Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Mutilazioni genitali femminili
rilevanti per status di rifugiato

di Barbara Cattelan
Avvocato
Due recenti pronunce riconoscono negli atti di mutilazione genitale femminile il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato
Mutilazioni genitali femminili<br>rilevanti per status di rifugiato

Gli atti di mutilazione genitale femminile (di seguito denominati MGF) costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e, se accertato che tali atti siano specificamente riferibili alla persona della richiedente, costituiscono il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2 e seguenti del Decreto Legislativo 19.11.2007, n. 251, attuativo della Direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.

Queste le conclusioni conformi di due distinte e recenti pronunce, la prima della Corte d’Appello di Catania, la seconda del Tribunale di Cagliari (che a sua volta richiama una precedente pronuncia della Corte d'Appello di Roma - decisione del 2.7.2012), che hanno trattato in sede giurisdizionale la domanda di protezione internazionale di due donne nigeriane precedentemente diniegate dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

Leggermente diversi i percorsi argomentativi delle due pronunce.

Dopo aver giudicato il racconto della reclamante attendibile e compatibile con il quadro generale che delle pratiche di MGF in Nigeria forniscono le principali fonti internazionali (Amnesty International, O.M.S., U.N.H.C.R.), nella sentenza 27.11.2012 la Corte d’Appello di Catania ha definito la MGF “una forma di violenza, morale e materiale, discriminatoria di genere, legata cioè alla appartenenza al genere femminile”, e, come tale, riconducibile ai motivi di persecuzione rilevanti ai sensi del già citato D.Lvo 251/07.

Ma non solo. Dal momento che le MGF trovano la loro genesi in profonde tradizioni culturali o credenze religiose, il rifiuto di sottoporre sé stessa o le proprie figlie a tali pratiche espone la donna, e le proprie figlie, al rischio concreto di essere considerata nel Paese di origine “un oppositore politico ovvero come un soggetto che si pone fuori dai modelli religiosi e dai valori sociali, e quindi essere perseguitata per tale motivo”. Conclude la Corte che sussistono, pertanto, i presupposti per riconoscere alla reclamante lo status di rifugiato, e ciò affinché ella possa sottrarsi alla violenza di genere e al trattamento discriminatorio che conseguirebbe in caso di rifiuto di sottoporsi alla violenza stessa.

Diverso l’approccio seguito dal Tribunale di Cagliari nell’ordinanza 3.4.2013. Il dato di partenza è stato la constatazione della gravità di tale forma di violenza, come descritta dall’O.M.S. e dall’U.N.H.C.R., tanto da essere considerata presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale dalla giurisprudenza di vari Paesi, e, in particolare, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (il riferimento è al caso Emily Collins and Ashley Akaziebie v. Sweden, Applicazione n. 23944/05, 8.3.2007, nel quale la Corte ha dichiarato inammissibile la domanda solo perché la persecuzione non era risultata riferibile personalmente alla richiedente).

Il Tribunale ha ritenuto possibile interpretare la norma che definisce la qualifica di rifugiato (art. 2, lett. e), D.Lvo 251/07) in senso conforme alla citata sentenza della Corte Europea in quanto, si cita testualmente, "la rappresentazione della mutilazione genitale femminile quale atto di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale è palesemente compatibile con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta negli articoli 2 e 3 della Costituzione, con particolare riguardo alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e al principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso, alla stessa stregua dei motivi di razza, religione, nazionalità o di opinione politica."

Il passo successivo seguito dal Tribunale si è tradotto nella verifica della riferibilità degli atti di MGF alla persona della richiedente alla stregua dei criteri delineati dal D.Lvo 251/07 ed interpretati dalla Corte di Cassazione; l'esito positivo di tale verifica ha portato il Tribunale a concludere per il riconoscimento a favore della ricorrente della più ampia e tutelante tra le forme di protezione internazionale.

Le pronunce in commento rappresentano senza dubbio un passo in avanti nella valutazione del fenomeno delle MGF sotto il profilo della tutela da accordare alle vittime o alle potenziali vittime di tali pratiche, ma non si cada nell'errore di considerare scontato tale risultato; solo tre anni prima, nel dicembre 2009, altro Tribunale dello Stato (Tribunale di Trieste, sentenza 11.12.2009, n. 540, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza n. 1 del 2011) aveva negato ad una donna camerunense il riconoscimento dello status di rifugiato perché dal racconto dei fatti non era dato desumere un vero e proprio rischio di persecuzione, né appariva ravvisabile una violazione grave dei diritti umani fondamentali della richiedente; le pur pesanti e sanguinose pratiche tribali, quali il matrimonio forzato e l'escissione dei genitali cui la donna era sfuggita, concludeva il Tribunale, non potevano integrare quegli atti o fatti tali da configurare persecuzione in senso tecnico, bensì solo giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto integranti una lesione, o una minaccia di lesione, di beni fondamentali quali la libertà di matrimonio e l'integrità fisica e sessuale. E nel 2010 il Tribunale di Torino (Sezione IX Civile, sentenza 327/10 del 6.8.2010, inedita) ha ritenuto che, siccome il rischio di stigmatizzazione per via della pratica di mutilazione subita proveniva dal padre, difettasse il requisito della provenienza degli atti persecutori dai soggetti indicati dall'art. 5, D.Lvo 251/07 (Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o gran parte del suo territorio, ovvero ancora soggetti non statuali se i responsabili dello Stato non possano o non vogliano fornire protezione); inoltre, siccome la richiedente era già stata sottoposta in patria ad una forma di mutilazione genitale, non vi sarebbero state ragioni per ritenere che un simile trattamento dovesse essere reiterato a suo danno, e ciò escludeva la possibilità di riconoscerle anche la forma più attenuata di protezione, quella umanitaria (in sede di reclamo avverso tale decisione, la Corte d’Appello ha poi ulteriormente posto l’accento sul fatto che la vicenda della richiedente si presentava come vicenda privata, legata a contrasti all'interno di un nucleo familiare, e come tale estranea alle forme di persecuzione che legittimano il riconoscimento di protezione internazionale – Corte d'Appello di Torino, Sezione per la Famiglia e le Persone, sentenza 13.4.2011, inedita).

Vero è che il dibattito all’interno della Comunità Internazionale sul tema delle MGF (o, come correttamente puntualizzato e argomentato in dottrina – Vanzan e Miazzi “Modificazioni genitali: tradizioni culturali, strategie di contrasto e nuove norme penali”, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza n. 1 del 2006 – più in generale sul tema delle “modificazioni genitali”, termine che comprende tutti gli interventi, mutilatori o meno, effettuati per motivi non terapeutici sulla zona genitale, sia femminile che maschile) si è infittito in epoca relativamente recente con l’aumentare della percentuale di donne immigrate nei Paesi occidentali. E ancor più recente è la maturata consapevolezza che il tema in questione presenta punti di osservazione diversi: quello antropologico, necessario per capire e studiare la genesi e la ragione di tali pratiche; quello legislativo, necessario per articolare strategie di contrasto e di prevenzione del fenomeno; ed infine, quello umanitario, che privilegia l’aspetto della tutela dei diritti delle vittime, agendo sul piano educativo e sanitario.

Ma proprio l’infittirsi e l’articolarsi del dibattito a livello internazionale ha prodotto una quantità tale di materiali di studio del fenomeno da rendere stupefacente che solo tra il 2012 ed il 2013 si arrivi a registrare la maturata consapevolezza di ricondurre le pratiche di MGF nell’alveo degli atti di persecuzione rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato che si può leggere nelle due decisioni dell’Autorità Giudiziaria in commento.

Impossibile in questa sede passare in rassegna tutte le risoluzioni, le convenzioni, le note, i provvedimenti legislativi che negli ultimi due decenni hanno affrontato il tema; solo un breve accenno a quelle che giudico maggiormente significative perché anticipano a chiare lettere (e sorreggono a pieno titolo) le decisioni adottate dalla Corte d’Appello di Catania e dal Tribunale di Cagliari.

Nel 2009 l’U.N.H.C.R., attraverso la Sezione Politiche di Protezione e Consulenza Legale della Divisione Servizi di Protezione Internazionale, aveva emesso una “Nota orientativa sulle domande d’asilo riguardanti la mutilazione genitale femminile” (Reperibile all'indirizzo http://www.unhcr.it/cms/attach/editor/2011-12%20UNHCR%20-%20FGM_ITA.pdf), con lo scopo preciso, dichiarato nell’introduzione, di fornire indicazioni sul trattamento delle domande di status di rifugiato correlate con la mutilazione genitale femminile. La Nota afferma che una ragazza o una donna, che chiede asilo poiché obbligata a sottoporsi, o è probabile che sarà soggetta, a MGF può avere titolo allo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951; aggiunge la Nota che in determinate circostanze anche il genitore può affermare un fondato timore di persecuzione in connessione con l’esposizione della figlia al rischio di MGF.

Il documento in questione merita un breve approfondimento sia per la rilevanza delle posizioni e dei principi espressi, sia per gli ampi richiami che ad esso fanno le due pronunce in commento. Dopo aver illustrato le principali tipologie di pratiche, le complicazioni per la salute mentale e fisica della donna e le conseguenze, fisiche e mentali di più lungo periodo, la Nota afferma che l'U.N.H.C.R. considera la MGF come una forma di violenza basata sul genere che infligge grave danno, fisico e mentale, e che, come tale, costituisce persecuzione. La Nota prosegue evidenziando che tutte le forme di MGF violano plurimi diritti fondamentali delle donne e delle ragazze, tra cui il diritto alla non discriminazione, il diritto alla protezione dalla violenza fisica e mentale, il diritto agli standard sanitari più alti possibili, e, in alcuni casi, il diritto alla vita. E' nota la possibilità di reiterazione nel tempo della stessa pratica o di sottoposizione ad una pluralità di pratiche di gravità via via maggiore; dunque, la donna o la ragazza già sottoposta alla pratica prima della sua domanda di asilo, potrebbe legittimamente avere ancora un fondato timore di futura persecuzione. Infine, il fatto che la MGF sia perpetrata per lo più da individui privati non esclude il fondato timore di persecuzione (rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato) se le autorità interessate non sono in grado o non intendono proteggere la donna o la ragazza dalla pratica. La pratica di MGF, infatti, spesso è profondamente radicata nelle norme socio-culturali, ed è sostenuta da capi religiosi o tradizionali (oltre che dagli stessi familiari più prossimi della donna) che esercitano potere al livello locale; per tale ragione, le autorità statuali potrebbero non volere o non essere in grado di interferire con tali consuetudini o tradizioni. La Nota conclude affermando che, si cita testualmente, "Nei casi di MGF è di fondamentale importanza considerare il tema della persecuzione non solo come un problema "personale" o sociale della richiedente, ma come chiaramente legato a una o più delle fattispecie contemplate dalla Convenzione. Il presente documento riafferma il convincimento ora ben affermato che le vittime o le potenziali vittime di MGF possono essere considerate come membri di un determinato gruppo sociale".

Seguendo un ordine cronologico di datazione, un breve cenno merita, a mio avviso, il complesso delle misure di prevenzione e contrasto del fenomeno della violenza di genere, di protezione delle vittime e di criminalizzazione dei responsabili adottato dal Consiglio d’Europa con la Convenzione di Istanbul, aperta alla firma l’11.5.2011, ma non ancora in vigore per assenza del numero minimo di ratifiche richiesto dalla Convenzione stessa (la Convenzione è stata sottoscritta dall'Italia il 27.9.2012).

Dopo aver definito nel preambolo la violenza contro le donne come species della più ampia fattispecie della violenza di genere, e le MGF (insieme con la violenza domestica, le molestie sessuali, lo stupro, il matrimonio forzato, i delitti commessi in nome del cosiddetto “onore”) come grave violazione dei diritti umani delle donne e delle ragazze e principale ostacolo al raggiungimento della parità tra i sessi, la Convenzione sancisce espressamente, all’articolo 60 rubricato "Richieste di asilo basate sul genere", che le Parti: 1. adottino le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basate sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare / sussidiaria; 2. accertino che un’interpretazione sensibile al genere sia applicabile a ciascuno dei motivi della Convenzione, e che nei casi in cui sia stabilito che il timore di persecuzione è basato su uno o più di tali motivi, sia concesso ai richiedenti lo status di rifugiato, in funzione degli strumenti pertinenti applicabili; 3. adottino le misure legislative o di altro tipo necessarie per sviluppare procedura di accoglienza sensibili al genere e servizi di supporto per i richiedenti asilo, nonché linee guida basate sul genere e procedure di asilo sensibili alla questione di genere.

Ed ancora. Con la risoluzione del 14.6.2012 (reperibile sul sito http://www.europarl.europa.eu), il Parlamento europeo, dopo aver evidenziato al “Considerando E” che “la mutilazione genitale femminile è indice di una disparità nei rapporti di forza e costituisce una forma di violenza nei confronti delle donne, al pari delle altre gravi manifestazioni di violenza di genere, e che è assolutamente necessario inserire sistematicamente la lotta alle mutilazioni genitali femminili in quella più generale contro la violenza di genere e la violenza nei confronti delle donne”, ha invitato prioritariamente l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ad adottare in occasione della 67a sessione una risoluzione che abolisca le mutilazioni genitali femminili a livello mondiale, e secondariamente gli Stati membri a continuare a ratificare gli strumenti internazionali e a dare loro attuazione attraverso legislazioni che proibiscano ogni forma di mutilazione e prevedano sanzioni efficaci per i responsabili.

L’invito del Parlamento europeo, in effetti, è stato poi puntualmente raccolto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, proprio in occasione della 67a sessione, ha adottato all'unanimità una risoluzione che ha messo al bando le MGF: un invito agli Stati ad introdurre nelle legislazioni nazionali leggi che vietino tali pratiche e ad imporne il rispetto.

La risoluzione non ha valore vincolante, ma la raggiunta unanimità è certamente segnale di un consenso e di una maturata consapevolezza che raramente si manifesta. La sfida è ora quella di non fermarsi al valore simbolico che le ormai plurime decisioni in sede internazionale hanno assunto, e di lavorare per rendere effettive le misure di prevenzione, oltre che di repressione del fenomeno. Il rischio, infatti, di adozione di provvedimenti basati prevalentemente sul pregiudizio culturale, o sull’onda emotiva di qualche episodio balzato all’onore delle cronache, è decisamente concreto!

Le decisioni in commento, al contrario, allontanano tale rischio perché ristabiliscono un equilibrio tra la gravità della pratica subita o paventata dalla donna e la forma di protezione internazionale più completa per contrastarla.

 

Nota

Per una sintesi delle misure della Convenzione di Istambul, si veda “La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, di Adriana di Stefano in Diritto Penale Contemporaneo, all’indirizzo

http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/1759 la_convenzione_di_istanbul_del_consiglio_d_europa_sulla_prevenzione_e_la_lotta_contro_la_violenza_nei_confronti_delle_donne_e_la_violenza_domestica/

Per una rassegna articolata dei principali interventi del Parlamento europeo sul tema si veda “Verso una risoluzione dell’ONU per l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili a livello mondiale. Il trattamento giuridico di questa pratica tra atti internazionali, modelli culturali e normative nazionali” di R. Fattibene, reperibile nella rivista telematica giuridica dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti all’indirizzo http://www.rivistaaic.it/articolorivista/verso-una-risoluzione-dell-onu-l-abolizione-delle-mutilazioni-genitali-femminili

Per una lettura critica delle strategie di contrasto del fenomeno, con un accenno specifico alle scelte adottate dal legislatore nazionale si veda “Modificazioni genitali: tradizioni culturali, strategie di contrasto e nuove norme penali”, di A. Vanzan e L. Miazzi, cit., e “Prevenzione e divieto delle mutilazioni genitali femminili: genealogia (e limiti) di una legge”, di G. Brunelli, in Quaderni Costituzionali, n. 3/2007.

 

28/05/2013
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