Magistratura democratica
Corti europee e Corti internazionali

Nel nome della madre. Prime riflessioni sulla sentenza CEDU, II sez., 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo c. Italia

di Francesco Buffa
Consigliere Corte di Cassazione
La Sentenza è l'occasione per fare il punto della giurisprudenza delle Corte Europea per i diritti dell'uomo, della Corte Costituzionale italiana e della Corte di Cassazione italiana sull'attribuzione ai figli del cognome materno
Nel nome della madre. Prime riflessioni sulla sentenza CEDU, II sez., 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo c. Italia

La Corte europea dei diritti umani ha condannato l'Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendogli negato la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre invece di quello del padre.

Nella specie, la richiesta congiunta dei coniugi per l’attribuzione del cognome materno alla figlia era stata respinta dall’ufficiale dello stato civile, che aveva d’ufficio attribuito il cognome paterno.

Il tribunale di Milano aveva quindi rigettato il ricorso dei genitori con sentenza dell’8.6.01, ritenendo che, anche se nessuna disposizione legale imponeva di registrare un bambino nato da una coppia sposata con il nome del padre, questa regola corrispondeva ad un principio radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana.

Esaurite le vie di ricorso interno senza successo, i genitori si sono rivolti alla Corte EDU, lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione (che protegge la famiglia), da solo o in relazione all’art. 14 (che vieta le discriminazioni di genere), nonché la violazione dell’art. 5 del protocollo addizionale alla Convenzione n. 7 (che sancisce l’uguaglianza tra i coniugi tra loro e nelle loro relazioni con i figli).

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Strasburgo, pur nella consapevolezza dell’assenza di previsione espressa sul punto nell’art. 8 Conv., ha ricordato che il nome è strumento per determinare sia l’identità personale sia la connessione della persona con una famiglia, ricollegandosi in tal modo la sua tutela anche al diritto al rispetto della vita privata e familiare della persona.

Ritenuto che il diritto azionato rientri quindi nel campo di applicazione dell'articolo 8 della Convenzione, la Corte ne ha dedotto l’applicabilità dell’art. 14 e del divieto di discriminazioni tra i sessi in esso contenuto (norma che, come noto, non ha ambito autonomo di applicazione, ma ha operatività solo correlata ad altro diritto protetto dalla Convenzione): la Corte ha così condiviso l’assunto dei ricorrenti secondo i quali le disposizioni della legge nazionale non garantivano la parità tra i coniugi ed ha ritenuto che l'Italia avrebbe dovuto prevedere la possibilità di assegnare il nome della madre, se vi fosse consenso dei genitori su questo punto.

Da ciò la constatazione da parte della Corte a larga maggioranza (con una sola opinione dissenziente, volta invece a valorizzare il margine di apprezzamento degli Stati) della violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 della Cnvenzione, restando invece assorbite le censure relative alla violazione dell’art. 8 e, per altro verso, dell’art. 5 prot. 7, in sé considerati.

In precedenza, la CEDU si era occupata della tematica nelle cause Burghartz c. Suisse, 22 février 1994, série A no 280-B ; Stjerna c. Finlande, 25 novembre 1994, série A no 299-B ; etÜnal Tekeli c. Turquie, no 29865/96, CEDH 2004-X ; Losonci Rose e Rose contro Svizzera, n 664 / 06 , § 26 , 9 novembre 2010.

La prima sentenza aveva riguardato il rifiuto opposto ad una richiesta del marito, che voleva far precedere il suo cognome da quello di sua moglie; la seconda si era riferita alla norma della legge turca secondo la quale una donna sposata non poteva mantenere il suo cognome da nubile dopo il matrimonio, mentre l'uomo sposato manteneva il suo nome quale era prima del matrimonio; nel terzo caso, era venuta in questione una domanda congiunta dei coniugi volta a prendere entrambi il cognome della moglie dopo il matrimonio.

In tutti questi casi, la Corte aveva riscontrato una violazione dell'articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l'articolo 8, ricordando l'importanza del progresso verso l'uguaglianza di genere e l'eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso nella scelta del nome, ed affermando che la tradizione volta a tutelare l'unità della famiglia attraverso l'assegnazione di tutti i suoi membri del medesimo nome non poteva giustificare la discriminazione contro le donne.

Particolarmente significativi nella sentenza in epigrafe sono, poi, i punti relativi all’esecuzione della sentenza e dalle modifiche nella legislazione italiana conseguenti.

La Corte ha ricordato in proposito che, ai sensi dell'articolo 46 CEDU, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti e che il Comitato dei Ministri ha il compito di monitorare l'attuazione del questi giudizi.

Ciò implica in particolare che, quando la Corte ha dichiarato che l'esistenza di una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali o, se del caso, individuali per integrare l’ordinamento giuridico interno per porre fine alla violazione constatata e per rimediare, per quanto possibile, agli effetti di essa (v., in particolare, Xenides - Arestis v . Turchia no46347/99 , § § 39-40, 22 dicembre 2005; Scordino contro Italia ( n. 1) [ GC ], no 36813/97 , § 233 , CEDU 2006- V , Broniowski contro Polonia [ GC ] , no31443/96 , § 192 , CEDU 2004- V; Bottazzi contro Italia [ GC ] , no34884/97 , § 22 , CEDU 1999 – V ; Di Mauro contro Italia [ GC ], no 34256/96 , § 23 , CEDU 1999 - V).

Lo Stato deve quindi adottare siffatte misure nei confronti di altre persone che si trovino nella stessa situazione dei ricorrenti della causa decisa, perseguendo l'obiettivo di risolvere i problemi che hanno portato alla constatazione da parte della Corte di una violazione della Convenzione (Scozzari e Giunta contro Italia [ GC ], n. 39221/98 e 41963/98, § 249 , CEDU 2000 –VIII ; Christine Goodwin contro Regno Unito [ GC ], n. 28957/95, § 120, CEDU 2002 VI ; Lukenda v Slovenia No. 23032 / 02 , § 94, CEDU 2005 X ; Ets e Marper contro Regno Unito [ GC ], n. 30562/04et30566/04, § 134, CEDU 2008).

Tali obblighi valgono – secondo la Corte- anche nel caso di specie, ove lo Stato italiano è tenuto a porre in essere le riforme nella legislazione e nelle prassi necessarie per renderle coerenti con la garanzia del rispetto dei diritti oggetto di accertamento.

Nella giurisprudenza nazionale italiana si richiamano sul medesimo tema alcune sentenze della Corte costituzionale ed altre della Cassazione.

Quanto alle prime, la Corte Costituzionale si è dapprima pronunciata sulla questione con le ordinanze n. 176 e 586 del 1988; quest’ultima, in particolare, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 73 del r.d. 9 luglio 1939 n. 1238 sull'ordinamento dello stato civile, 6, 143 bis, 236, 237, secondo comma, e 262, secondo comma, cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost..

Ha affermato la Corte che la mancata previsione della facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, non contrasta né con l'art.29 Cost., in quanto viene utilizzata una regola radicata nel costume sociale, come criterio di tutela dell'unità della famiglia fondata sul matrimonio ne' con l'art. 3 Cost., in riferimento ai figli adottivi, poiché la preclusione vale anche per questi ultimi, secondo la corretta interpretazione dell'art. 27 della legge n. 164/1983; peraltro, secodo la Corte, l'opportunità di introdurre un diverso sistema di determinazione del nome (quale nella specie, quello del doppio cognome) ugualmente idoneo a salvaguardarne l'unità senza comprimere l'eguaglianza dei coniugi, la scelta in ordine ad esso e le relative modalità tecniche rientrano nella decisione che compete esclusivamente al legislatore.

Da ultimo, con l’ordinanza n. 61 del 16 febbraio 2006, la Corte Costituzionale ha nuovamente dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità delle norme predette nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti automaticamente il cognome del padre, anche quando vi sia in proposito una diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata, e ciò in quanto l'intervento che si invoca con l'ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte.

Nonostante l'attenzione del rimettente a circoscrivere il 'petitum', viene comunque lasciata aperta una serie di opzioni, che vanno da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente alla volontà dei coniugi, ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare ad una regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all'atto della nascita di ciascuno ; pertanto, conclude la Corte, tenuto conto del vuoto di regole che determinerebbe una caducazione della disciplina denunciata, non è ipotizzabile neppure una pronuncia che, accogliendo la questione di costituzionalità, demandi ad un futuro intervento del legislatore la successiva regolamentazione organica della materia.

La Corte ha peraltro rimarcato che – se il sistema attuale è il risultato di una concezione patriarcale dei poteri del marito, che aveva le sue radici nel diritto romano e non era più compatibile con il principio costituzionale della parità tra uomini e donne e con i principi internazinali che vietano le discriminazione contro le donne (cfr. Convenzione ratificata con legge n. 132 del 14 marzo 1985) e impegnano gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure necessarie per fornire ai coniugi gli stessi diritti, compresa la scelta del nome- spetta al Parlamento definire le norme necessarie a regolare compiutamente la materia, non potendo crearsi in materia lacune dell’ordinamento per effetto di pronunce di illegittimità costituzionale.

Nella giurisprudenza di legittimità, si segnala Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16093 del 14/07/2006, secondo la quale, nell'attuale quadro normativo, in cui è rinvenibile una norma di sistema - presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse (artt. 143-bis, 236, 237, secondo comma, 266, 299, terzo comma, cod. civ.; 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000) - che prevede l'attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, sia pure retaggio di una concezione patriarcale della famiglia non in sintonia con le fonti sopranazionali, che impongono agli Stati membri l'adozione di misure idonee alla eliminazione delle discriminazioni di trattamento nei confronti della donna, ma che (come avvertito anche dalla sentenza della Corte costituzionale n.61 del 2006) spetta comunque al legislatore ridisegnare in senso costituzionalmente adeguato, non può trovare accoglimento la domanda dei genitori di attribuzione al figlio del cognome materno.

La coeva Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12641 del 26/05/2006, ha precisato poi che, in sede di applicazione delle disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 262 cod. civ., disciplinanti l'ipotesi in cui la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, occorre muovere dal presupposto che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta, sicché il giudice deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre, prescindendo, anche a tutela dell'eguaglianza fra i genitori, da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome.

Oltre che nei casi in cui ne possa derivare danno all'interessato, l'assunzione del patronimico non dovrà, quindi, essere disposta allorquando precludere il diritto di mantenere il cognome materno, ormai naturalmente associato al minore dal contesto sociale in cui egli si trova a vivere, si risolverebbe in un'ingiusta privazione di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto "a essere se stessi".

Il provvedimento deve, in definitiva, tutelare l'interesse del figlio minore non ad avere un'apparenza di filiazione regolare, ma a conservare il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità.

In tema, altresì, interessanti considerazioni in Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2644 del 03/02/2011 secondo la quale, pur sul tema diverso dell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall'art. 262, secondo e terzo comma, cod. civ. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione (essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del "prior in tempore"), né il patronimico (per il quale parimenti non sussiste alcun "favor" in sé). (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto di sostituire il patronimico al cognome materno per primo attribuito, in considerazione dell'inesistente attitudine identificatrice di quel cognome, data la tenera età del minore, della implausibilità sociale del doppio cognome, e della sua irrilevanza ai fini di un rafforzamento del preteso legame con altri figli minori della stessa madre, recanti però un cognome paterno diverso, e, dunque, configurandosi una maggiore plausibilità sociale del solo patronimico, trattandosi di scelta oggettivamente integrativa di un fattore di normalità).

Per una valorizzazione dell’interesse del minore, altresì, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23635 del 06/11/2009, secondo la quale, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall'art. 262, terzo comma, cod. civ. del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore, e con esclusione di qualsiasi automaticità.

Ne consegue che, in considerazione dell'assoluta priorità di tale interesse, l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori non è esclusa dalla pregressa durevole convivenza con uno solo di essi (nella specie, la madre).

Da ultimo, va ricordata, per la profondità del pensiero giuridico espresso e la novità del suo contenuto, l’ordinanza interlocutoria della I sezione civile della Cassazione n. 23934 del 22.92008, che ha disposto trasmettersi gli atti al Primo Presidente ai fini della eventuale rimessione alle Sezioni Unite, per valutare se, alla luce della mutata situazione della giurisprudenza costituzionale e del probabile mutamento delle norme comunitarie, possa essere adottata un'interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata ovvero, se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell'attività interpretativa, la questione possa essere rimessa nuovamente alla Corte Costituzionale.

Benché l’ordinanza non abbia avuto seguito innanzi alle SSUU, in ragione della rinuncia al ricorso e conseguente estinzione del giudizio, la pronuncia è meritevole di segnalazione per la completezza dell’inquadramento della problematica nel contesto giuridico non solo costituzionale italiano, ma soprattutto internazionale, con riferimento sia alla Convenzione di New York  sulle discriminazioni ed al patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Onu il 19 dicembre 1966, sia alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed alla relativa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sia infine alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000, nel valore normativo attribuito ad essa dal Trattato di Lisbona.

Il descritto quadro normativo  internazionale sembra infatti incidere –escludendola- sulla discrezionalità del legislatore nazionale (fatta salva dai precedenti costituzionali), con conseguente possibilità –la cui valutazione l’ordinanza ritiene opportuno rimettere alle Sezioni Unite- di una configurazione dell’attribuzione del cognome materno anche quale soluzione giuridicamente obbligata in presenza di istanza congiunta dei genitori del minore.

La violazioni delle richiamate disposizioni, infatti, comporta quanto meno la violazione delle norme costituzionali italiane anche per il profilo dell’art. 117 Cost., non valutato dai precedenti costituzionali, mentre, sotto altro profilo, il richiamo a fonti (quale la carta di Nizza) di diretta applicazione pone il problema, già evidenziato, dell’applicazione diretta della norma europea e della  interpretazione «evolutiva» della disciplina interna.

 

 

15/01/2014
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