Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La sinteticità degli atti processuali civili di parte nel giudizio di legittimità

di Franco De Stefano
Consigliere della Corte di cassazione
Commento a Cassazione, sentenza n. 21297/16

SOMMARIO: 1. Il principio di sinteticità: le ragioni dell’attenzione / 2. La sentenza n. 21297/16 della Corte di cassazione / 3. Il quadro normativo attuale / 4. Spunti comparatistici / 5. La soft law / 6. La giurisprudenza di legittimità sul dovere di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte / 7. Violazione del dovere di sinteticità e chiarezza ed abuso del processo / 8. Legittimi gli oneri di ammissibilità del ricorso per cassazione / 9. La chiarezza e la sinteticità come requisiti formali del ricorso / 10. Un requisito conforme anche alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo / 11. In … sintesi

 

1. Il principio di sinteticità: le ragioni dell’attenzione.

La riflessione sul principio di sinteticità degli atti processuali civili non è nuova, ma negli ultimi tempi[1] – anche sull’abbrivio della sua progressiva codificazione nel processo amministrativo – sta acquistando un ruolo centrale, verosimilmente a causa del raggiungimento del livello di guardia della crisi di funzionalità del processo civile e soprattutto di quello di legittimità, afflitto da un arretrato spaventoso e difficilmente gestibile; crisi peraltro affrontata con interventi spesso improvvisati con la discussa tecnica della decretazione di urgenza, privi di un reale disegno sistematico, senza alcun coinvolgimento dell’Accademia e degli operatori del diritto.

In … estrema sintesi …, nel marasma ingestibile della domanda caotica di giustizia la prolissità e l’oscurità degli atti processuali, a cominciare da quelli di parte, viene avvertita come in grado di pregiudicare in modo sensibile la gestione delle già limitate risorse a disposizione, impedendone in modo determinante l’uso razionale; e, quando sono gli atti di parte ad essere prolissi od oscuri, si percepisce come essi siano in grado di danneggiare i litiganti diligenti, che si vedono distolti i giudici dall’esame delle loro controversie, siccome impegnati a filtrare e decifrare, previa adeguata interpretazione, cause impostate in modo inesperto o imperito, quando non intenzionalmente non sintetico, né chiaro.

Eppure, nel processo amministrativo da tempo si è avviata una riflessione sulla sinteticità e sulla chiarezza degli atti processuali, sia del giudice che delle parti[2]: che è culminata nella norma espressa dell’art. 3 del c.p.a. – dapprima interpretata quasi con scetticismo[3] – e nelle sue successive modifiche, l’ultima delle quali apportata dalla recentissima legge 169 del 2016, come si vedrà[4].

Anzi, l’esperienza del supremo Consesso amministrativo non ha esitato, anche di recente, a qualificare la sinteticità degli atti come uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace[5]; e quell’esperienza porta la dottrina a definire la sinteticità, quale espressione del più lato principio di economia processuale, come uno dei mezzi per dare ausilio agli obiettivi della ragionevole durata del processo, dell’abbattimento dell’arretrato, della qualità delle decisioni e del processo telematico[6].

Nel processo civile è tutto più difficile.

Il costume dell’inclinazione alla prolissità ed alla complessità dell’argomentazione nel contesto giudiziario trova le sue antichissime radici[7] in una molteplicità di fattori, in gran parte peraltro legati alla temperie culturale romanistica ed all’assetto degli ordinamenti di derivazione canonica o di civil law a trattazione dapprima segreta e poi scritta, ma possono riassumersi nel presupposto – peraltro spesso amaramente fallace – della reputata maggiore idoneità alla persuasione, non tanto della controparte quanto piuttosto proprio del cliente e del giudice od in vista dei successivi gradi del giudizio, che si attribuisce ad un’argomentazione ridondante o abbondante o ripetuta.

Fin dalla formazione scolastica prima ed universitaria poi, del resto, nessuna apprezzabile attenzione è dedicata alla formulazione o redazione chiara e sintetica degli atti, o prima ancora alle pratiche di affinamento o ricerca delle capacità espressive e comunicative del proprio pensiero in generale: nonostante la banalizzazione di quelle capacità che è in corso al giorno d’oggi, mediante l’impiego nell’espressione e nella comunicazione del pensiero di strumenti di massificazione e semplificazione mediante strumenti di immediata messa in comune perfino di sentimenti o sensazioni personalissimi, con simboli e segnali pre-verbali, banalizzazione solo in apparenza compensata quantitativamente dall’accesso ad una massa indifferenziata di dati, che però non si è poi in grado di vagliare e tanto meno di trattare criticamente, con una personale rielaborazione ed appropriazione.

È così allora che, se prima si tendeva ad essere sintetici perché c’erano almeno la difficoltà della composizione dell’atto e la leva fiscale (dipendendo il costo della bollatura degli atti dalla loro lunghezza), oggi la forfetizzazione del contributo unificato e soprattutto le disponibilità virtualmente indefinite degli strumenti informatici, in un contesto in cui il senso critico della maggior parte degli operatori si sta pericolosamente spegnendo e tendendo quasi ad atrofizzarsi, ha aperto orizzonti inesplorati e scatenato potenzialità prima impensabili, consentendo all’operatore di esporre, sostanzialmente, in un atto giudiziario tutto quello che gli passa per la testa, senza prendersi la briga di fare proprio il materiale cognitivo ed argomentativo pure preso variamente in considerazione, di organizzarlo, vagliarlo, ordinarlo, ridurlo a quanto davvero necessario per sostenere efficacemente la propria tesi. Nel dubbio, meglio dire tanto o dire tutto quello che si pensa di dover dire, qualcosa coglierà nel segno o si potrà sempre invocare non essere stata tenuta nel debito conto.

Certo, chiarezza e sintesi sono caratteristiche dell’esposizione, sia essa orale, sia essa scritta; ed attengono quindi all’intrinseca organizzazione dell’argomento e, quindi, della comunicazione del pensiero, a sua volta articolato nelle tesi a sostegno – evidentemente – della richiesta e, nel processo civile, di quella finale rivolta al giudice; si tratta quindi di due elementi anteriori al testo stesso e, al contempo, ad esso immanenti, tali da caratterizzarlo e da connotarne l’efficacia comunicativa.

Ma sono connotati indispensabili nelle relazioni umane e, per quel che qui interessa, sicuramente del processo e del processo civile; e, all’interno di questo, di quello di impugnazione e di legittimità, a maggior ragione nel presente momento storico.

 

2. La sentenza n. 21297/16 della Corte di cassazione.

I riflettori si riaccendono sulla problematica grazie ad una recente sentenza (Cass. 20 ottobre 2016, n. 21297) con la quale la Corte di cassazione è intervenuta sanzionando con l’inammissibilità un ricorso che non rispettava il canone di chiarezza e soprattutto di sinteticità.

Il caso, probabilmente emblematico, è stato descritto dalla stessa sentenza con puntualità, anche se, proprio per la necessità di descriverlo con attenzione, non è stato possibile farlo in poche battute: a dimostrazione che non necessariamente la sinteticità coincide con la brevità.

Questa la vicenda: presupposta l’inefficacia, a causa dell’avveramento di una condizione risolutiva espressa, di un contratto preliminare di compravendita di due immobili con contestuale immissione nella detenzione di questi, era stata rigettata la domanda della promissaria acquirente per l’esecuzione in forma specifica del preliminare ed anzi riconosciuto il diritto della controparte a vedersi rimborsati gli oneri condominiali relativi ai beni promessi in vendita per il periodo di detenzione.

La sentenza di appello è stata impugnata con diciotto motivi, che la sentenza di legittimità illustra analiticamente, sia pure riassumendone il senso ed il significato; ma la vera – e negativa – caratteristica del ricorso viene poi ravvisata nella carenza di una “sommaria esposizione dei fatti di causa” (e quindi nella violazione del requisito di forma previsto dal n. 3 dell’art. 366 c.p.c.) per la sua particolare struttura, come pure nella modalità tecnica di articolazione dei singoli mezzi di doglianza.

Questo ricorso si risolveva, insomma, nella trascrizione di ampi stralci dell’atto di appello della stessa ricorrente, interpolata con l’integrale trascrizione di taluni documenti, seguita da una descrizione del processo di primo grado a sua volta risolta in un mero rinvio ai motivi di ricorso e da una descrizione del processo di secondo grado priva delle indicazioni necessarie per l’individuazione del devolutum, non venendo indicate né le statuizioni della sentenza di primo grado investite di impugnazione, né le censure proposte con l’appello.

La sentenza di legittimità che qui si commenta rimprovera al ricorrente di avere ritenuto di poter assolvere all’onere di offrire l’esposizione sommaria dei fatti della causa proponendo un testo di circa quarantuno pagine, di cui circa quaranta contenenti la mera trascrizione di parti del proprio atto di appello; mentre pure i diciotto motivi di ricorso - che si sviluppano per centonovantuno pagine (facendo ascendere il numero delle pagine complessive dell’atto di impugnazione, compreso il sommario e l’indice, a duecentocinquantuno) - risultano “redatti con una alluvionale riproposizione di stralci di atti processuali e documenti, con la quale in sostanza il ricorrente pretende di riversare in sede di legittimità il contenuto dei gradi di merito del presente giudizio, nonché di altri giudizi, civili e penali, tra le stesse parti”.

La sentenza ricorda la giurisprudenza di legittimità che esige l’esposizione sommaria dei fatti articolata in un’attività di narrazione del difensore, onerato di una sintesi specificamente finalizzata alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata; e, non consentendo un recupero di tali obiettivi nemmeno la tecnica redazionale dei motivi di impugnazione per quanto appena rilevato, richiama e ribadisce il precedente di Cass. 17698/14: confermando, con tale importante pronuncia, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva comporta per il ricorrente per cassazione il rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, tendente ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma secondo, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui.

Al principio la sentenza in commento affianca però interessanti ed ulteriori argomenti.

Da un lato, pur dato atto della carenza di prescrizioni esplicite di sinteticità nel processo civile, individua i riferimenti normativi esistenti come introdotti espressamente nel c.p.a. e soprattutto desume le prime dal principio di ragionevole durata del processo e da quello di leale collaborazione tra le parti processuali e tra quelle ed il giudice (richiamando Cass. n. 11199/12 e Cass. n. 9488/14): notando che “la smodata sovrabbondanza espositiva degli atti di parte, infatti, non soltanto grava l’amministrazione della giustizia e le controparti processuali di oneri superflui, ma, lungi dall’illuminare i temi del decidere, avvolge gli stessi in una cortina che ne confonde i contorni e ne impedisce la chiara intelligenza, risolvendosi, in definitiva, in un impedimento al pieno e proficuo svolgimento del contraddittorio processuale”.

È vero che mancano sia un’esplicita sanzione normativa della prolissità e dell’oscurità degli atti di parte (a differenza, ad esempio, del rito svizzero) e soprattutto del ricorso per cassazione (a differenza del rito dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America), che un potere di autoregolamentazione da parte della Corte sui requisiti formali degli atti (a differenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea): tanto che parrebbe, allo stato, affidato a sole tecniche di soft law, con un volontario o spontaneo coinvolgimento degli interessati, l’auspicabile obiettivo di un processo (anche) di legittimità introdotto da atti chiari e sintetici, che deducano “con immediatezza e nitore concettuale” quanto serve per decidere e soltanto quello che serve per decidere.

Nonostante tali carenze, peraltro, la sentenza in commento individua la sanzione alle patenti violazioni dei principi di chiarezza e di sinteticità nel fatto che quelle pregiudicano l’intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridondando nella violazione delle prescrizioni, queste sì assistite da una sanzione testuale di inammissibilità, di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.: e, per tale ragione, dichiarando il ricorso inammissibile (e condannando la ricorrente, oscura e prolissa, alle spese senza aver potuto esaminare il merito delle sue doglianze).

 

3. Il quadro normativo attuale.

Già la fattispecie decisa con la sentenza in commento è emblematica: diciotto motivi e duecentocinquantuno pagine, anche solo ad essere letti, prima che studiati, impegnano un tempo notevole, senza considerare le risposte e le repliche legittimamente indotte e le eventuali memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.; quei diciotto motivi e quelle duecentocinquantuno pagine, ad essere poi studiati per potere essere almeno riassunti con l’identificazione di un loro filo conduttore o tema specifico, secondo la sintesi operata nella qui gravata sentenza, impegnano un tempo ulteriore ancora maggiore; ad essere poi materialmente stesi per iscritto, si vede come anche la più sagace delle sintesi, che non voglia tralasciare (pur peraltro potendolo) l’indicazione delle doglianze, impegnano per altro tempo non indifferente.

Ideali quindi la situazione e lo spunto per affrontare la tematica e affermare il principio.

È ben vero che, a differenza del processo amministrativo, in quello civile manca un’espressa enunciazione del canone di necessaria sinteticità e chiarezza degli atti processuali, sia del giudice che delle parti: soltanto imponendosi al giudice la prima, disponendosi per la concisa esposizione e la succinta motivazione agli artt. 132 e 134 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., mentre per gli atti di parte quello che sta a cuore del codificatore sono modalità redazionali tendenti all’ordine, alla percepibilità, inequivocabilità ed immodificabilità materiale dello scritto (art. 46 disp. att. c.p.c.), piuttosto che alla sua articolazione.

Nemmeno nei progetti di riforma governativi si fa menzione di un tale principio; è vero che l’articolato consegnato al Ministro della giustizia nel dicembre 2013 dalla commissione ministeriale presieduta dal prof. Vaccarella, che lo stesso ministro aveva insediato nel giugno-luglio 2013 con l’incarico di “elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione”, prevedeva l’inserimento nell’art. 121 c.p.c. di un comma 2 così concepito: «Il giudice e le parti redigono gli atti processuali in maniera sintetica»[8]; ma i lavori di questa Commissione sono stati tenuti in non cale dallo stesso Ministro che l’aveva nominata, avendo egli stesso diramato il testo del “collegato giustizia” – che in massima parte prescindeva da quei lavori – alla legge di stabilità per il 2014 pochi giorni prima della formale consegna degli elaborati[9].

Nel processo amministrativo, invece, l’art. 3 c.p.a., comma secondo, ha collocato tra i princìpi generali quello di “sinteticità degli atti”, sotto forma di dovere sia delle parti che del giudice di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica, quale binomio inscindibile; e la regola era stata di poco preceduta di poco preceduta dall’art. 245, comma 2-undecies, del codice degli appalti n. 163/2006, introdotto dal d.lgs. n. 53/2010, che nel rito appalti imponeva la sinteticità di “tutti gli atti di parte”, in termini di doverosità; inoltre, la regola è ribadita dall’art. 120, comma decimo, c.p.a. per il rito degli appalti.

L’iter ha visto però il suo compimento o coronamento con l’art. 7-bis (introdotto dalla legge di conversione 25 ottobre 2016, n. 197) del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, che ha espressamente inserito, nelle disposizioni di attuazione del c.p.a. (l’allegato 2 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), un importante art. 13-ter, che analiticamente infine disciplina i criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte, da un lato rinviando ad un decreto del presidente del Consiglio di Stato e dall’altro lato giungendo a sanzionare con l’esclusione dal thema decidendum (perfino esonerando il giudice dalla sua disamina e negando dall’ambito di impugnazione l’omessa disamina) ciò che eccede i limiti imposti dal decreto del presidente del Consiglio di Stato[10]. Ciò che non è chiaro e sintetico non è giustiziabile; ciò che eccede i canoni di chiarezza e sinteticità è al di fuori della garanzia della giurisdizione.

 

4. Spunti comparatistici

La centralità del tema affrontato si rinviene anche in altri ordinamenti.

Una specifica disciplina per l’atto processuale di parte illeggibile o prolisso è prevista dal riformato codice di procedura civile elvetico, il quale all’art. 132 dichiara impresentabili – e quindi in sostanza inammissibili – gli atti processuali illeggibili, sconvenienti, incomprensibili o prolissi.

Nell’ordinamento statunitense le vigenti rule 8 e 10 delle Federal Rules of Civil Procedure impongono che gli atti processuali delle parti (pleading) siano brevi, di piana esposizione, con specifica allegazione dei fatti fondanti la pretesa azionata e delle argomentazioni difensive così da consentire al giudice di valutarne la plausibilità[11].

Le Rules of the Supreme Court of the United States regolano, poi, in modo minuzioso i criteri redazionali degli atti processuali: in particolare, la Rule 33 disciplina il tipo di carta, il formato del foglio, i colori ammessi, i caratteri tipografici impiegabili nonché il limite di parole e di pagine utilizzabile per ogni tipologia di atto processuale.

Analoga appare la disciplina stabilita dalle supreme Corti europee:

- l’art. 58 del regolamento di procedura della Corte di Giustizia e del Tribunale dell’Unione europea affida alla Corte il compito di stabilire la lunghezza massima degli atti processuali, conformandone i criteri redazionali, la struttura, il lessico e la sintassi;

- la Corte europea dei diritti dell’uomo stabilisce le modalità di stesura degli scritti difensivi, fissando - tra l’altro - in una decina di pagine la lunghezza massima dei ricorsi e consentendo un superamento di tale limite solo in ipotesi eccezionali[12].

 

5. La soft law

Intervengono in materia di sinteticità degli atti processuali civili di parte dinanzi alla Corte di cassazione allora ben due iniziative di indubbia autorevolezza:

- una nota - in data 17.6.13 - del primo Presidente della Corte di cassazione[13], indirizzata al presidente del C.N.F. per sollecitare la stesura di atti caratterizzati da “chiarezza” e “sinteticità”, in modo da esaltare la “forza d’impatto” dell’impugnazione: con la quale, tra l’altro, si sottolinea l’opportunità: che gli atti rivolti alla Corte non superino, di norma, le venti pagine; che gli atti di una certa complessità siano accompagnati da un riassunto di due o tre pagine; che, comunque, quelli complessi siano articolati in un indice-sommario che ne faciliti la lettura; che le memorie ex art. 378 c.p.c. non siano meramente riproduttive degli atti introduttivi, come evidentemente spesso avviene;

- un “protocollo” di intesa tra la Corte di Cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense avente ad oggetto le regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria[14], che si sofferma sulle tecniche redazionali (suggerendo anche i formati di composizione dei documenti e la struttura del singolo ricorso e controricorso, in modo assai simile ad un formulario) e sulle modalità del rispetto del c.d. principio di autosufficienza, con una serie di note in calce a precisazione di oneri di formazione anche di atti diversi da quelli espressamente indicati dal testo normativo.

L’efficacia di tali documenti è ancora sottoposta alla valutazione degli interpreti, ma la loro valenza quanto meno quale soft law (quindi di strumenti la cui osservanza è di tipo spontaneo e volontaristico, alla stregua di tutti i Protocolli adottati, generalmente quale esito dell’attività di Osservatori e cioè di spontanee occasioni di confronto fra pratici in un ambito territoriale ristretto od omogeneo[15]) dovrebbe essere indiscussa, tanto da offrire un parametro di valutazione dell’utilità che ciascun attore del processo può trarre dalla modifica delle proprie abitudini professionali; e tuttavia lo stesso Protocollo di intesa - pur alludendo a conseguenze negative sul terreno delle spese legali in caso di inosservanza nonostante l’assenza di una fonte normativa al riguardo - riconosce che la violazione dei criteri da esso stesso posti non può comportare alcuna sanzione di inammissibilità o improcedibilità, salvo che ciò non sia espressamente previsto dalla legge.

Sempre nell’ambito di tali strumenti verrebbe da auspicare l’adozione di autentici formulari di sintesi studiati dagli operatori e licenziati all’esito del dibattito tra gli stessi, sulla falsariga di quanto adottato nella legislazione eurounitaria, dove l’esigenza di individuare chiari e sintetici minimi comuni denominatori tra decine di procedure civili diverse e di terminologie differenti impone di distillarne l’esperienza in atti praticamente schematici e soprattutto uniformi, idonei ad orientare immediatamente chi ne deve fruire[16]. Se si riesce, tra esponenti di ventisette Paesi di tradizioni culturali diverse, a trovarsi d’accordo sul contenuto minimo di atti di procedimenti anche complessi, ci si chiede come non si riesca a compiere un analogo sforzo in un contesto nazionale tutto sommato unitario.

È peraltro doveroso chiedersi se e fino a che punto, fino ad un auspicabile radicale ed epocale mutamento di impostazione culturale, tale da investire anche i canoni ermeneutici ai massimi livelli della giurisprudenza di legittimità, il singolo ricorrente possa arrischiarsi a fidarsi di regole così sfornite di qualsiasi sanzione.

 

6. La giurisprudenza di legittimità sul dovere di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione il richiamo al dovere di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte, riferito essenzialmente al ricorso principale (anche se, a stretto rigore, la conclusione poi vale allo stesso modo per quello incidentale), è più insistente di quanto sembri.

Già la sentenza in commento si riferisce al precedente di Cass. 17698/14; ma, prima ancora di quest’ultima ed anzi da essa stessa richiamato, può segnalarsi il chiaro arresto di Cass. 29 luglio 2014, n. 17178, secondo cui “il rispetto del canone della chiarezza e della sinteticità espositiva rappresenta l’adempimento di un preciso dovere processuale il cui mancato rispetto, da parte del ricorrente per cassazione, lo espone al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione (Cass. 22 giugno 2006, n. 19100), principalmente in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e in coerenza con l’art. 6 CEDU (Cass. 1 agosto 2013, n. 18410; Cass. 25 settembre 2013, n. 21909), nonché di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui (arg. ex Cass. 4 luglio 2012, n. 11199; Cass. 30 aprile 2014, n. 9488).

Lo stesso principio è poi stato applicato numerose altre volte: almeno da Cass. 20589/14 già nel medesimo anno 2014 e, solo nel 2016, da ulteriori pronunzie, per lo più della sezione lavoro (Cass. nn. 24940/16, 22709/16, 22654/16, 21239/16, 20815/16, 18579/16, 17526/16, 9228/16, 34/16).

 

7. Violazione del dovere di sinteticità e chiarezza ed abuso del processo

In attesa – non si sa peraltro quanto auspicabile – di un’estensione al processo civile dei draconiani rimedi amministrativistici di sostanziale amputazione della tutela giurisdizionale (come un vero e proprio letto di Procuste) su tutto ciò che eccede i limiti dimensionali autoritativamente fissati, occorre, per rimanere nel momento della descrizione del fenomeno, valutare anche se un atto prolisso ed oscuro integri o meno un abuso del processo, anche per estrapolarne una conseguenza sanzionatoria di qualche tipo.

L’operazione può essere però ardua ed improduttiva:

- ardua: perché la figura stessa dell’abuso del processo è di difficile e tuttora sfuggente configurabilità[17], sottoposta ad una continua elaborazione da parte degli interpreti in assenza di un testo normativo di sicuro riferimento, ma comunque individuata dalla Corte di legittimità nell’utilizzazione del processo per finalità non solo diverse, ma perfino pregiudizievoli all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto[18]: sicché essa pare presupporre quanto meno un elemento soggettivo qualificato e quindi almeno una colpa grave, sebbene poi da valutarsi con estremo rigore in rapporto alla maggiore professionalità in ogni caso richiesta all’avvocato cassazionista, tanto da non coprire i non rari casi in cui il ricorso è non sintetico od oscuro per mera imperizia;

- improduttiva: perché gli stessi interpreti della nozione di abuso del diritto sono poi incerti sulle conseguenze del suo accertamento, in tutti i casi in cui difetta una norma cui ci si possa riferire quale sanzione, sicché ad un tale istituto, sia o meno esso ridotto ad una sintesi descrittiva anziché a principio generale dell’ordinamento, non riesce a riconoscersi con sicurezza più dell’effetto dell’eliminazione delle conseguenze dell’uso distorto del processo, mercé il ripristino o il conseguimento della situazione processuale e sostanziale che si sarebbe avuta se quella distorsione non avesse avuto luogo[19]: con il che il problema si sposta a valutare quale sia questa situazione da ripristinare.

E norme che sanzionino direttamente l’abuso in quanto tale nel caso di violazione del principio di chiarezza e di sinteticità si rinvengono in modo esplicito ed immediato ancora una volta solo processo amministrativo, con l’art. 26 c.p.a., che richiama, per la liquidazione delle spese gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del c.p.c., indicando altresì quale criterio di valutazione il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3, comma secondo, del medesimo c.p.a.; sicché l’atto prolisso, prima della riforma del 2016, pareva ridondare prevalentemente sulla regolamentazione delle spese di lite.

Quanto al processo civile, l’unica norma – esclusa, anche per la tenuità delle conseguenze, la violazione del dovere di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c. e, per la carenza di rilevanza sugli atti del processo, quella di obblighi deontologici[20] – cui pare potersi riferire è oggi l’art. 96, comma terzo, c.p.c.: ma questa ha il difetto di presupporre comunque una soccombenza nei confronti della controparte, che non solo potrebbe non esserci, ma certo non è la sola danneggiata dalla violazione del principio di chiarezza e sinteticità.

 

8. Legittimi gli oneri di ammissibilità del ricorso per cassazione.

Va allora ricercato altrove, come accennato nel passaggio finale della sentenza in commento, un fondamento all’inammissibilità del ricorso che violi il principio di chiarezza e sinteticità.

Come anche di recente la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ribadito[21], l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata - in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 - con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955) non impedisce affatto l’imposizione di requisiti, anche rigorosi, agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione, soprattutto di legittimità.

Al riguardo, l’elaborazione della Corte di Strasburgo, unica interprete della Convenzione e vincolante per il giudice nazionale ogni qual volta non sussistano norme nazionali di tenore espressamente contrario (nel solo quale caso è inevitabile la rimessione degli atti alla Corte costituzionale[22]), può fungere da fondamento per escludere la lesione anche dei corrispondenti parametri costituzionali domestici, quali i principi posti dagli artt. 24 e 111 della nostra Carta fondamentale.

È stato invero riaffermato – perfino riconoscendo l’astratta ammissibilità del pure abrogato sistema del c.d. “filtro a quesiti” per l’accesso in Cassazione – il basilare principio della piena legittimità di un sistema anche rigoroso di requisiti formali per l’accesso in Cassazione e per la redazione dei ricorsi introduttivi: sistema che non solo non viola l’art. 6 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo, ma anzi è funzionale alla tutela del ruolo nomofilattico della Corte di legittimità e quindi al conseguimento dei valori fondamentali, benché non espressamente codificati nella Convenzione, della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia; e, solo, dovendo la compresente esigenza di tutela del diritto del singolo litigante trovare un contemperamento, così che ogni soluzione possa superare – sia in astratto che in concreto – il consueto vaglio di proporzionalità tra fine perseguito e mezzi impiegati[23].

Beninteso, condizione necessaria per la legittimità di ogni requisito formale di limitazione dell’accesso al giudice e soprattutto a quello di impugnazione di legittimità è che l’interpretazione che se ne faccia in concreto non leda la sostanza stessa del diritto del ricorrente ad accedere alla Corte e che non sia viziata da un formalismo eccessivo, i quali comunque devono risultare già preventivamente imposti e conoscibili e chiari, ma non possono comportare uno sforzo ulteriore rispetto alla chiarezza del testo legislativo od alla particolare competenza richiesta al difensore del ricorrente.

Può quindi dirsi che la giurisprudenza della Corte europea autorizza il formalismo nel giudizio di legittimità in generale e nella sua fase introduttiva in particolare, purché sia superato il consueto vaglio di proporzionalità nel bilanciamento tra esigenza di certezza del diritto (e buona amministrazione della giustizia) e diritto del singolo al giusto processo; ciò che si verifica quando il singolo requisito formale:

a) è funzionale al ruolo nomofilattico della Corte di cassazione;

b) non è interpretato in senso eccessivamente formalistico;

c) è imposto in modo chiaro e prevedibile;

d) non impone un onere eccessivo per chi deve formare il ricorso, tenuto conto della particolare professionalità attesa dal difensore abilitato alla difesa della parte in Cassazione.

A tali parametri direttamente desumibili dalla richiamata sentenza Trevisanato può poi aggiungersi, quale ulteriore parametro per il vaglio di proporzionalità sempre richiesto nella valutazione anche concreta del rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Convenzione europea, l’esigenza di tutelare anche il diritto della controparte – anch’esso riconducibile all’art. 6 della Convenzione, in evidente contrapposizione dialettica con quello del ricorrente – di attendersi che le regole, anche quelle formali, siano rispettate; mentre neppure vanno sottovalutati i correnti principi sulla possibilità, soprattutto per le Corti di ultima istanza, di adottare, purché siano chiari o prefissati e prevedibili, criteri anche giurisprudenziali per regolamentare l’accesso o interpretare le norme di rango superiore che lo disciplinano.

 

9. La chiarezza e la sinteticità come requisiti formali del ricorso.

In questo quadro, a normativa processualcivilistica invariata e in attesa di strumenti di soft law incisivi e condivisi, l’esigenza conclamata di ricorsi per cassazione chiari e sintetici può allora perseguirsi proprio nel senso deciso nel passaggio finale dalla sentenza in commento, cioè con l’identificazione di tali requisiti come specificazioni di quelli codificati ai nn. 3 e 4 del comma primo dell’art. 366 c.p.c., in quanto la loro carenza pregiudica l’intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata.

La conclusione è di immediata evidenza per l’esposizione del fatto, atteso che il tenore testuale della norma processuale ne esige ed impone il carattere sommario; ma ad analogo risultato si giunge per l’esposizione dei motivi, facendosi leva sulla necessaria specificità degli stessi, come pacificamente richiesta dalla giurisprudenza di legittimità quale requisito intrinseco della doglianza[24], riferita stavolta in senso più ampio alla stessa intelligibilità ed esaustività delle questioni sviluppate.

Pure un’esposizione prolissa, affastellata di ridondanze o di passaggi sovrabbondanti od irrilevanti o di divagazioni non pertinenti, oppure oscura e contorta nella sua esposizione, elide l’immediata corrispondenza della doglianza ad uno dei motivi disciplinati dal primo comma dell’art. 360 c.p.c., in quanto per giungere al nucleo di quella è necessaria un’attività di interpretazione, interpolazione, estrazione, sintesi, enucleazione dell’atto della parte che è invece compito riservato a quest’ultima e che non può essere richiesto ad un giudicante che deve restare terzo ed imparziale, certamente quando questi ha la funzione di una Corte di legittimità ed a tutela del suo ruolo nomofilattico.

Non è né più né meno che un concetto sostanziale, oltre che solo formale, di divieto di assemblaggio o giustapposizione, esigendosi dai difensori, da cui è per legge richiesta una spiccata professionalità ad hoc, un’opera intellettuale particolarmente curata in punto di chiarezza espositiva e di sintesi, cioè di forma piana e comprensibile, espressa in idee concise e lineari, privilegiando brevi paragrafi in paratassi e cioè articolati su due o tre proposizioni coordinate piuttosto che subordinate: a giovamento prima di tutto del diritto di difesa della controparte, certamente in grado di meglio difendersi di fronte a tesi chiare e bene identificate, ma soprattutto del giudice, che potrà dedicarsi in via immediata ad individuare le questioni controversie ed a studiarle, con vantaggio finale di entrambe le parti contrapposte per la probabilità di maggiore considerazione delle prospettazioni di ognuna.

A quadro normativo e costituzionale invariato, la necessaria presa di coscienza della scarsità delle risorse umane e materiali della Corte di cassazione impone il contingentamento di quelle anche attraverso la razionalizzazione sia del loro impiego che delle regole e degli strumenti di ingaggio: a tutto vantaggio prima di tutto per lo stesso ricorrente e poi di tutti gli altri che attendono il loro turno di essere letti e ascoltati.

In altri termini, alla Corte di legittimità occorre rivolgersi non solamente con le idee chiare, ma soprattutto manifestandole in modo altrettanto chiaro prima di tutto alla controparte ed impegnando questa e la Corte su questioni seccamente e precisamente identificate, così da rendere ottimale l’impegno su ciascuna delle controversie: ciò che era il nocciolo e l’idea fondante del quesito di diritto, occasione perduta dagli operatori anche per la terra bruciata che – non del tutto provvidamente – la stessa Corte ha fatto intorno all’istituto fino a renderlo inviso ai più, nonostante la sua promozione persino in sede di Corte europea dei diritti dell’Uomo.

Certo, occorrerà pur sempre valutare caso per caso se i singoli casi di non sinteticità od oscurità siano tali da rendere inintelligibile o difficilmente intelligibile la doglianza; ma il rischio che il ricorrente deve consapevolmente accettare è che la discrezionalità della Corte, in ordine alla valutazione se il ricorso sia troppo poco sintetico o troppo poco chiaro, potrebbe essere ampia, sicché più egli si allontanerà dalla regola aurea della chiarezza e della sinteticità, più sarà per lui probabile incappare nel giudizio di mancato rispetto dei requisiti dei nn. 3 o 4 del primo comma dell’art. 366 c.p.c. e, quindi, nella dichiarazione di inammissibilità del suo ricorso.

Ancora una volta, poi, occorrerà un equilibrio tra il troppo e il troppo poco[25]: occorrendo dire - e somministrare, alla controparte prima e soprattutto alla Corte poi – tutto e soltanto quello che sia effettivamente e strettamente necessario, contemperando la sintesi e la chiarezza – ma con ogni possibile accorgimento, anche secondo quanto suggerito dal Protocollo di cui già si è detto – con i principi consolidati in tema di interpretazione degli artt. 366, comma primo, n. 6, e 369, comma secondo, n. 4, c.p.c.[26].

 

10. Un requisito conforme anche alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.

Il principio di sinteticità e chiarezza degli atti di parte applicato al ricorso per cassazione non comporta neppure una violazione della Convenzione europea, secondo l’interpretazione del suo art. 6 ricordata appena più sopra; anzi, può dirsi ad esso conforme.

Infatti, è indubbio che l’imposizione di uno stringente onere di sinteticità e chiarezza del ricorso sia funzionale al ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, essendo evidente la sua positiva incidenza sull’ordinato svolgimento del giudizio e quindi sul razionale impiego delle già limitate risorse a disposizione di quella Corte, in un sistema processuale informato – a differenza della quasi totalità di quelli delle altre democrazie occidentali – dall’imperativo costituzionale della garanzia del ricorso per cassazione in ogni ipotesi di violazione di legge.

È poi principio comunemente accettato quello di una certa autonomia, per le Corti di ultima istanza, nell’adozione anche in via giurisprudenziale, purché siano chiari o prefissati e prevedibili, di criteri per disciplinare l’accesso alle medesime o interpretare le norme di rango superiore che lo regolano.

Certo, in un contesto in cui va tutelato prioritariamente il diritto della controparte e l’interesse dell’ordinamento nel suo complesso a che le regole anche solo formali siano rispettate, resterebbe da tutelare una triplice esigenza:

- che il criterio non sia interpretato in senso eccessivamente formalistico;

- che sia imposto in modo chiaro e prevedibile;

- che non comporti un onere eccessivo per chi deve formare il ricorso, peraltro tenendo conto della speciale professionalità attesa dal difensore abilitato a patrocinare in Cassazione.

Ma, in attesa delle scelte legislative e di ogni altro approfondimento tra gli operatori ognuno nel rispetto dei relativi ruoli, a soddisfare tale triplice esigenza forse ben potrebbe giungersi con una chiara pronuncia a sezioni unite della stessa Corte di legittimità, eventualmente su di un leading case evidente e con espressa enunciazione di un principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, comma terzo, c.p.c.

Una simile soluzione avrebbe il vantaggio di offrire una preziosa possibilità di preventivo adeguato – anche se deformalizzato, ma di contenuto analogo a quello consacrato nel codice di procedura amministrativo – confronto con il Foro (si pensi al protocollo di intesa già raggiunto ed a quanto elaborato dai gruppi di lavoro già istituiti), con la dottrina e con l’accademia (basti a quest’ultimo riguardo pensare alla proficua prassi dei Διαλογοι tra l’Università di Romatre e la struttura territoriale della Scuola Superiore della Magistratura presso la stessa Corte di cassazione), istituzionalizzandone i risultati per il tramite delle relazioni preparatorie alle stesse Sezioni Unite predisposte dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo.

Una simile soluzione presenterebbe l’ulteriore vantaggio, rispetto alla maggiore rigidità della norma voluta dal codificatore amministrativo, dell’elasticità propria di ogni arresto giurisprudenziale per quanto a Sezioni Unite, rivedibile – sia pure a tempo debito – solo da queste stesse, ma su impulso anche delle sezioni semplici.

E solo resterebbe aperta la questione dell’immediata applicabilità – o meno – dei principi così affermati anche ai ricorsi già proposti, da escludersi solo ove quelli integrassero un mutamento di consolidata giurisprudenza in materia processuale e comportassero l’applicabilità dei principi in tema di c.d. prospective overruling[27], soprattutto quanto ad imprevedibilità del relativo arresto nomofilattico; passaggio forse però obbligato, ove l’enunciazione da parte delle Sezioni Unite comportasse davvero una formulazione di principio innovativo, vista la necessità, sottolineata dalla Corte europea, della prevedibilità e della preventiva imposizione della norma processuale in modo a sua volta chiaro, quale condizione per esigerne il rispetto senza violare i principi del giusto processo disegnati dall’art. 6 della Convenzione.

 

11. In … sintesi.

Della chiarezza e della sinteticità, a cominciare dagli atti di parte per proseguire poi però con quelli del giudice, il processo civile e soprattutto quello di legittimità non può proprio più fare a meno: e, in attesa che il legislatore se ne faccia carico, è compito degli operatori fare responsabile fronte, se possibile con uno sforzo condiviso e nelle forme che consentano il massimo coinvolgimento di tutti nel rispetto dei ruoli di ognuno, alla relativa autentica emergenza.

In questo quadro, il principio di sinteticità e chiarezza del ricorso per cassazione bene può ricavarsi da una lettura, se del caso costituzionalmente e “convenzionalmente” orientata, dei nn. 3 o – all’occorrenza – 4 del primo comma dell’art. 366 c.p.c., in quanto la sua violazione rende ingiustamente malagevole o perfino impossibile l’immediata comprensione dell’atto difensivo di impugnazione e delle sue ragioni; di conseguenza, la sua violazione ostacola o pregiudica il giudizio di legittimità, così compromettendo ad un tempo il diritto di difesa della controparte e la buona amministrazione della Giustizia, sì da impedire il perseguimento del giusto processo e violare i principi consacrati negli artt. 24 e 111 Cost. e nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.



[1] Per limitarsi ad alcuni: Capponi, Sulla “ragionevole brevità” degli atti processuali civili, in www.judicium.it; Capponi, Brevità, concentrazione, non-ripetizione, ibidem; Commandatore, Forma degli atti processuali - sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, in Giur. It., 2015, 4, 851; Cordopatri, La violazione del dovere di sinteticità degli atti e l’abuso del processo, in www.federalismi.it, 19 marzo 2014; G. Finocchiaro, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, 853 ss., 861; Storto, Il principio di sinteticità degli atti processuali, in Giusto proc. civ., 2015, 1191.

[2] Tra i moltissimi: Ge. Ferrari, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del diritto 2013; Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, in Giur. it., 2014, 149-155; Sanino, La «sinteticità» degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità?, in Foro it., 2015, V, 379; Cortelazzo, La sentenza amministrativa tra esigenze di brevità e consuetudini di ridondanza, relazione al Convegno Lingua e processo. Le parole del diritto di fronte al giudice, tenutosi a Firenze, il 4 aprile 2014; Cirillo, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Giurisdiz. amm., 2012, IV, 7; Cassatella, Il dovere di motivazione discorsiva degli atti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 2011, 401; Morozzo Della Rocca, Motivazione insufficiente ed eccesso di potere nell’impugnazione delle decisioni del consiglio nazionale forense, in Giust. civ., 2008, I, 2251; G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli 2015, 191 ss; M.A. Sandulli, Osservazioni a prima lettura dell’impatto del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 sul sistema di giustizia amministrativa, in Osservatorio sulla giustizia amministrativa coordinato da M.A. Sandulli e M. Lipari, in Foro amm. (II) 2014, 1483 ss. Sui principi di chiarezza e sinteticità degli atti del giudice e delle parti previsti dall’art. 3, comma 2, c.p.a., quali espressioni di “una maggiore tensione verso l’effettività e la giustizia della tutela, specie in riferimento alla correttezza delle condotte processuali e ai tempi di definizione del giudizio”, cfr. A.G. Pietrosanti, Sulla violazione dei principi di chiarezza e sinteticità previsti dall’art. 3, comma 2, c.p.a., in Foro amm. TAR 2013, 3611. A questi si aggiunga la recentissima De Nictolis, La sinteticità degli atti di parte e del giudice nel processo amministrativo, in www.cortedicassazione.it, relazione tenuta alla Giornata europea della Giustizia civile del 26.10.16 presso la Corte di cassazione, reperibile al sito istituzionale della Corte (accesso 11.11.16), http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Intervento_Pres_Rosanna_De_Nictolis.pdf 

[3] Tanto che, fino all’adozione delle regole formali, è rimessa all’interpretazione giurisprudenziale l’elaborazione di canoni di sinteticità. È stato considerato (De Nictolis, op. cit., p. 11) non sintetico un atto che:

a) ripete lo stesso concetto più di una volta, ancorché con espressioni diverse;

b) si dilunga a riportare interi brani di giurisprudenza o dottrina, non necessari;

c) si dilunga nella ricostruzione teorica di istituti, non necessaria per la soluzione della questione controversa;

d) propone un numero elevato di motivi di ricorso palesemente infondati o inammissibili.

Nella casistica, si è ritenuto violativo del dovere di sinteticità un atto di appello connotato da “estrema prolissità e ripetitività (…), che ha particolarmente aggravato l’attività difensiva delle controparti mediante violazione dei principi di cui al cit. art. 3 c.p.a., soprattutto in quanto reca: 1) 53 pagine di oltre 30 righe, palesemente non proporzionate al livello di complessità della causa; 2) un evidente abuso della funzione di c.d. “copia e incolla”, applicata ad atti già necessariamente presenti nel fascicolo (ricorso di primo grado e sentenza appellata); 3) una frequente ripetizione di concetti già esposti”

[4] Vedi infra, § 3.

[5] Cons. St., sez. V, 26 luglio 2016, n. 3372.

[6] De Nictolis, op. cit., p. 4.

[7] Come evidenzia, nella sua puntuale ricostruzione, G. Finocchiaro, op. cit., par. 1, richiamando passi di Demostene, di Plinio il Giovane e di Marziale, a dimostrazione di quanto radicato sia, nell’agone giudiziario, il costume almeno della prolissità.

[8] In www.judicium.it, a questo link  

[9] Sulla curiosa vicenda cfr. Capponi, A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile» (collegato alla legge di stabilità 2014), in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 1/2014.

[10] Art. 13-ter. (Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte). - 1. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti.

2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto.

3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti.

4. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, anche mediante audizione degli organi e delle associazioni di cui al comma 1, effettua un monitoraggio annuale al fine di verificare l’impatto e lo stato di attuazione del decreto di cui al comma 1 e di formulare eventuali proposte di modifica. Il decreto è soggetto ad aggiornamento con cadenza almeno biennale, con il medesimo procedimento di cui al comma 1.

5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione.

[11] Per un’ampia trattazione v. Dalla Bontà, La Giurisprudenza federale statunitense sulla specificità dell’atto introduttivo (complaint), in Riv. Dir. Proc., 2014, 141 e segg.

[12] Commandatore, op. loc. cit.

[13] http://www.judicium.it/admin/saggi/517/Lettera%20Presidente%20Cassazione.pdf.

[14] Sulle “regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria”, redatto in data 17.12.2015, in http://www.cortedicassazione.it/cassazione resources/resources/cms/documents/2015_ProtocolloIntesa_CSC_CNF.pdf. Sul medesimo v. già il contributo di Frasca, Glosse e commenti sul protocollo per la redazione dei ricorsi civili convenuto fra Corte di cassazione e Consiglio nazionale forense, in www.judicium.it, criticato aspramente da Consolo, Il Protocollo redazionale CNF-Cassazione: glosse a un caso di scuola di soft law (... a rotta di collo ossia riponderato quale hard rule?), relazione tenuta alla Giornata europea della Giustizia civile del 26.10.16 presso la Corte di cassazione, reperibile al sito istituzionale della Corte (accesso 11.11.16), all’indirizzo http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Intervento_Prof_Claudio_Consolo.pdf

[15] Per tutti, v. Berti Arnoaldi Veli, Gli osservatori sulla giustizia civile e i protocolli d’udienza, 2011, passim. Per una valutazione complessiva, v. Capponi, Sulla “ragionevole brevità” etc., cit., § 2, con accenni alle prime critiche (tra cui quelle di Della Pietra, La second life dei protocolli sul processo civile, in Giusto processo civ., 2012, 895 ss.). 

[16] I meccanismi prescelti nella c.d. comunitarizzazione della procedura civile, cioè una serie di Regolamenti in materia procedurale, articolati su formulari rigidi e universalmente comprensibili, denotano un sofisticato e consapevole pragmatismo: accanto all’evidente ruolo di semplificazione, il loro impiego incide anche sul modo di esprimere i concetti giuridici e, verosimilmente, finisce per influenzare anche la natura di tali concetti (Biavati, Europa e processo civile. Metodi e prospettive, Torino 2003, p. 111); insomma, la schematizzazione, mediante la standardizzazione su concetti giuridici minimi che possano in tal modo essere accettati da tutti i Paesi membri, è certamente il primo passo verso un’armonizzazione “dal basso”, che cominci dall’apprendimento di un linguaggio e di una cultura minimali davvero comuni in quanto condivisi (F. De Stefano, Esecuzioni e convenzioni internazionali, in Abate e aa., L’esecuzione dei provvedimenti in materia di separazione e divorzio, Padova 2010,129).

Già Tarzia, L’ordine europeo del processo civile, in Riv. dir. proc., 2001, p. 918, sottolineava come l’ampio impiego di formulari rappresenti un passaggio essenziale per la semplificazione degli atti processuali in quanto ne determina una sostanziale standardizzazione.

[17] Per tutti: Catalano, L’abuso del processo, Milano 2004; Nicotina, L’abuso del processo civile, Roma 2005;Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. Trim. e Proc. Civ., 2012, 117; Cordopatri, L’abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. Dir. Proc., 2012, 874; Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo e gli arresti giurisprudenziali, in Giust. It., 2014, 148; Scarselli, Il c.d. abuso del processo, in Riv. Dir. Proc., 2012, 1450; Scarpa, Abuso del processo: clausola generale o pleonasma?, in Contr. e impr., 2012, 1115.

[18] Cass. Sez. Un., ord. 22 luglio 2014, n. 16628; Cass. 21 luglio 2016, n. 15017.

[19] Cass. 15 dicembre 2015, n. 25224.

[20] Che pare prospettare, con l’audacia che può permettersi solo un Maestro, Verde, L’impianto del codice nella prospettiva (ancora non pienamente realizzata) della parità delle parti, in, a cura di Sassani, Villata, Il codice del processo amministrativo, Torino 2012, 90,

[21] Corte EDU, 15 settembre 2016, in causa Trevisanato c/ Italia (non ancora definitiva) su ricorso n. 32610/07.

[22] Tra le ultime, v. Corte cost. 26 marzo 2015, n. 49.

[23] Sul controllo di proporzionalità in tema di diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione europea, come ricostruito dalla Corte di Strasburgo, v. Cass., ord. 22 settembre 2016, n. 18619.

[24] Tra molte, v. Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675, secondo la quale il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito; infatti, è solo l’esposizione delle ragioni di diritto dell’impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 29 agosto 2011, n. 17739; Cass. 30 marzo 2007, n. 7891; Cass. 5 aprile 2006, n. 7882; Cass. 18 marzo 2002, n. 3941; Cass. 7 novembre 2013, n. 25044).

[25] Di “indispensabile … equilibrio nell'esposizione, che sia esauriente ma non prolissa e in grado di prospettare a questa corte tutte ma solo le questioni rilevanti ed il contenuto degli atti processuali a tal fine indispensabili” parla, tra le altre e riferendosi anche alla nota del Presidente della Corte del 2013 ed allo stesso Protocollo di intesa tra la Corte e il CNF, Cass. 20 luglio 2016, n. 14966 (mentre già Cass., ord.. 15 maggio 2014, n. 10722, si riferiva alla nota del Primo Presidente).

[26] Tra le più recenti, Cass. Sez. Un., 4 luglio 2016, n. 13574, ribadisce che, ai fini del rituale adempimento dell’onere imposto dall’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., il ricorrente è tenuto ad indicare specificamente, a pena d’inammissibilità del ricorso, non soltanto gli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, ma anche i dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 18 novembre 2015, n. 23575; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569). È noto infatti che la Corte esige, per ritenersi messa in grado di prendere cognizione delle doglianze ad essa sottoposte, che nel ricorso si rinvengano sia l’indicazione della sede processuale di produzione dei documenti o di adduzione delle tesi su cui si fondano ed in cui si articolano le doglianze stesse, sia la trascrizione dei primi e dei passaggi argomentativi sulle seconde (tra le innumerevoli, v.: Cass., ord. 26 agosto 2014, n. 18218; Cass., ord. 16 marzo 2012, n. 4220; Cass. 1 febbraio 1995, n. 1161; Cass. 12 giugno 2002, n. 8388; Cass. 21 ottobre 2003, n. 15751; Cass. 24 marzo 2006, n. 6679; Cass. 17 maggio 2006, n. 11501; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984; Cass., ord. 30 luglio 2010, n. 17915, resa anche ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c.; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; tra le altre del solo 2014: Cass. 11 febbraio 2014, nn. 3018, 3026 e 3038; Cass. 7 febbraio 2014, nn. 2823 e 2865 e ord. n. 2793; Cass. 6 febbraio 2014, n. 2712, anche per gli errores in procedendo; Cass. 5 febbraio 2014, n. 2608; 3 febbraio 2014, nn. 2274 e 2276; Cass. 30 gennaio 2014, n. 2072; ancora: Cass. Sez. Un., 4 aprile 2016, n. 6451; Cass. Sez. Un., 1 luglio 2016, n. 13532; Cass. Sez. Un., 4 febbraio 2016, n. 2198).

[27] Come elaborati fin da Cass. Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144 (in Foro it., 2011, I, 3343, con nota di Caponi, Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti) ed applicati, tra le altre, da Cass. 4 giugno 2014, n. 12521,  ma non anche, in relazione alle peculiarità del caso in esame, da Cass., ord. 26 agosto 2014, n. 18217, o da Cass., ord. 25 maggio 2015, n. 10765, oppure ancora da Cass. 20 luglio 2012, n. 12704 (che ricorda come, affinché un orientamento del giudice della nomofilachia non sia retroattivo - come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali - e affinché possa parlarsi quindi di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o difesa della parte).

 

24/11/2016
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01/06/2023
Il procedimento semplificato di cognizione (o meglio il “nuovo” processo di cognizione di primo grado)

La disciplina del processo di cognizione di primo grado è stata profondamente innovata dalla recente riforma, con l’intento di semplificare, razionalizzare e velocizzare l’attività processuale. Il nuovo rito ordinario appare tuttavia di difficile gestione, con la conseguenza che l’efficienza e la speditezza del sistema sono affidati al nuovo “rito semplificato”, soggetto a regole che si pongono in gran parte in linea di stretta continuità con quelle dell’ormai abrogato processo a cognizione piena.
Appare dunque fondamentale convincere gli avvocati a instaurare il processo nelle forme del rito semplificato, a tal fine potendo concorrere un’interpretazione non restrittiva dell’art. 281-duodecies, quarto comma, cpc per il deposito delle memorie scritte contenenti l’attività di controreplica e le richieste istruttorie.

31/05/2023