Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Prime valutazioni sulle censure del Comitato europeo dei diritti sociali alla normativa italiana sui giudici onorari

di Chiara Spada
Avvocata e collaboratrice della cattedra di Diritto amministrativo, Università di Torino
Per il Comitato, dal punto di vista della funzione svolta all’interno dell’ordinamento, vi è equivalenza tra magistratura ordinaria ed onoraria

Lo Stato italiano si trova nuovamente messo di fronte all’anomalia della situazione della magistratura onoraria.

La questione origina dal reclamo presentato dall’Associazione Nazionale Giudici di pace (ANGdP) al Comitato europeo dei diritti sociali per la violazione da parte dello Stato italiano della Carta sociale europea, nella parte in cui la normativa nazionale non prevede alcuna protezione sociale per i Giudici di pace[1].

La censura inerente alla disparità di trattamento a danno dei giudici di pace viene sollevata, in questa occasione, con riferimento non solo alla disciplina relativa ai magistrati ordinari ma anche a quella prevista per i magistrati onorari aggregati. I primi, infatti, godono di un pieno riconoscimento dei diritti previdenziali, mentre ai secondi vengono rimborsati i contributi previdenziali, da parte del Ministero della giustizia, all'ente di appartenenza[2].

La già menzionata differenza non è sfuggita al Comitato europeo dei diritti sociali che pur l’ha ricondotta ad un diverso parametro normativo rispetto a quello invocato dall’ANGdP[3].

Detto organo, posto a presidio dei diritti tutelati dalla Carta sociale europea[4], evidenzia, infatti, come anche in essa rivesta un ruolo centrale il principio di non discriminazione[5], ossia la garanzia della parità di trattamento nel godimento dei diritti fondamentali sanciti dalla stessa Carta sociale europea (art. E[6]).

Nel divieto di discriminazione sono ricomprese sia le discriminazioni dirette, ossia quelle previsioni che riconoscono un trattamento deteriore ad una persona che si trova in una situazione analoga ad un’altra, che quelle indirette, che producono l’effetto di porre una persona in una condizione di svantaggio attraverso l’utilizzo di criteri o prassi apparentemente neutri[7].

Le differenze non solo non devono essere fonte di discriminazione, ma, al contrario, devono essere valorizzate alla luce del principio di uguaglianza che, come noto, comporta di assicurare uno stesso trattamento a situazioni identiche ma, allo stesso tempo, di trattare in maniera differente situazioni diverse.

L’autonomia riservata agli stati nella valutazione della necessità di previsioni che comportino un trattamento giuridico differente per alcune categorie di persone non può travalicare il limite dell’obiettività e della ragionevolezza anche declinata nella forma della proporzionalità[8].

Proprio con riferimento ai parametri citati, il Comitato europeo dei diritti sociali ha superato le osservazioni dello Stato italiano sulla non equiparabilità della categoria dei magistrati onorari a quella degli ordinari. Con l’argomentazione già nota che fa leva sui caratteri che contraddistinguono la carica onoraria - ossia l’assenza di un rapporto di servizio, la durata a tempo determinato dell’incarico, l’assenza di una retribuzione in senso proprio a favore, invece, di un’indennità[9] - lo Stato italiano ha invocato, infatti, l’inapplicabilità ai magistrati onorari delle tutele previste dalla Carta sociale europea in quanto essi non rientrerebbero nella nozione di lavoratori da essa prevista.

Il Comitato europeo dei diritti sociali, però, con un approccio sostanzialistico ha affermato che al di là della definizione risultante dalla normativa nazionale, dal punto di vista della funzione svolta all’interno dell’ordinamento vi è una equivalenza tra magistratura ordinaria ed onoraria[10].

Affermato, pertanto, che la titolarità dei diritti di cui alla Carta sociale europea spetta anche ai magistrati onorari, viene in evidenza come l’eterogeneità della categoria comporta delle disparità di trattamento anche all’interno della stessa, poiché vi è chi beneficia di un trattamento pensionistico, chi è iscritto ad una Cassa di previdenza privata e chi, invece, magari proprio alla luce della quantità di lavoro svolta come magistrato onorario non ha potuto mantenere l’iscrizione alla Cassa di previdenza privata in quanto il reddito professionale non raggiungeva la soglia della continuità professionale richiesta per l’iscrizione.

È proprio nei confronti di quest’ultima categoria, ossia di coloro che esercitano le funzioni di Giudice di pace e non dispongono della copertura sociale alternativa, che il Comitato europeo dei diritti sociali rileva la violazione dell’art. E in combinato con l’art. 12 §1 della Carta sociale europea.

La statuizione del Comitato europeo dei diritti sociali non è di poco momento poiché non solo restituisce ancora una volta dignità al lavoro dei giudici di pace equiparandoli, quanto a funzione svolta all’interno del sistema giustizia, ai magistrati ordinari, bensì per la sua portata in un momento di riforma come quello attuale della magistratura onoraria.

Le indicazioni che emergono dalla legge delega (l. n. 57 del 2016, cit., art. 1, c. 13, lett. l) non sono confortanti, in quanto si prevede unicamente le necessità di «individuare e regolare un regime previdenziale e assistenziale compatibile con la natura onoraria dell'incarico, senza oneri per la finanza pubblica, prevedendo l'acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull'indennità»[11].

Si profila, pertanto, il riconoscimento del diritto alla tutela previdenziale in capo ai magistrati onorari ma con la previsione della copertura di spesa a totale carico di questi ultimi.

Se i decreti legislativi recepissero testualmente tale indicazione, le censure della recente decisione del Comitato europeo dei diritti sociali non sarebbero del tutto superate.

Nelle more dell’adozione dei summenzionati decreti legislativi, il 28 novembre, l’ANGdP ha inviato una diffida al Governo Italiano chiedendo il riconoscimento del trattamento previdenziale anche per il passato, nonché il risarcimento del danno derivante dall’inadempimento degli obblighi previsti dalla Carta sociale europea.

________________

[1] La l. 21 novembre 1991, n. 374, che reca la disciplina sui giudici di pace, non prevede alcunché quanto ai diritti previdenziali. La l. 28 aprile 2016, n. 57 art. 1, c. 13, lett. l) stabilisce che con i successivi decreti legislativi si debba: «individuare e regolare un regime previdenziale e assistenziale compatibile con la natura onoraria dell'incarico, senza oneri per la finanza pubblica, prevedendo l'acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull' indennità». Per una disamina di quest’ultima si veda: AA.VV., La riforma della magistratura onoraria, http://www.questionegiustizia.it/rivista/2016-3.php

[2] L. n. 22 luglio 1997, n. 276, art. 8, c. 4.

[3] L’ANGdP ha ritenuto il trattamento riservato ai giudici di pace non conforme all’art. 12, §3 e 4 della Carta sociale europea che sanciscono: «Per garantire l’effettivo esercizio del diritto alla sicurezza sociale, le Parti s’impegnano: (...) 3. ad adoperarsi per elevare progressivamente il livello del regime di sicurezza sociale; 4. a prendere provvedimenti, mediante la conclusione di adeguati accordi bilaterali o multilaterali o con altri mezzi, fatte salve le condizioni stabilite in tali accordi, per garantire: a la parità di trattamento tra i cittadini di ciascuna delle Parti ed i cittadini delle altre Parti per quanto concerne i diritti alla sicurezza sociale, ivi compresa la conservazione dei vantaggi concessi dalle legislazioni di sicurezza sociale, a prescindere dagli spostamenti che le persone tutelate potrebbero effettuare tra i territori delle Parti; b l’erogazione, il mantenimento ed il ripristino dei diritti alla sicurezza sociale con mezzi quali la totalizzazione dei periodi di contribuzione o di lavoro compiuti secondo la legislazione di ciascuna delle Parti»; il Comitato europeo dei diritti sociali, invece, ricollega la violazione all’art. 12 §1 e all’art. E della Carta e cioè, art. 12 § 1: «Per garantire l’effettivo esercizio del diritto alla sicurezza sociale, le Parti s’impegnano: 1. a stabilire o a mantenere un regime di sicurezza sociale»; art. E: «Il godimento dei diritti riconosciuti nella presente Carta deve essere garantito senza qualsiasi distinzione basata in particolare sulla razza, il colore della pelle, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche o ogni altra opinione, l’ascendenza nazionale o l’origine sociale, la salute, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la nascita o ogni altra situazione».

[4] L’Italia ha provveduto a ratificare la Carta sociale europea con l. 3 luglio 1965, n. 929.

[5] Il principio di non discriminazione ha ampliato la sua portata nel corso del tempo; ha trovato riconoscimento nella CEDU (art. 14) come garanzia della parità di trattamento nel godimento dei diritti riconosciuti nella Convenzione, per poi essere esteso dal Protocollo n. 12 della stessa CEDU a tutti i diritti, compresi quelli riconosciuti dalla legislazione nazionale. Del pari esso si è affermato anche nei Trattati e nella giurisprudenza europea (art. 2 e 3, § 3, TUE), come divieto di discriminazioni sia in ragione della nazionalità (artt. 18 e 45, § 2, TFUE) che «fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale» (art. 10 e 19 TFUE). In attuazione del principio sono state emanate diverse direttive: 76/207/CEE del Consiglio, 9 febbraio 1976; 5/117/CEE del Consiglio, 10 febbraio 1975; 86/378/CEE del Consiglio, 24 luglio 1986; 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000; 2000/78/CE del Consiglio, 27 novembre 2000; 2006/54/CE, del Consiglio, 5 luglio 2006. In tema fra molti: L. Sitzia, Pari dignità e discriminazione, Napoli, 2011, 121 ss.; M. Barbera, Il principio di eguaglianza nel sistema europeo “multilivello”, in I diritti fondamentali in Europa, a cura di E. Paciotti, Roma, 2011, 63 ss.; G. Della Cananea - C. Franchini, I principi dell’amministrazione europea, Torino, 2010, 74-75; E. Palici Di Suni, Il principio di eguaglianza nell’Unione Europea, in Dal Trattato costituzionale al Trattato di Lisbona. Nuovi studi sulla Costituzione europea, a cura di A. Lucarelli - A. Patroni Griffi, Napoli, 2009, 255 ss. In particolare sul diritto anti-discriminatorio: D. Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Napoli, 2005, 131 ss. Sul principio di non discriminazione sulla base dell’età da ultimo: C. giust., UE, 16 giugno 2016, C-159/15, Franz Lesar. È necessario ricordare come la Dir. 2000/78/CE del Consiglio, 27 novembre 2000, art. 6 § 1, preveda la possibilità per gli Stati membri di prevedere disparità di trattamento in ragione dell'età «laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari». In tema B. Gagliardi, Il divieto di discriminazioni in ragione dell’età nell’ordinamento dell’Unione europea e i pubblici concorsi, in Giorn. dir. amm., 2015, 233 – 242.

[6] Carta sociale europea, art. E: «Il godimento dei diritti riconosciuti nella presente Carta deve essere garantito senza qualsiasi distinzione basata in particolare sulla razza, il colore della pelle, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche o ogni altra opinione, l’ascendenza nazionale o l’origine sociale, la salute, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la nascita o ogni altra situazione».

[7] Per un approfondimento: G. Guiglia, Le prospettive della Carta sociale europea, www.forumcostituzionale.it. Cfr. tra le molte decisioni sui reclami: CEDS, 8 dicembre 2004, n. 15/2003 (Centre européen des Droits des Roms (ERRC) c. Grèce); CEDS, 7 dicembre 2005, n. 27/2004 (Centre européen des Droits des Roms (ERRC) c. Italie).

[8] Come noto il perseguimento dell’interesse pubblico deve avvenire imponendo il minor sacrificio possibile alle posizioni dei terzi coinvolti. Anche la Corte Costituzionale ha in più occasioni censurato disposizioni legislative eccessivamente rigide e, come tali, incapaci di attagliarsi alla realtà. Per una disamina del principio di ragionevolezza formulato in termini di proporzionalità: M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, relazione presentata alla Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, 24-26 ottobre 2013, reperibile al sito www.cortecostituzionale.it.

[9] Sui requisiti distintivi della carica onoraria si vedano tra le molte: Cass. S.U., 9 novembre 1998, n. 11272; più di recente l’orientamento è stato richiamato da: Cass. civ., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 22569; Cass. civ., S.U., 4 settembre 2015, n. 17591. L’argomentazione è già stata usata dallo Stato italiano in altre occasione tra cui quella della comunicazione della Commissione Europea del 16 novembre 2015 a proposito dell’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano per la violazione della direttiva n. 1999/70/CE.

[10] Si veda anche Cass. civ., S.U., 19 ottobre 2011, n. 21582: «Il modello di giudice disegnato dal legislatore del 1991 - “a metà tra onorarietà e professionalità ed investito, ex art. 7 c.p.c., di una competenza ben più che bagatellare”, come osserva un'attenta dottrina - abbia assorbito l'intera competenza per valore del conciliatore e del pretore, oltre ad incunearsi in materie statisticamente assai rilevanti per il contenzioso civile con l'obbiettivo primario di ridurre l'enorme carico di lavoro della magistratura togata, gravemente compromissivo della credibilità e dell'effettività dell'amministrazione della giustizia civile».

[11] Sul punto si veda anche: C. Castelli, Un progetto organico con molte ombre, in La riforma della magistratura onoraria, http://www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-3_13.pdf

30/01/2017
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