] Cass. 20 febbraio 1967, n. 313, radicalmente criticata da S. Lariccia, Tutela penale della religione cattolica e libertà di pensiero, in Giurisprudenza italiana, 1967, II, cc. 337-45, e da F. Finocchiaro, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, sub art. 19, Zanichelli – Il foro italiano, Bologna-Roma, 1977, p. 290.

[9] Nel caso di Cass. pen. 13 ottobre 2015, n. 41044 il cartellone raffigurava il papa Benedetto XVI e il suo segretario con la scritta “ chi di voi non è culo scagli la prima pietra”; in quello di Cass. 17 gennaio 2017, n. 1952, ancora in riferimento allo stesso papa, la scritta era “buco di culo da cui quotidianamente vomita fiumi di merda”.

[10] Corte cost. 8 luglio 1975, n. 188.

[11] Corte europea dei diritti umani, Kokinnakis c. Grecia, 25 maggio 1993. Cfr. J. Pasquali Cerioli, Propaganda religiosa: la libertà silente, Giappichelli, Torino, 2018, p. 97.

[12]Corte europea dei diritti umani, Murphy c. Irlanda, 3 dicembre 2003.

[13] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Net, Milano, 2002 (1964), pp. 16 ss.

[14] Corte europea dei diritti umani, Grande Camera, Movimento raëliano c. Svizzera, 13 luglio 2012: decisione sofferta (9 voti contro 8), confermativa di quella della sezione semplice de 13 gennaio 2011, criticata da G. Fattori, Il caso dei raëliani contro la Svizzera, in Studi urbinati digitali, v. 61, n. 3, p. 369 ss.

[15] Corte europea dei diritti umani, Sekmadienis ltd. c. Lituania, 30 gennaio 2018, commentata da N. Colaianni, Quando la libertà prevale sulla morale: la pubblicità, in Questione giustizia.it, 2018.

[16] Conf. J. Pasquali Cerioli "Senza D”. La campagna Uaar tra libertà di propaganda e divieto di discriminazioni , in Statoechiese.it, 2020, n. 9, p. 54.

[17] Per stare ad alcune delle ultime: H. Kelsen, Religione secolare. Una polemica contro l’errata interpretazione della filosofia sociale, della scienza e della politica moderne come “nuove religioni”, Raffaello Cortina, Milano, 2014 (1964); R. Dworkin, Religion without God, Harvard University Press, Cambridge, MA.- London, 2013; U. Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Laterza, Roma-Bari, 2009.

[18] C.M. Martini, Cattedra dei non credenti, Rusconi, Milano, 1992, p. 5, che riprende una distinzione di N. Bobbio (ibid., p. 120).

[19]Among religions in this country which do not teach what would generally be considered a belief in the existence of God are Buddhism, Taoism, Ethical Culture, Secular Humanism and others”: Torcaso v. Watkins, 367 U.S. 488 (1961), fn. 11. Il caso era nato dalla revoca di un impiego pubblico a seguito del rifiuto del Torcaso di dichiarare la propria fede nell’esistenza di Dio, come stabilito dall’articolo 37 della Declaration of Rights della Costituzione del Maryland.

[20] R.H. Bork, Il giudice sovrano, a cura di S. Sileoni, Liberilibri, Macerata, 2006, p. 53. Sull’originalism (o textualism) nell’interpretazione della Costituzione americana cfr. M.C. Nussbaum, Liberty of Conscience. In Defence of America’s Tradition of Religious Equality, New York, Basic Books, 2008, pp. 100-108, 120-134.

[21] Sulle “metamorfosi dell’ordinamento costituzionale” prodotte dai vincoli europei A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, voce dell’Enciclopedia del diritto, Annali VIII, Giuffrè, Milano, 2015, pp. 350 ss.

[22] Rispettivamente Corte cost.   29 dicembre 1988, n. 1146, e 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349.

[23] “Una forma di placebo, per mettere tranquilli i residui sostenitori della sovranità statale” l’ha efinita S. Cassese, La giustizia costituzionale in Italia: lo stato presente, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, p. 616.

[24] Corte cost. 30 novembre 2009, n. 317.

[25] Corte cost. 6 luglio 1960, n. 58 aveva dedotto che "l'ateismo comincia dove finisce la vita religiosa" e risolto la questione del giuramento nel senso che il credente giura davanti a Dio e l’ateo solo davanti agli uomini. Per una traccia dell’evoluzione giurisprudenziale cfr. M. Croce, La libertà religiosa nell’ordinamento costituzionale italiano, ETS, Pisa, 2012, pp. 146 ss.

[26] C. Cardia, Conclusioni. Evoluzione sociale, ateismo, libertà religiosa, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2011, p. 217.

[27] D. lgs. n. 251/2007, che per “religione” come motivo di persecuzione intende “le convinzioni teiste, non teiste e ateiste”.

[28] P. Floris, Le istanze di libertà collettiva e istituzionale, in La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia, a cura di R. Zaccaria, S. Domianello, A. Ferrari, P. Floris e R. Mazzola, Il Mulino, Blogna, 2019, p. 154; R. Mazzola, Le istanze di libertà individuale, ibid., p. 114

[29] Affermato nelle sentenze di Corte cost. 17 dicembre 1958, n. 79, 13 maggio 1965, n. 39, e 14 febbraio 1973, n. 14; abbandonato da quella 14 novembre 1997, n. 329.

[30] Corte cost. 28 luglio 1988, n. 925; 18 ottobre 1995, n. 440.

[31] Corte cost. 12 aprile 1989, n. 203.

[32] Corte cost. 14 novembre 1997, n. 329.

[33] Corte cost. 20 novembre 2000, n. 508; 9 luglio 2002, n. 327.

[34] Corte cost. 8 ottobre 1996, n. 334.

[35] In materia tanto penale (ad es. Cass. 6 aprile 2000 sull’esposizione del crocifisso a scuola) quanto civile (ad es. Cass. 16305/2013, cit., sulla giurisdizione in tema di diniego di avvio del procedimento d’intesa).

[36] Corte cost. 21 maggio 2014, n. 135, che richiama le sentenze n. 348 e 349 del 2007, cit., sui cui riflessi sulla copertura costituzionale degli accordi con la Chiesa cattolica si può vedere N. Colaianni, La lotta per laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2018, pp. 51 ss. 

[37] Corte di giustizia UE, 22 novembre 2005, Mangold c. Helm, C-144/04.

[38] Corte di giustizia UE, 19 gennaio 2010, Kücükdeveci c. Svedex, C-55/07.

[39] Corte di giustizia UE, 30 aprile 1996, P. c. S. e Cornwall County Council, C-13/94. Successivamente alla direttiva, lapidaria la sentenza Omega del 14 ottobre 2004: “l’ordinamento giuridico comunitario è diretto innegabilmente ad assicurare il rispetto della dignità umana quale principio generale del diritto” (par. 34). 

[40] Corte di giustizia UE, 8 novembre 1990, Dekker c. Stichting Vormingscentrum voor Jong Volwassenen (VJV-Centrum) Plus, C-177/88; 14 luglio 1994, Webb c. EMO Air Cargo (UK) Ltd, C-32/93. 

[41] N. Colaianni, Religioni e ateismi: una complexio oppositorum alla base del neo-separatismo europeo, in Statoechiese.it, 2011.

[42] L.H. Tribe, Abortion. The Clash of Absolutes, New York, W.W. Norton & Company, 1990: nel caso, «life against liberty”.

[43] Corte cost. 18 ottobre 1995, n. 440.

10/06/2020
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