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Le vittime di Nizza: se accadesse in Italia…

di Marco Bouchard
Giudice del Tribunale di Firenze
Se fossimo colpiti da tragedie simili a quelle che hanno offeso la Francia e le persone che si trovavano sul suo territorio al momento degli attentati, non potremmo disporre di alcuna delle strutture e delle forme di assistenza specificamente dedicate alle vittime di reati e ai loro famigliari

Nella falcidia del 14 luglio a Nizza l’autocarro condotto da Mohamed Lahouaiej Bouhlel ha ucciso 84 persone e ne ha ferite 202. E’ incalcolabile il numero delle persone traumatizzate da questo evento, tra i parenti delle vittime e le persone che hanno assistito alla strage.

A distanza di tre giorni da quei fatti è stata diffusa la notizia – data dal segretario di Stato francese, delegato all’Aiuto alle vittime, Juliette Méadel – secondo cui “già dalla fine della prossima settimana” ci saranno i primi indennizzi per le vittime dell’attentato.

Avete letto bene: i nostri cugini hanno un segretario di Stato che si occupa in via esclusiva delle vittime di reato.

Juliette Méadel il 16 luglio aveva visitato il Centro universitario mediterraneo (CUM) presso la cui sede era stato costituito il punto di raccolta per l’assistenza medica, emotiva e psicologica per i sopravvissuti all’eccidio. Nel corso della visita ha dichiarato che avrebbe garantito l’indennizzo per tutte le vittime, quelle traumatizzate direttamente e i parenti colpiti indirettamente dal crimine, senza alcuna eccezione per gli stranieri.

Se fosse successo da noi nessuno avrebbe potuto dare una simile notizia.

In Francia esiste un Fondo di Garanzia per le vittime degli atti di terrorismo e di altri reati (FGTI) creato nel 1986 che dispone di una riserva di 1,3 miliardi di euro. La cassa – ed in questo forse la Francia è un caso unico al mondo – è formata grazie al contributo di solidarietà nazionale mediante prelievi sui contratti assicurativi di beni (abitazione, impresa, veicoli) stabilito in € 3,30 per ogni contratto (sulla base di circa 80 milioni di contratti).

Da questa riserva sono stati prelevati tra i 300 e 350 milioni di euro per le vittime degli attacchi del 13 novembre a Parigi e a Saint Denis.

Immediatamente dopo i fatti del 14 luglio è stata istituita una cellula interministeriale (giustizia, interni, sanità e affari esteri) di aiuto per le vittime con un numero verde funzionante già all’1 e 30 del 15 luglio, migliorando così la reazione istituzionale criticata in occasione della carneficina che aveva colpito la capitale francese lo scorso anno. Della cellula fanno parte rappresentanti del Pubblico ministero, la Croce rossa, un’équipe medico-psicologica, l’Istituto nazionale delle associazioni per le vittime (INAVEM) e il FENVAC che interviene specificamente in occasione di incidenti collettivi. L’INAVEM – sia detto per inciso – ha festeggiato il suo trentennale dalla nascita proprio nel mese di giugno di quest’anno, a sottolineare la coincidenza tra la legge istitutiva del fondo e l’esistenza di una struttura generalista per l’aiuto alle vittime diffusa su tutto il territorio nazionale.

L’obiettivo dell’attuale segretario di Stato per l’aiuto alle vittime in Francia è quello di distinguere con precisione il trattamento dei feriti e dei parenti delle persone decedute dalle altre persone traumatizzate dal tragico evento, offrendo loro un riferimento istituzionale unico ad evitare così dei percorsi ad ostacoli nei meandri dei servizi pubblici.

I costi per quest’operazione sono ovviamente notevoli. Ma è l’unica strada per dimostrare che lo Stato è presente e si preoccupa delle vittime.

Se fossimo colpiti da tragedie simili a quelle che hanno offeso la Francia e le persone che si trovavano sul suo territorio al momento degli attentati non potremmo disporre di alcuna delle strutture e delle forme di assistenza specificamente dedicate alle vittime di reati e ai loro famigliari. Da noi non esistono ancora – se non in alcune esperienze locali – una cultura della vittima, servizi e operatori capaci di affrontare il dramma che colpisce le persone offese dalla violenza fisica e morale espressa tanto nelle grandi sciagure quanto nelle singole disgrazie individuali.

Eppure c’è stata un’occasione importante per adeguarci alle necessità imposte da queste tragedie collettive o, più banalmente, dagli obblighi della Direttiva europea per l’assistenza alle vittime di reato del 2012 la cui attuazione è scaduta il 16 novembre 2015.

Abbiamo preferito – oltretutto in ritardo – la strada degli adempimenti formalistici introducendo qualche correttivo burocratico al processo penale e il Ministero della giustizia annuncia sul suo sito che provvederà a formare una sorta di indirizzario delle associazioni per le vittime di reato per liberarsi dagli impegni che una seria organizzazione nazionale di assistenza alle vittime richiederebbe: servizi integrati a livello locale, specifici, riservati e gratuiti capaci di offrire aiuto legale, medico specialistico, sostegno emotivo e psicologico, informazioni precise sulle indagini e sui successivi percorsi processuali.

Tutti i paesi europei, tranne la Bulgaria, Cipro e pochissimi altri, hanno emanato leggi e predisposto servizi efficienti in largo anticipo rispetto al termine fissato dalla Direttiva del 2012. Noi no. E questa omissione è voluta, deliberata dalla nostra politica nazionale.

In Italia non si vuole capire quanto l’attenzione verso le vittime rassicuri e rafforzi le capacità delle persone di affrontare il pericolo della tragedia piccola o grande che si presenta all’improvviso dietro l’angolo di ognuno di noi. I nostri governanti, i dirigenti e i funzionari di cui i primi si avvalgono sembrano preferire, almeno in Italia, l’esigenza di autoproteggersi dalle censure europee piuttosto che far fronte alle ferite che colpiscono il corpo della nostra collettività.

A distanza di 12 anni dall’emanazione della Direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti il Parlamento ha cercato di mettere fine alle procedure d’infrazione intentate dall’Unione europea nei confronti del nostro Stato con una normativa irrispettosa verso la dignità delle vittime: ne beneficeranno solo le persone con un reddito inferiore a € 11.528, solo a seguito di una sentenza passata in giudicato e con molte limitazioni sulle spese risarcibili. Briciole a distanza di anni e di faticoso esercizio dei propri diritti che alimenteranno la sfiducia verso le istituzioni.

Ci sono stati diversi tentativi di porre all’attenzione del Governo la necessità di affrontare seriamente la cura verso le vittime con risultati deludenti sotto ogni aspetto. È palpabile la sensazione che l’unico interesse del Governo è l’adempimento apparente e formale degli obblighi minimi imposti dalla comunità internazionale e di quelli invocati dalle vittime per il rispetto dei loro diritti.

I crimini, qualunque sia la loro gravità, sono stati storicamente affrontati – con alterne fortune e alterni fallimenti – attraverso strategie repressive e preventive, a loro volta interpretate secondo modelli e finalità estremamente diversificati tra loro. La preoccupazione verso le conseguenze dei crimini è stata finora considerata un aspetto profondamente sottovalutato o, addirittura, rimosso.

Sarebbe, però, un grave errore pensare che la cura verso la vittima sia sinonimo di pietismo e assistenzialismo, affare da devolvere a compiti di assistenza spirituale, psicologica o, tutt’al più, medica. L’attenzione alla vittima è invece uno snodo centrale delle società contemporanee attraverso la quale si misura la qualità di una democrazia non meno intensamente di quanto ci permette di fare l’analisi della qualità della vita carceraria.

22/07/2016
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