Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Non si può licenziare il lavoratore affetto da handicap senza adottare ogni misura ragionevole a sua tutela

di Marcello Basilico
giudice del lavoro del Tribunale di Genova
Forma e contenuti della tutela antidiscriminatoria nell’ordinanza del Tribunale di Pisa del 16.4.2015

Handicap e malattia non sono nozioni tra loro assimilabili nel nostro ordinamento. Una lavoratrice che, affetta dal primo, venga licenziata perché inidonea alle mansioni cui era assegnata può invocare la tutela antidiscriminatoria di fonte comunitaria. Nel caso in cui si accerti che l’impresa non ha adottato ogni misura economicamente ragionevole per evitare una sua disparità di trattamento rispetto ai colleghi, il licenziamento è nullo ed ella ha diritto non solo alla reintegra nel posto di lavoro, ma anche ad un risarcimento effettivo, proporzionato e dissuasivo.

L’impresa che, senza apprestare ragionevoli misure idonee a conservare il posto di una propria dipendente portatrice di handicap, la licenzi ritenendola inidonea alla posizione assegnatale, tiene una condotta discriminatoria. Di conseguenza la lavoratrice ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro ed anche al risarcimento del danno non patrimoniale, che deve avere un’efficacia non solo riparatrice, ma anche dissuasiva e sanzionatoria.

La decisione del tribunale di Pisa che così si è espressa (16.4.2015, est. E. Tarquini) è stata adottata con un’ordinanza pronunciata ancora nella prima fase del cosiddetto rito “Fornero”, introdotto com’è noto dalla legge 92/2012 per i licenziamenti. Le considerazioni che il provvedimento sollecita sono molteplici e non si fermano alla sola soluzione relativa all’invalidità del recesso intimato dal datore di lavoro.

 

Il caso.

La lavoratrice C.G., dipendente da oltre sei anni nella filiale italiana di un’azienda della grande distribuzione commerciale europea, come addetta ad un magazzino locale, è affetta da una grave e cronica patologia. Viene sottoposta a visita dal medico aziendale che prescrive il divieto della sua assegnazione a mansioni che comportino la movimentazione manuale di carichi, turni notturni, disconfort da microclima e vibrazioni.   

Tali divieti sono incompatibili col suo incarico di “commissionatrice” nel magazzino, che comporta la preparazione dei carichi da smistare, con conseguente necessità della loro movimentazione manuale o su “muletto” e l’accesso alle celle frigorifere. Valutata perciò la sua inidoneità permanente alle mansioni cui era assegnata, nel novembre 2013 l’impresa licenzia C.G. per giustificato motivo oggettivo.

La lavoratrice impugna il licenziamento, lamentando sia l’erroneità del giudizio medico, orientato sulla sua sola, specifica mansione anziché su tutte quelle possibili, con la sua qualifica professionale, nel magazzino sia comunque la violazione dell’obbligo, per il datore di lavoro, di approntare, con oneri proporzionati, le misure organizzative idonee a consentirle di prestarvi attività senza rischi. 

 

La decisione.

Esaurita l’istruttoria, il giudice monocratico del lavoro di Pisa orienta la propria decisione soprattutto su questo secondo aspetto. Vengono così calati nella realtà organizzativa dell’azienda convenuta da C.G. la nozione di handicap, come definita dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, e gli obblighi imposti al datore di lavoro dalla normativa interna (d.lgs 216/2003, modificato dal d.l. 76/2013, e l. 18/2009), di recepimento di quella comunitaria (direttiva 2000/78) e di ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità; risulta accertato che nel magazzino i colleghi aventi lo stesso inquadramento professionale sono addetti a mansioni diverse e compatibili con le prescrizioni mediche: si tratta, in particolare, di quanti stanno al bancone di ricevimento delle merci pianificando i viaggi dei mezzi aziendali per le consegne nella diverse filiali.

Perciò, secondo il giudice di Pisa, con una mera ridistribuzione interna di compiti e turni, tra personale di pari qualifica, l’azienda avrebbe potuto adottare il “ragionevole accomodamento” richiesto dalla legge per salvaguardare la posizione della lavoratrice. Il licenziamento di C.G., conseguito alla mancata adozione, configura una violazione oggettiva alla parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap, secondo la direttiva 2000/78 ed il d. lgs 216/2003; pertanto esso è non  soltanto illegittimo, per difetto del giustificato motivo addotto, ma nullo, in quanto discriminatorio.

Le conseguenze di tale accertamento sono il diritto di C.G. alla reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno non patrimoniale previsto espressamente, per i casi di violazione dei divieti di discriminazione, dei d. lgs 216/2003 e 150/2011, che il giudice determina in diecimila euro; poiché la lavoratrice chiede anche di essere risarcita del danno biologico patito per essere stata adibita a mansioni non confacenti al proprio stato di saluto, si dispone infine la separazione dell’azione relativa a questa domanda, in quanto ritenuta incompatibile con l’ambito applicativo del rito “Fornero”.  

Al di là dei profili di merito, determinati dai risultati dell’istruttoria, l’ordinanza – che pure è stata emessa a chiusura d’una fase che viene qualificata sommaria, per i caratteri di sua propedeuticità alla sentenza e di celerità del rito – si segnala almeno per tre contenuti in diverso grado innovativi.

 

La nozione di handicap.

Il primo contenuto attiene alla messa a fuoco della nozione di handicap. Si sa che nel nostro ordinamento non esiste un concetto unitario di disabilità e che le norme anche in materia di previdenza e assistenza designano diversamente gli stati di minorazione fisica, psichica o sensoriale.

L’handicap, che la legge 104/92 già definiva come “menomazione delle capacità psico-fisiche che incidono sulla vita quotidiana, anche se irrilevanti per la capacità lavorativa”, trova però una disciplina specifica nell’articolazione di disposizioni sovranazionali in funzione antidiscriminatoria:

- nell’art. 13 del Trattato UE, con la clausola generale che, integrata nel 1998 dal Trattato di Amsterdam, per la prima volta ha vietato la discriminazione, oltre che per sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, età, tendenze sessuali anche per handicap, delegando il Consiglio ad assumere i “provvedimenti opportuni” per combattere le discriminazioni;

- l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), per il quale “é vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”;

- la Direttiva quadro 2000/78/CE sulla lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, recepita in Italia col d. lgs 216/2003;

- la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla legge 18/2009.

Peraltro nessuna delle fonti europee citate definisce l’handicap. Ma l’uso di questo termine nell’art. 1 della direttiva 2000/78, in vece di quello di “malattia”, ha indotto la giurisprudenza a distinguere i due concetti, sul presupposto che la scelta legislativa sia stata deliberata. Perciò va esclusa l’assimilazione delle due nozioni[1].

In particolare, l’importanza annessa dal legislatore comunitario alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell’handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo. Perché una limitazione possa rientrare nella nozione di «handicap» deve quindi essere probabile che essa sia di lunga durata.

Secondo la Corte, essa è riferibile ad una “limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione come barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori[2].

Come già ritenuto dai giudici dell’Unione, tale nozione interferisce con quella di disabilità dettata dalla Convenzione ONU[3], sicché essa è configurabile solo se le menomazioni fisiche, mentali ed intellettuali predette siano di lunga durata, senza che abbiano invece rilievo l’origine e la natura della malattia che le abbia generate[4]

 

L’adattamento organizzativo richiesto al datore di lavoro.

Il secondo contenuto significativo attiene all’identificazione dell’onere rimesso al datore di lavoro.

L’art. 5 della Direttiva 2000/78 prescrive l’adozione di “soluzioni ragionevoli”, per “garantire  il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili”; pertanto il datore di lavoro è tenuto a prendere “i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.

La norma contiene un precetto che pare sufficientemente preciso, idoneo dunque a vincolare direttamente le parti del rapporto di lavoro. E’ ipotizzabile che per questa ragione il nostro legislatore, trasponendo la direttiva, non abbia inizialmente adottato una disposizione analoga.

Vi ha comunque provveduto il d.l. 76/2013, conv. in l. 99/2013, inserendo un comma 3-bis nell’art. 4 del d. lgs. 216/2003. Con una terminologia esplicitamente mutuata dalla Convenzione ONU, si prescrive che i datori di lavoro pubblici e privati adottino “accomodamenti ragionevoli” in favore delle persone disabili, per garantire loro la parità di trattamento con gli altri lavoratori[5].

Nel suo costante riferimento alla giurisprudenza comunitaria, il giudice pisano ha correttamente adattato quella locuzione al caso concreto, valutando le dimensioni dell’azienda, le sue risorse finanziarie ed i costi economici dell’intervento che sarebbe stato necessario per consentire alla lavoratrice C.G. di prestarvi l’attività. La soluzione è stata facilitata dal fatto di potere individuare gli “accomodamenti” nello stesso reparto aziendale, grazie all’esistenza d’una ripartizione del lavoro tra il personale del magazzino in tre fasi distinte e di diverso impegno psicofisico; ma una misura tanto a portata di mano rende più grave l’inadempimento del datore di lavoro.

 

Gli effetti del carattere discriminatorio del licenziamento.

Oltre alla reintegra nel posto di lavoro, il giudice ha riconosciuto alla lavoratrice anche il risarcimento del danno non patrimoniale (in applicazione dell’art. 4, co. 5, d. lgs. 216/2003). E poiché tutte le sanzioni apprestate in materia di tutela discriminatoria dagli ordinamenti interni devono essere “efficaci, proporzionate, dissuasive” (art. 17 Dirett. 2000/78), rifacendosi al danno comunitario ormai riconosciuto anche dalla Cassazione[6].

Il richiamo a questa categoria autorizzerebbe l’impiego di criteri mutuati da norme che predeterminano il valore economico della riparazione della lesione in caso di violazioni incidenti sul posto di lavoro (artt. 8 l. 604/66, 18 l. 300/70, 32 l. 183/2010).  Ma poiché l’indennizzo dell’art. 18, co. 1 e 2, già è risultato dovuto per effetto della dichiarata nullità del licenziamento, il giudice ha opportunamente  liquidato in via equitativa il risarcimento conseguente alla natura discriminatoria dell’atto, onde evitare censure di duplicazione del danno.

La linearità della decisione non elimina la sensazione d’un ordinamento governato dall’incertezza e da un inseguimento affannoso ed incoerente, da parte del nostro legislatore, delle tutele sovranazionali nella materia del diritto del lavoro.

 

Considerazioni conclusive su un processo (e una tutela) ancora farraginoso.

La lavoratrice avrebbe potuto fare valere il proprio diritto con due riti processuali alternativi: quello per i licenziamenti o quello per la tutela contro i comportamenti discriminatori, tutt’ora disciplinato dall’art. 44 d. lgs. 286/98 (e richiamato espressamente dall’art. 4 d. lgs. 216/2003). E’ dubbio che, qualora avesse optato per questo secondo, ella avrebbe potuto ottenere la declaratoria d’invalidità del licenziamento con tutti gli effetti che l’art. 18 dello Statuto ancora riconduce ai casi di nullità dell’atto.

Ma scegliendo il rito disciplinato dalla “legge Fornero” le è risultata preclusa la possibilità di agire in contestualità per ottenere il risarcimento del danno biologico, poiché – come ben sanno gli sconfortati commentatori di questa famigerato processo speciale – non sono consentite “domande diverse .. salvo che siano fondate sugli stessi fatti costitutivi” (art. 1, co. 48, l. 92/2012).

Il giudice pisano ha ritenuto che la domanda per il danno biologico, causato dall’assegnazione nel passato a mansioni illecitamente usuranti, fosse fondata su fatti costituivi diversi da quella per il danno da discriminazione. Pertanto, aderendo all’orientamento che in questi casi salvaguarda gli atti processuali anche ai sensi dell’art. 111 Cost. ed evitando dunque una declaratoria d’inammissibilità, ha separato la controversia introdotta con a prima domanda.

Il risultato pratico, anche per la parte che ha ottenuto una prima ragione dal giudice, è che dovrà dunque agire in altra causa per ottenere l’integrale soddisfacimento dei propri diritti oltre ad attendere la (probabile) opposizione dell’impresa all’ordinanza sul licenziamento per vedere consolidata, almeno in primo grado, la propria posizione lavorativa: tempi più lunghi, nuove incertezze, costi ulteriori.

Spiace dovere constatare questi effetti tanto più in un settore – quello della tutela antidiscriminatoria – che si sta aprendo a nuovi orizzonti giurisprudenziali, per la crescente sensibilità del legislatore, ma anche per la moltiplicazione dei casi cui si assiste in un mondo del lavoro in costante evoluzione. Celerità, prevedibilità ed economicità delle decisioni sarebbero i requisiti per una tutela effettiva, nell’interesse non solo dei lavoratori, ma di tutte le parti e degli operatori interessati.

Attendiamo ancora fiduciosi che Governo e Parlamento diano uno sbocco alla proposta condivisa di abrogazione del rito Fornero e di unificazione dei riti su licenziamenti e discriminazioni[7]. Nel frattempo rimpiangiamo i tempi in cui un unico giudice poteva trattare in un unico giudizio tutte le domande proposte dal lavoratore licenziato, grazie al semplice strumento dell’art. 40, co. 3, c.p.c., che gli accorderebbe un potere di attrazione in ragione delle speciali tutele, di portata costituzionale, che sono riconducibili al processo del lavoro[8].



[1] Corte giust., 11 luglio 2006, c-13/2005, Chacon Navas.

[2] Corte giust., 11 aprile 2013, c-335/2011 e c-337/2011, HK Danmark. Più recentemente Corte giust. 18 dicembre 2014, c-354/2013, Fag og Arbejde, che ha qualificato come handicap, ai sensi della Dirett. 2000/78, anche l’obesità che sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale.

[3] La definizione riprende letteralmente quella di disabilità dell’art. 1 della Convenzione ONU.

[4] Corte giust., 11 aprile 2013, cit.

[5] Rappresentano un accomodamento ragionevole, secondo l’art. 2 della Conv. ONU, “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.

[6] Sul “dannocomunitario”, come effetto dell’abuso di contratto a termine, cfr. Cass., sez. lav., 23 gennaio 2015, n. 1260, e 30 dicembre 2014, n. 27481; in precedenza cfr. Cass., sez. lav., 21 agosto 2013, n. 19371.

[7] La proposta, elaborata nella primavera 2014 da un gruppo di lavoro congiunto di Associazione Nazionale Magistrati e AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani), aveva incontrato la positiva accoglienza da parte del Ministro della giustizia Orlando, cui era stata presentata il 5 maggio 2014. La si può consultare sul sito di entrambe le associazioni proponenti (in particolare, rispettivamente su www.associazionemagistrati.it/documenti/indice_anno/2014/aprile e su www.giuslavoristi.it/home/notizie/attivita-del-presidente/1960). 

[8] Sulla rilevanza costituzionale della tutela privilegiata del lavoratore nel processo cfr. Corte cost., 9 febbraio 1994, n. 207.

 

27/05/2015
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