Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La repressione penale del commercio dei prodotti contraffatti fra vendite in rete e venditori abusivi di strada: gli interessi protetti*

di Elisa Pazè
sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino
In materia di commercio di prodotti contraffatti si assiste ad un intreccio di fattispecie penali e ad una stratificazione di interpretazioni giurisprudenziali; l’esame degli intrecci e delle stratificazioni permette di constatare che i reali interessi oggetto della tutela penale sono sempre meno la fede pubblica o l’interesse del singolo consumatore o della generalità dei consumatori, e sempre più i diritti di proprietà intellettuale, alla cui tutela penale spesso si provvede con la contestazione di fattispecie incriminatrici che nacquero a presidio di altri beni giuridici. Il presente contributo è l’occasione per un’ulteriore riflessione su un tema che attraversa la quotidiana esperienza di molti operatori giudiziari e ci ricorda ancora una volta che l’attività di interpretazione delle norme non è mai un’attività neutra.

1. Gli interessi protetti nell’impostazione codicistica

Il problema dell’individuazione degli interessi protetti dai reati trova una prima risposta nel codice penale, che contiene una dettagliata ripartizione di delitti e contravvenzioni proprio sulla base del bene giuridico tutelato. Il libro secondo, dedicato ai delitti, colloca nella prima parte – in posizione privilegiata – gli interessi pubblicistici (i delitti contro la personalità dello Stato, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia) e nell’ultima parte gli interessi più strettamente privatistici (i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, contro la famiglia, contro la persona e contro il patrimonio). Nel mezzo si ritrovano, in posizione di “cerniera”, due titoli, il VII e l’VIII, dedicati rispettivamente ai delitti contro la fede pubblica e a quelli contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio. È qui che sono collocati i reati che presidiano la proprietà industriale.

Accertare quali siano gli interessi protetti dal commercio di prodotti contraffatti è però operazione tutt’altro che scontata. C’è un grosso dibattito in giurisprudenza, non meramente speculativo, perché l’adesione all’una o all’altra impostazione teorica comporta ricadute applicative notevoli sia in termini di circoscrizione della condotta punibile che di trattamento sanzionatorio.

Le norme che più specificamente reprimono il commercio di prodotti contraffatti sono tre, e c’erano già tutte nella versione originaria del codice Rocco: l’art. 474 cp, l’art. 514 cp e l’art. 517 cp.

Una di esse, la disposizione dell’art. 514 cp (frodi contro le industrie nazionali), che punisce il commercio di prodotti industriali con nomi o marchi che cagioni un nocumento all’industria nazionale, è di fatto disapplicata poiché tale evento, che rispecchia l’ideologia fascista dell’epoca in cui la norma prese vita, per il suo “gigantismo” non si realizza praticamente mai. Per la Corte di cassazione il danno all’industria nazionale, pur potendo riguardare un singolo settore, deve essere comunque di proporzioni consistenti, tali da ingenerare la diminuzione del volume di affari o l’offuscamento del buon nome della produzione interna o almeno di tutto un suo settore, e quindi si ritiene generalmente integrato il meno grave delitto contemplato dall’art. 474 cp [1].

Nella pratica vengono dunque in questione sempre o quest’ultima norma, rubricata Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi, o l’art. 517 cp, intitolato Vendita di prodotti industriali con segni mendaci.

Le differenze di struttura fra le due disposizioni sono note: la prima sanziona, in due distinti commi, l’introduzione nel territorio dello Stato di prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti e la detenzione per la vendita o la messa in vendita o la messa altrimenti in circolazione di tali prodotti [2]; la seconda punisce invece la messa in vendita o la messa altrimenti in circolazione di prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sulla origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto. Entrambi i reati sono considerati di pericolo (concreto) [3].

Balzano subito all’occhio alcune differenze nella descrizione della condotta, peraltro prive di conseguenze nella prassi giudiziaria. L’art. 474 cp incrimina chi «detiene per la vendita, pone in vendita o mette altrimenti in circolazione», l’art. 517 cp chi «pone in vendita o mette altrimenti in circolazione»; ma anche se in quest’ultima norma non si parla di «detenzione per la vendita», la giurisprudenza interpreta estensivamente l’espressione «mette altrimenti in circolazione», ritenendo penalmente rilevanti anche le operazioni di immagazzinamento [4].

Altre difformità invece hanno rilievo: il «fine di trarne profitto», previsto solo nell’art. 474, comporta che non può essere punita la circolazione di prodotti contraffatti se avviene a titolo gratuito; mentre viceversa lo è quella di prodotti industriali con segni mendaci, che viene ricompresa nella «messa altrimenti in circolazione».

Le differenze che interessano il tema degli interessi protetti sono però altre, e precisamente quelle che attengono all’oggetto materiale della condotta. Dalla formulazione legislativa si ricava infatti che l’art. 517 cp ha una portata più ampia sotto due profili.

Primo: il commercio di prodotti con segni falsi presuppone che siano state osservate le norme sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale, ovvero che si tratti di segni distintivi registrati o comunque riconosciuti; quello di vendita di prodotti industriali con segni mendaci richiede unicamente che il segno sia già utilizzato da altri.

Seconda differenza: quando si parla di «segni falsi» si suppone una copia dei simboli originali; invece perché i segni siano «mendaci» basta una apposizione di simboli equivoci che renda possibile una confusione. Se anziché riprodurre pedissequamente il marchio di una grande casa produttrice, la borsa o la cintura venduta ne riporta uno molto simile, se la “V” può vagamente assomigliare al simbolo dello stilista Valentino o se due “G” incrociate ricordano Gucci, si incorre nel reato.

In questo modo si amplia molto l’area della punibilità, perché il reato di commercio di prodotti con segni falsi richiede che le caratteristiche dei marchi o segni distintivi veri e di quelli contraffatti o alterati siano talmente simili da rendere necessario un attento ed approfondito esame per accertare l’autenticità o la falsità, mentre per la configurabilità della vendita di prodotti con segni mendaci è sufficiente che vi sia possibilità di confusione fra marchi o segni distintivi anche con un esame frettoloso e superficiale del prodotto messo in vendita, qual è quello compiuto da un compratore mediamente diligente.

A dilatare ulteriormente entrambi i reati ci ha pensato la giurisprudenza. Si ha commercio di prodotti con segni falsi anche quando il marchio contraffatto non viene apposto su alcun articolo [5], o quando un articolo è presentato in una confezione diversa da quella indicata dalla ditta depositaria del marchio (perché anche la confezione è una garanzia) [6].

Quanto alla vendita di prodotti con segni mendaci, si è stabilito che essa ricorre pure nell’ipotesi in cui un marchio genuino contrassegni la merce di una diversa ditta (ad esempio quando si cuce su un vestito non di Armani una vera etichetta di Armani), perché si trae in inganno il compratore sull’origine, provenienza e qualità del bene [7]. In questo modo si introducono nella valutazione della idoneità ingannatoria elementi spuri rispetto al dettato legislativo: oggetto della tutela è non il segno o il marchio, ma il prodotto industriale in sé, e quindi il raffronto va fatto non fra segno genuino e segno mendace, ma fra le reali caratteristiche del prodotto e l’informazione falsa che il segno illecito comunica al pubblico.

2. Gli effettivi interessi protetti

Come accennato, l’art. 474 cp fa parte del titolo VII, dedicato ai «delitti contro la fede pubblica», e rientra più specificamente fra i reati del capo II, rubricato Falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento. L’art. 517 cp invece è collocato nel titolo VIII, fra I delitti contro l’economia pubblica, e in particolare nel capo II: Dei delitti contro l’industria e il commercio.

Apparentemente gli interessi protetti sono assai diversi: la fede pubblica in un caso, l’economia pubblica nell’altro. In realtà in entrambi i reati vengono in rilievo soprattutto gli interessi dei produttori e, più che la dimensione pubblicistica dell’economia, è quella privatistica che pare godere dell’usbergo penale.

2.1 La norma di cui all’art. 474 cp tutela gli industriali

La norma su cui si incentra maggiormente la discussione è quella che punisce il commercio di prodotti con segni falsi. In base all’indirizzo tradizionale, destinatari della tutela – tenuto conto dell’inserimento fra i «delitti contro la fede pubblica», che si ritrova già nel codice Zanardelli del 1889  sono i consumatori [8]. Occorre – si argomenta – proteggere i consumatori e la fiducia da essi riposta in quei simboli di riconoscimento che consentono di distinguere un prodotto da un altro.

Un inganno degli acquirenti può anche comportare un danno indiretto di ritorno per le aziende, che perderebbero stima e considerazione, ma tale danno è secondario e non è essenziale, tant’è che, proprio per proteggere comunque i compratori, il reato è procedibile d’ufficio, a prescindere dalla presentazione di una querela da parte dei titolari del marchio registrato. In primo piano non c’è l’impresa produttrice, c’è chi acquista.

A riprova che questo è l’interesse tutelato, si evidenziano le differenze fra il delitto di commercio di prodotti con segni falsi e un’altra figura criminosa: la fabbricazione e il commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale di cui all’art. 517-ter cp. Quest’ultima norma è stata inserita nel codice penale nel 2009, ma in realtà non è del tutto nuova perché ha ripreso, con alcune modifiche, una disposizione del codice della proprietà industriale del 2005: l’art. 127 [9]. Nel testo attuale si prevede che – salva l’applicazione dell’art. 474 cp – sia punito chi, al fine di trarne profitto, commercia «oggetti o beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso», sempre che l’esistenza del titolo di proprietà industriale sia conoscibile.

Cosa vuol dire «usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso»? Con questa formula si allargano di molto le maglie dell’intervento penale, perché si sanziona il commercio di beni prodotti senza il consenso del titolare, anche al di là della imitazione degli originali. Ad essere colpito è un illecito innescato dal fenomeno della delocalizzazione delle imprese: in molte filiali dislocate all’estero vi è una sovrapproduzione di beni – realizzati con gli stessi materiali e le medesime tecniche e dunque della stessa qualità di quelli “autentici” – che vengono poi alienati nell’area geografica di pertinenza senza l’autorizzazione del titolare. Commette dunque il reato chi viola gli accordi stretti con il licenziatario circa l’area territoriale in cui si può vendere o il quantitativo di merce destinata alla vendita [10].

In questo caso – si sostiene – viene leso solo lo specifico interesse patrimoniale del titolare dell’esclusiva, come è dimostrato dalla procedibilità a querela di parte e anche dalla clausola di sussidiarietà contenuta nella disposizione [11]. La norma dell’art. 474 cp tutela invece i consumatori.

Ferma la posposizione degli interessi dei produttori, molto più spesso nelle sentenze si è però addotta la necessità di tutelare non l’autodeterminazione del singolo consumatore, ma l’affidamento della generalità dei cittadini, che hanno interesse alla correttezza nei rapporti commerciali [12]. Essendo il delitto di cui all’art. 474 cp un reato di pericolo contro la fede pubblica, per la sua integrazione è sufficiente anche la mera attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione, con riferimento non tanto al momento dell’acquisto quanto a quello della successiva utilizzazione del prodotto con il marchio contraffatto nella vita comune.

Questo indirizzo prende atto della modificazione della tradizionale funzione distintiva assolta dal marchio a favore di una suggestiva (derivante in larga parte dagli investimenti pubblicitari): non contano più le qualità del bene, ciò che rileva è il marchio in sé, che costituisce il reale oggetto del desiderio in quanto simbolo di un certo status sociale. Il marchio diventa esso stesso un prodotto e si carica di più significati: non garantisce solo le caratteristiche di ciò che viene venduto ma diventa simbolo di ricchezza, evoca immagini, rivolgendosi a un pubblico di consumatori che per queste note suggestive sono disposti a pagare il bene molto più del suo valore reale.

Per la Corte di cassazione il marchio assicura, seppure «in modo traslato, il buon gusto o la capacità selettiva dell’acquirente o dell’utilizzatore» [13]. La pubblica fede è lesa perché chi ha comperato un prodotto taroccato fa credere, esibendolo, di appartenere a una classe agiata che può permettersi di acquistare i prodotti autentici. Chi acquista conosce le condizioni a cui ha acquistato e sa che per il prezzo vile e le personalità del venditore l’articolo non è originale, ma chi glielo vede addosso non è in grado di percepire la falsità. Se una borsetta finto Gucci acquistata su una bancarella potrebbe successivamente essere scambiata da amiche poco esperte della compratrice per una vera, il reato c’è.

Senonché questa impostazione, peraltro in linea con la lettera della norma incriminatrice, che prevede quale sola condizione per la punibilità che il prodotto messo in commercio porti marchi o segni contraffatti o alterati, indipendentemente dalla loro idoneità decettiva, smaschera quelli che sono i veri interessi protetti: i diritti di proprietà industriale [14]; non gli interessi (deboli) dei consumatori, ma quelli (forti) delle imprese.

Del resto questo interesse era l’oggetto della tutela delle prime norme in materia, quelle della codificazione preunitaria parmense e pontificia, che già contrastavano la contraffazione dei marchi facendo ricorso a sanzioni penali ma prevedevano fra gli elementi strutturali della fattispecie che si fosse verificato un danno per il titolare del diritto di privativa.

A deporre nel senso che questo sia l’interesse protetto depongono numerosi elementi. Primo: la tutela scatta solo se sono osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale [15]; se a essere tutelati fossero i consumatori o i cittadini, ciò sarebbe irrilevante. Secondo: la previsione del «fine di profitto» appare incoerente rispetto alla scelta di proteggere la pubblica fede, che è lesa anche dalla circolazione gratuita di beni contraffatti; mentre risponde ad una logica di tutela di interessi imprenditoriali contrapposti. Ancora: l’inserimento all’art. 473, comma 2, cp del brevetto fra i beni oggetto della contraffazione rende assai difficile rinvenire nell’inganno dei consumatori la ratio della tutela. Infine c’è un argomento formale: l’art. 15 della legge n. 99/2009, che ha modificato gli artt. 473 e 474 cp, è rubricato Tutela penale dei diritti di proprietà industriale.

D’altronde anche nel diritto civile i meccanismi della tutela si sono evoluti e paiono volti a proteggere più gli industriali che i consumatori. Il codice civile del 1942, così come la legge sui marchi, conferivano al marchio il ruolo di strumento di identificazione della provenienza aziendale. Con il d.lgs 4 dicembre 1992 n. 480 [16], e in seguito con il Codice della proprietà industriale [17], c’è stata una riforma radicale, con superamento del paradigma classico del marchio, prevedendo la possibilità di registrarlo anche per chi non è imprenditore, l’eliminazione della decadenza del marchio al momento della cessazione dell’impresa e, soprattutto, la libera circolazione del marchio indipendentemente dalla cessione dell’azienda o del ramo afferente. A quest’ultimo riguardo le condizioni previste a tutela dei consumatori, che il licenziatario si obblighi a usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli già messi in commercio con lo stesso marchio e della stessa qualità [18], appaiono un mero formalismo.

Fra queste variegate opinioni che si affacciano nel mondo del diritto, la giurisprudenza maggioritaria si è assestata su una posizione “salomonica”: il delitto previsto dall’art. 474 cp è un reato plurioffensivo che tutela sia gli interessi del titolare del marchio che quelli dei consumatori [19]. Da un lato infatti vi sono le imprese produttrici, che subiscono la concorrenza sleale di operatori i quali approfittano della notorietà da loro acquisita sul mercato e possono praticare prezzi più contenuti perché non sostengono le spese della pubblicità e non pagano le tasse; dall’altro vi sono gli acquirenti, che grazie ai segni distintivi sono in grado di riconoscere e selezionare i produttori che operano sul mercato premiando i migliori.

La Corte di cassazione a sezioni unite nel 2007 si è espressa nel senso della plurioffensività dei reati posti a tutela della fede pubblica, sia pure pronunciandosi in relazione alla diversa fattispecie dell’art. 479 cp [20].

2.2 La norma di cui all’art. 517 cp non garantisce realmente l’acquirente

L’individuazione del bene protetto dal delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui all’art. 517 cp registra meno oscillazioni giurisprudenziali. Richiamando la sua collocazione codicistica, si sostiene che tale norma tutela non la fede pubblica, ma l’onestà degli scambi, l’ordine economico [21]. L’inganno potenziale subito dagli acquirenti non è altro che un sintomo esterno per verificare l’attitudine del prodotto a ledere posizioni concorrenti. Ciò che si intende colpire è l’agganciamento parassitario alle imprese altrui.

Anche qui ci si è però talora sforzati di richiamare due interessi coesistenti: quello del produttore a non subire una concorrenza illecita; la libertà e la buona fede del consumatore intese non già come affidamento nel marchio in sé ma nelle caratteristiche che esso certifica, ovvero origine, provenienza e qualità. Non si parla di plurioffensività, come per l’art. 474 cp, ma si fa rientrare nell’unico bene giuridico dell’ordine economico sia la protezione dell’imprenditore dall’illecita concorrenza, sia la libertà dell’acquirente (la norma non a caso riferisce l’inganno non al «consumatore», ma al «compratore») [22].

Sennonché, proprio con riferimento alla tutela dell’acquirente, sono sorti non pochi problemi sotto il profilo della conoscenza dell’origine e provenienza del prodotto, laddove il termine «origine» è sempre stato pacificamente interpretato come provenienza geografica, mentre quello di «provenienza» con riferimento alla provenienza aziendale. La globalizzazione, con l’abolizione delle barriere commerciali, ha infatti portato ad una massiccia delocalizzazione della produzione: si investe dove la manodopera costa meno, specie nei Paesi del Terzo mondo dove c’è un sistema di protezione sociale meno avanzato del nostro, e poi si rivende nei Paesi più sviluppati. E quindi sempre più spesso al consumatore occidentale vengono proposte merci prodotte all’estero ma non presentate come tali.

La giurisprudenza si è però mostrata comprensiva verso le imprese. Il primo caso celebre ha coinvolto la Fiat: il presidente della Fiat Spa, il presidente di Fiat Auto e l’amministratore, che erano stati condannati in primo grado per avere apposto il marchio dell’azienda su vetture prodotte in Spagna, Polonia e Jugoslavia [23], vennero assolti in appello, con la motivazione che non è penalmente rilevante la produzione nell’uno o nell’altro luogo se – in virtù dei controlli e delle verifiche di conformità degli standard industriali – non ne deriva una qualità inferiore [24].

Analoga è la vicenda processuale “Thun”, di qualche anno dopo. La ditta di Bolzano aveva fatto fabbricare in Cina i propri oggetti di ceramica, apponendovi la dicitura «Thun Bolzano Italy». La Corte di cassazione [25] ha escluso la sussistenza del reato sulla base del seguente ragionamento: il marchio rappresenta il segno che un prodotto proviene da un determinato imprenditore e ha determinate caratteristiche qualitative; è questo che la legge ha inteso assicurare al consumatore quanto a origine e provenienza del prodotto, non il luogo di produzione (salve le ipotesi espressamente previste dalla legge). Poiché la Thun forniva alle imprese cinesi la materia prima, che la lavoravano secondo una procedura previamente concordata ed erano assoggettate a controlli periodici, non vi era decettività, perché i due elementi dell’origine e della provenienza di un prodotto sono funzionali al terzo: la qualità. L’origine del prodotto va pertanto intesa in senso meramente giuridico, di provenienza da un dato produttore, e non anche in senso materiale.

La situazione si è però negli ultimi anni complicata con l’avvento di una normativa volta invece a tutelare espressamente proprio la provenienza da un determinato luogo. E qui il caos regna sovrano.

3. Il problema del «made in Italy»

La dizione «made in Italy» originariamente assolveva solo a scopi doganali; oggi, per ragioni legate al nostro tessuto economico, è diventata sinonimo di pregio o comunque garanzia di qualità e di capacità attrattiva del pubblico. Siamo un Paese con scarse risorse energetiche e poco competitivo da un punto di vista tecnologico, con un diffuso tessuto produttivo di piccole-medie imprese, talora ancora di carattere semi-artigianale; e questa caratteristica, da fattore di debolezza, è diventata un punto di forza, perché si è accentuata l’importanza dell’indicazione geografica di provenienza e delle denominazioni di origine protetta.

La decisione legislativa di intervenire specificamente a tutela del «made in Italy» è stata dettata da tali considerazioni, e anche dalla difficoltà di fare rientrare questa locuzione sulla provenienza geografica del prodotto nella fattispecie dell’art. 517 cp, che fa riferimento a «nomi, marchi o segni distintivi». Ancora oggi la natura del «made in Italy» è infatti discussa: v’è chi considera tale espressione alla stregua di una indicazione geografica tipica [26] (ma – si obietta – un’indicazione allargata a tutto un territorio nazionale non è caratterizzante dei prodotti [27]); chi come «marchio di qualità» [28] (ma le caratteristiche dei marchi, che si riferiscono a un titolare, mal si adattano ad indicazioni collettive); chi come «marchio collettivo» ex art. 2570 cc (con la difficoltà però di considerare l’intera comunità produttiva nazionale come associata in un unico ente titolare del marchio) [29].

Anche sul bene giuridico protetto non si registra unanimità di vedute: taluni l’hanno individuato negli interessi dei consumatori (considerato anche che la normativa – a differenza dell’art. 517 cp, che si rivolge ai «compratori» − fa a loro testuale riferimento), con il problema però di spiegare perché non viene tutelato allo stesso modo l’acquirente di beni con falsa o fallace indicazione «made in England» o «made in Japan» [30]; altri hanno parlato di «eccellenza della qualità italiana» o di protezione della «struttura produttiva italiana», beni entrambi piuttosto evanescenti [31].

Ma la discussione si incentra molto di più su altri temi, perché purtroppo per il «made in Italy» si è assistito ad una vera e propria deflagrazione della legislazione, che è caotica, disorganica, contraddittoria, anche per via del ricorso a decreti legge [32], che per la proprietà industriale desta non poche perplessità perché non si capisce − a differenza di materie come terrorismo o ordine pubblico – quali «casi straordinari di necessità ed urgenza» giustifichino l’esercizio dei poteri di cui all’art. 77 della Costituzione.

La norma base è contenuta nella legge finanziaria del 2004 (legge 24 dicembre 2003, n. 350), la quale all’art. 4, comma 49 [33], ha stabilito che in caso di importazione ed esportazione a fini di commercializzazione, ovvero di commercializzazione o di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti «recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine» si applica la stessa pena dell’art. 517 cp. Nel testo originario si faceva riferimento solo alla «provenienza» ma, dopo poco più di un anno dalla sua entrata in vigore, la disposizione è stata modificata [34].

In questo modo si è ampliata la sfera della punibilità in tre direzioni: si è estesa la tutela anche al settore agroalimentare (non coperto dall’art. 517 cp che si riferisce solo a «opere dell’ingegno o prodotti industriali»); si è anticipata la sfera della punibilità al momento della presentazione delle merci alla dogana (ipotesi prima discussa); si sono punite, equiparandole, le indicazioni false – che richiamano più l’art. 474 cp – e le indicazioni fallaci.

La disposizione dell’art. 4, comma 49 della legge 350/2003 specifica, con riferimento alle merci di cui si attesta la provenienza e l’origine italiana, quando una indicazione è «falsa» e quando «fallace».

La prima ipotesi è più chiara. Costituisce falsa indicazione «la stampigliatura “made in Italy” su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine».

Il richiamo fatto nella definizione di false indicazioni alla normativa europea sull’origine, ovvero al Regolamento CE 2913/92 del 12 ottobre 1992 e al successivo regolamento CE 450/2008, comporta che, quando alla realizzazione di un prodotto abbiano contribuito più Paesi, l’origine debba attribuirsi al paese dove è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale (art. 24).

Per questo motivo la Corte di cassazione [35], chiamata a occuparsi della commercializzazione di magliette prodotte in Romania per conto della società italiana Igam spa su cui era stata apposta l’etichetta «made in Italy», ha ritenuto che fosse stato integrato il reato, perché, anche se sotto il controllo della società italiana, tutto il processo produttivo, compresa la fase dell’assemblaggio finale, era avvenuto in Romania.

Nella sentenza si chiarisce – sia pure con un inciso – che questa disciplina più rigorosa intende consentire al consumatore una scelta consapevole sotto tutti i profili, perché fra le ragioni che spingono ad acquistare il «made in Italy», accanto alla ricerca della qualità, può esserci l’intenzione di non favorire l’economia di Paesi in cui viene impiegata manodopera minorile o i lavoratori non sono tutelati.

Più problematica, e anche più diffusa nella prassi, è l’ipotesi delle indicazioni fallaci». Per l’art. 4, comma 49 della legge 350/2003 costituisce indicazione «fallace», «l’uso di segni, di figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli» [36]. In sostanza, si tratta di quelle indicazioni che possono sviare l’acquirente senza ricorrere espressamente all’espressione «made in Italy»; ad esempio l’indicazione «ditta-Italy».

La giurisprudenza ha letto questa norma seguendo la stessa esegesi adottata per il delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci e ridimensionandone di molto la portata: quello che conta non è il luogo di fabbricazione ma il produttore. Questo indirizzo ermeneutico dapprima era fondato sul testo originario della disposizione, in cui si faceva riferimento alla «provenienza» e non alla «origine», ma non è stato modificato neppure dopo l’aggiunta nella norma dell’inciso «o di origine»: quello che conta non è il luogo di fabbricazione, ma il produttore. Se il legislatore avesse voluto modificare la portata precettiva dell’art. 517 e delle norme correlate nel significato che hanno assunto nel diritto vivente, si sarebbe espresso diversamente. Punendo «l’importazione e l’esportazione a fine di commercializzazione», l’art. 4, comma 49 della legge 350/2003 si è limitato ad anticipare il momento consumativo del reato alla presentazione del prodotto o delle merci alla dogana, senza estendere altrimenti la portata del precetto di cui all’art. 517 cp [37].

La sentenza forse più nota è quella denominata “Acanfora” [38], riguardante la commercializzazione di capi di abbigliamento sportivo prodotti in Cina per conto e sotto il controllo della società italiana Legea, che riportavano la scritta «LegeaItaly» oppure la scritta «Legea» e sotto un riquadro con i colori della bandiera italiana e la dicitura «Italy». La Corte di cassazione ha sostenuto che la disposizione di cui all’art. 517 cp è stata assorbita da quella dell’art. 4, comma 49 della legge 350/2003, più ampia della prima sia per l’oggetto materiale (vale anche per i prodotti agricoli) sia per la condotta (segni distintivi non solo fallaci, ma anche falsi); di conseguenza l’art. 517 cp resta applicabile solo più in caso di commercializzazione con segni ingannevoli di opere dell’ingegno. Non costituisce dunque reato vendere abbigliamento sportivo fabbricato in stabilimenti cinesi perché «i capi di abbigliamento sportivo ed in genere i prodotti tessili non sono identificabili in relazione all’origine geografica, atteso che la loro qualità è assicurata dalla materia prima usata e dalla tecnologia produttiva e non certo dall’ambiente territoriale dove il processo produttivo si svolge».

Anche per le indicazioni potenzialmente ambigue, come «Italian design» e altre simili, la Cassazione è benevola: questa dicitura attesta un dato veritiero, che l’ideazione è italiana, mentre non conta che la fabbricazione avvenga tutta all’estero [39].

In definitiva, la Cassazione distingue: la dicitura «made in Italy» non può essere apposta su merci la cui lavorazione, in base alla normativa europea, avviene altrove; invece altre espressioni più ambigue sono fallaci solo se l’inganno attiene al produttore, essendo la provenienza geografica irrilevante.

Sennonché, quanto alla seconda ipotesi, l’esegesi dell’art. 4, comma 49 della legge n. 350/2003 è ulteriormente ingarbugliata da una specificazione: l’indicazione è fallace «anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estere dei prodotti e delle merci». Come è possibile? È evidente che se viene indicato che un bene è stato fabbricato all’estero, non vi è inganno per l’acquirente.

L’unico modo per dare un senso alla norma è ritenere che per «origine» non si intenda la provenienza geografica, ma quella da un determinato produttore. Può infatti accadere che su un bene fabbricato all’estero da un imprenditore estero venga correttamente indicato il luogo di produzione ma falsamente indicato come italiano il produttore; cosicché il consumatore è indotto a ritenere che chi è responsabile giuridicamente, economicamente e tecnicamente della produzione sia italiano mentre invece non lo è.

La cattiva tecnica legislativa fa dunque sì che lo stesso termine «origine», in alcune norme debba essere inteso in un modo, in altre in un altro.

Il quadro normativo si è complicato con il dl 25 settembre 2009 n. 135 in due direzioni opposte. Si è introdotta una nuova categoria protetta, il «full made in Italy»: è punito con le pene dell’art. 517 cp aumentate di un terzo «chiunque fa uso di un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione» (art. 16, comma 4).

Per contro si è “attenuata” la disciplina sulla indicazione fallace, novellando la legge n. 350/2003: se c’è un uso ingannevole del marchio aziendale che induce il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana, senza però che vi siano indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore, c’è una mera sanzione amministrativa (comma 49-bis). La Corte di cassazione [40] ha ritenuto che sussista solo questo illecito amministrativo se dall’uso del marchio deriva una situazione di incertezza sull’origine del prodotto; mentre se l’uso del marchio induce a ritenere che il prodotto sia di origine italiana allora c’è una «indicazione fallace» che costituisce reato.

Non basta. Sono intervenute normative settoriali. Per i prodotti tessili e calzaturieri l’art. 1 della legge n. 55/2010 (cd legge Reguzzoni-Versace) ha introdotto uno speciale regime di etichettatura: si può utilizzare la scritta «made in Italy» se i prodotti sono fabbricati prevalentemente sul territorio italiano, ovvero «se almeno due delle fasi di lavorazione [fasi enumerate nella stessa legge] per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità»; prevedendo un discutibile regime repressivo, consistente in sanzioni amministrative che però in caso di reiterata violazione diventano penali (addirittura la reclusione da tre a sette anni se la violazione è commessa attraverso attività organizzate, art. 3). La legge suscita diversi interrogativi: che succede in caso di violazione degli obblighi di etichettatura sull’origine da altri Stati diversi dall’Italia? E perché la distonia cui sono sottoposte le imprese italiane a seconda che la loro produzione afferisca al settore tessile/calzaturiero o ad altri settori?

La sciatteria legislativa è tale che questa legge è considerata pacificamente inapplicabile [41] perché non sono state fatte alla Commissione europea le dovute comunicazioni (e probabilmente non avrebbe superato il vaglio della compatibilità con i principi del mercato unico).

Sicuramente in vigore è invece la legge 14 gennaio 2013, n. 9, la quale ha aggiunto nella legge n. 350/2003 il comma 49-quater: se l’uso fallace del marchio che attesta l’origine italiana riguarda l’olio di oliva vergine, la sanzione è quella dell’art. 517 cp, e non una sanzione amministrativa (come sarebbe in base al comma 49-bis). Anche qui si pongono riserve critiche per la disparità di trattamento che viene a determinarsi fra i produttori di olio d’oliva e quelli di altri generi alimentari.

A completare il quadro, la legge 23 luglio 2009, n. 99 ha introdotto nel codice penale l’art. 517-quater, in materia di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (sempre che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali), prevedendo per la contraffazione e la commercializzazione la pena della reclusione fino a due anni e la multa fino a 20.000 euro, ovvero la stessa pena prevista dall’art. 517 cp [42].

4. Le ricadute delle diverse qualificazioni degli interessi protetti

Sono molteplici le ricadute pratiche del dibattito sugli interessi protetti dai delitti che presidiano la proprietà industriale, specie per quanto riguarda il commercio di prodotti con segni falsi di cui all’art. 474 cp. Esse concernono l’individuazione della persona offesa legittimata a intervenire nel processo, i presupposti della punibilità e il trattamento sanzionatorio.

4.1 L’individuazione della persona offesa

Nei procedimenti per i delitti di cui agli artt. 474 cp e 517 cp a rigore le case produttrici possono esercitare tutti i diritti e le facoltà che il codice di rito riconosce alla persona offesa dal reato (ad esempio il diritto di essere avvisati della richiesta di archiviazione e di presentare opposizione; di chiedere il risarcimento del danno), ed è ciò che normalmente avviene. 

Se però si accede alla tesi che il bene protetto è la fede pubblica, è più problematico riconoscere questi diritti al titolare del marchio.

4.2 La necessità o meno che il marchio sia già stato registrato

La disposizione dell’art. 474 cp, la quale si limita a richiedere genericamente «che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale», non chiarisce se perché sia integrato il reato basti avere presentato la domanda di registrazione del marchio alla competente autorità nazionale o sovranazionale, o se invece il titolo debba essere già stato registrato.

La sufficienza della presentazione della domanda di registrazione è sostenuta da ampia parte della giurisprudenza [43]: la tutela penale prende in considerazione solo il dato formale della domanda, senza badare ad eventuali vizi sottostanti, perché ciò che conta è l’interesse pubblico, ovvero garantire i consumatori ed evitare possibilità di confusione. In dottrina [44] si è sostenuto che un falso c’è, e merita la sanzione criminale, perfino se il marchio imitato è a sua volta frutto di una precedente falsificazione; così come sussiste il furto anche se la sottrazione cade su una cosa rubata.

Si sono invocati due argomenti: fin dal deposito della richiesta il titolo di proprietà industriale è conoscibile al pubblico, e dunque è già minacciata la pubblica fede; così si mantiene una omogeneità di tutela fra disciplina civile e disciplina penale, posto che in base all’art. 38, comma 4, del codice della proprietà industriale gli effetti giuridici derivanti dalla concessione del marchio retroagiscono al momento della data in cui la domanda, con la relativa documentazione, è resa accessibile al pubblico.

La tesi opposta [45], che ritiene possibile l’intervento del diritto punitivo solo dopo che è già avvenuta la registrazione del titolo, capovolge questi argomenti. Primo: con la riforma del 2009 all’art. 473 cp è stato aggiunto un inciso, prevedendo la punibilità della condotta solo se il responsabile poteva conoscere del titolo di proprietà industriale: come si può conoscere l’esistenza di un titolo, se questo non è ancora efficace? Secondo: si rischiano decisioni contraddittorie, qualora l’autorità amministrativa alla fine respinga la richiesta di registrazione o, viceversa, quando si verificano fenomeni di volgarizzazione del marchio [46].

Si aggiunge ancora che si darebbe vita altrimenti ad una inammissibile analogia in malam partem, e che non ha senso sanzionare penalmente la falsificazione di un oggetto che non ha (ancora) ottenuto alcuna particolare tutela dall’ordinamento,

4.3. Il falso innocuo

Il paradigma del falso innocuo si è posto essenzialmente in relazione al reato di commercio di prodotti con segni falsi. Nella giurisprudenza di merito [47] infatti si è spesso assolto l’imputato sostenendo che la falsificazione del marchio era grossolana e pertanto si rientrava in un’ipotesi di reato impossibile per inidoneità dell’azione, ai sensi dell’art. 49, comma 2, cp: se la contraffazione è così maldestra che non può indurre in errore, e dunque non lede alcun interesse, in particolare la pubblica fede, il reato non c’è.

Aderendo all’orientamento che vede nel consumatore il destinatario della tutela penale, si affacciano ulteriori riflessioni anche per le ipotesi di imitazione impeccabile. Quando le modalità della contrattazione rendono evidente che l’articolo griffato acquistato non è autentico, che la cintura Armani non l’ha veramente fabbricata Armani, perché il prezzo è eccessivamente basso e il venditore è un extracomunitario che si guarda intorno circospetto, se ne dovrebbe logicamente dedurre che il reato non sussiste. Chi acquista non viene affatto ingannato, riceve esattamente ciò che cercava. Sa benissimo che l’oggetto non è autentico e lo compra con l’intenzione di esibirlo facendo credere di averlo pagato molto di più. Lo diceva già Cesare Pedrazzi: «Che senso ha parlare di frode quando il venditore non fa che consegnare all’acquirente ciò che vuole?» [48].

Ma a queste conclusioni così benevole la Corte di cassazione non giunge quasi mai. Sono poche ed isolate le pronunce in cui si è sostenuto – invocando quale bene protetto la tutela del consumatore – che il reato di cui all’art. 474 cp sussiste, perché c’è inganno, solo se il bene è qualitativamente ineccepibile e la sua provenienza prestigiosa è l’unica ragione che ha determinato l’acquirente; mentre se altri elementi del prodotto, come la sua evidente scarsa qualità o addirittura le sole condizioni della contrattazione (il prezzo eccessivamente basso, l’essere il venditore un ambulante) rendono evidente che esso non può provenire dalla ditta produttrice del marchio, l’inganno non c’è [49].

La giurisprudenza maggioritaria di legittimità – che configura l’art. 474 cp come reato di pericolo che tutela non il singolo compratore ma la pubblica fede intesa quale affidamento collettivo dei cittadini nei marchi o nei segni distintivi che tutelano i prodotti industriali − ritiene inipotizzabile il reato impossibile in caso di falso grossolano [50]. Solo in presenza di una contraffazione del marchio o del segno distintivo palesemente inidonea ad ingannare, oltre al compratore, chiunque altro (cioè percepibile ictu oculi, ostentata e macroscopica), la condotta non è punibile [51]. Proprio perché si tutela l’affidamento della generalità dei cittadini, il venditore deve essere punito anche se ha informato l’acquirente della non autenticità del prodotto e dunque non vi è stato alcun raggiro [52]; e anche se l’imitazione è limitata al marchio e non all’oggetto, che appare chiaramente non essere una creazione della ditta che del marchio è titolare [53].

Altrettanto rigoroso è l’orientamento in tema di falsi palesati. Il falso palesato sussiste quando l’impresa che ha realizzato il prodotto apponendovi un marchio ben definito vi appone indicazioni quali «copia d’autore», «fac-simile», «falso d’autore», «ispirato da». Anche qui, se si individua nel diritto all’uso esclusivo del marchio l’interesse protetto, si giunge alla conclusione che vi è comunque una lesione del prestigio della casa produttrice e dei connessi diritti patrimoniali [54].

5. Il trattamento sanzionatorio

Il dibattito sugli interessi protetti agita le acque anche in tema di trattamento sanzionatorio.

Le ragioni del contrasto al commercio di beni con marchi contraffatti o con segni mendaci sono plurime ed intuitive: la contraffazione delle merci ha ricadute negative non solo sui lavoratori che le producono, pagati in nero e privi di tutele, ma danneggia anche gravemente l’economia nazionale, perché lo Stato subisce la perdita del gettito delle imposte sui redditi di questi lavoratori e sulla vendita senza pagamento dell’Iva.

Dietro questi reati c’è la criminalità organizzata, per cui la contraffazione costituisce il terzo settore di redditività dopo la droga e il racket. Le statistiche giudiziarie rivelano che negli ultimi anni, nel giro di affari legato alla falsificazione di articoli griffati, si è inserita prepotentemente anche la mafia cinese [55]. Il legame fra la camorra e la produzione di prodotti contraffatti è talmente consolidato che si è attribuito il compito di indagare sulle associazioni a delinquere finalizzate alla commissione dei predetti reati alle solo procure capoluogo di distretto, così accentrando l’attività investigativa [56].

Il commercio degli articoli taroccati – quando non avviene via Internet – viene demandato a venditori ambulanti, generalmente extracomunitari irregolari ribattezzati “vù cumprà”. Nella filiera della contraffazione gli unici di fatto chiamati a rispondere in sede penale sono loro: chi confeziona la merce non autentica difficilmente viene pizzicato; mentre gli acquirenti, tutt’altro che inconsapevoli della falsificazione, commettono un mero illecito amministrativo.

5.1 Mano pesante sui venditori

La sanzione per il rivenditore finale di prodotti con segni contraffatti è apparentemente mite: la reclusione fino a due anni e la multa fino a 20.000 euro. Nella realtà delle aule giudiziarie, accanto al reato di commercio di prodotti con segni falsi, viene però contestata anche la ricettazione, sanzionata con la reclusione da due a otto anni, e quindi vengono applicate pene molto più alte.

La Corte di cassazione a sezioni unite (sentenza 9 maggio 2011, n. 23427) ha ritenuto infatti configurabile il concorso fra il delitto di cui all’art. 474 cp e la ricettazione, sostenendo che diverso è il bene giuridico protetto dai due reati, (anche) la fede pubblica in un caso, (anche) il patrimonio nell’altro; e che strutturalmente diverse sono anche le condotte, le quali non si sovrappongono e non sono contestuali, perché i venditori generalmente hanno ricevuto la merce contraffatta nella consapevolezza della sua non autenticità, e dunque devono rispondere anche del reato di ricettazione, ma una persona ben potrebbe acquistare la merce contraffatta in buona fede (e dunque non rispondere di ricettazione) e poi, venuta a conoscenza della contraffazione, decidere di rivenderla [57].

Isolate sono rimaste tre sentenze dei giudici di legittimità [58] che avevano escluso il concorso sulla base di diverse considerazioni: il reato di commercio di prodotti con segni contraffatti ha natura plurioffensiva e tutela, oltre alla fede pubblica, il patrimonio, ovvero il monopolio sul marchio, per cui le condotte di ricezione ed acquisto di prodotti con marchi e segni contraffatti costituiscono un antefatto non punibile, in quanto presupposto necessario della detenzione per la vendita, condotta quest’ultima che il legislatore ha ritenuto sufficiente incriminare per assicurare la tutela penalistica dei consumatori e, a un tempo, dei titolari dei diritti patrimoniali; il concetto di «cose provenienti da delitto» non si attaglia alle fattispecie contraffattive, perché i beni contraffatti sono creazioni illecite, e dunque «prodotto» e non «provento» di reato, come richiesto dalla norma sulla ricettazione.

Al di là degli argomenti contrapposti, va rilevato che il concorso fra la ricettazione e il commercio di prodotti con segni falsi porta a uno squilibrio di trattamento sanzionatorio, perché chi a valle vende la merce è punito più gravemente in virtù del concorso fra norme, mentre chi a monte è responsabile della contraffazione ex art. 473 cp incorre, oltre che in una multa, nella reclusione da sei mesi a tre anni.

Queste conseguenze sanzionatorie appaiono ancora più paradossali se si ha riguardo al trattamento di favore riservato ai compratori dei beni contraffatti.

5.2 Mano leggera sugli acquirenti

A rigore anche gli acquirenti, che con il loro comportamento contribuiscono ad incentivare la fabbricazione e il commercio di articoli contraffatti o di dischetti copiati in violazione delle norme sulla proprietà intellettuale, dovrebbero rispondere di ricettazione, esattamente come chi compra un cellulare rubato sapendo che è provento di un furto: ha tutti gli elementi per immaginare che la merce è contraffatta, e non solo quando acquista da un “vù cumprà”. La rete Internet infatti solo in astratto impedisce all’acquirente di verificare l’autenticità del prodotto, perché chi compra beni griffati a prezzi esageratamente bassi sa che il prodotto non è originale.

Invece accade che chi paga a un venditore ambulante un articolo griffato un prezzo modesto, sapendo benissimo che non è autentica, non incorre in alcun reato, ma solo in un illecito amministrativo. Per la legge infatti è punito con la sanzione pecuniaria da 100 a 7000 euro «l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o la condizione di chi le offre, o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale» [59].

Questa norma è stata introdotta nel 2005, apparentemente per contrastare il commercio di beni su cui sono apposti marchi falsificati, in realtà proprio con la finalità di escludere che chi acquista debba rispondere in sede penale. Sennonché nel testo originario era stato apposto l’inciso «salvo che il fatto costituisca reato», e quindi alcuni giudici avevano così ragionato: se si acquista un articolo taroccato sapendo che è tale, si commette una ricettazione; solo se vi è buona fede c’è l’illecito amministrativo. In un caso non è stata accertata la legittima provenienza del bene, nell’altro vi è la certezza di avere acquistato un bene contraffatto. L’illecito amministrativo era considerato speciale solo rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 712 cp, non rispetto alla ricettazione.

Di fatto, l’illecito amministrativo in base a questo indirizzo non era mai applicabile, perché le circostanze concrete della vendita rendono praticamente sempre evidente che il bene è contraffatto.

Per evitare la conseguenza non voluta di fare rispondere l’acquirente di ricettazione, nel 2009, l’inciso è stato soppresso, e a questo punto la Corte di cassazione a sezioni unite (sentenza 19 gennaio 2012, n. 22225) ha preso atto che chi acquista, anche se è consapevole della falsificazione, e anzi cercava proprio un bene contraffatto, non commette alcun reato: non la ricettazione, e neppure la contravvenzione di incauto acquisto di cui all’art. 712 cp (che presuppone che il compratore abbia elementi per ritenere che la merce è di provenienza illecita), perché prevale la norma amministrativa [60]. I giudici di legittimità hanno fatto leva su diversi argomenti, oltre a quello della soppressione della clausola di riserva: responsabile della ricettazione o dell’incauto acquisto è «chiunque»; dell’illecito amministrativo solo «l’acquirente finale»; oggetto della ricettazione sono «cose provenienti da delitto», della sanzione amministrativa «cose che, per la loro qualità o la condizione di chi le offre, o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale»; con la riforma del 2009 è stato tolto l’inciso «senza averne prima accertata la legittima provenienza», e quindi l’elemento psicologico non si sovrappone più a quello dell’incauto acquisto, ma ricomprende sia le situazioni in cui il consumatore sia consapevole della violazione sia quelle di sospettabilità.

In definitiva, nel nostro sistema penale, se si acquista un cellulare rubato sapendo che è oggetto di furto si commette una ricettazione, se non lo si sa ma si può immaginare (per il prezzo, il venditore o altri elementi) che è stato rubato si risponde di incauto acquisto. Se una di queste due condotte ha invece per oggetto una borsa con marchio contraffatto, provento di furto della proprietà industriale, c’è solo una sanzione amministrativa [61].

De iure condendo, si affaccia una riflessione. La depenalizzazione del 2016 non ha toccato la materia della proprietà intellettuale e industriale, unica fra quelle espressamente escluse dall’art. 2 della legge delega a non avere rilievo pubblicistico (le altre erano edilizia e urbanistica, ambiente e paesaggio, sicurezza pubblica, salute nei luoghi di lavoro, armi ed esplosivi, elezioni e finanziamento ai partiti, scommesse e giochi d’azzardo). Sarebbe invece stato opportuno cogliere l’occasione della introduzione della figura dell’illecito civile per decongestionare l’area penale e ricondurre queste violazioni alla natura che sarebbe più loro propria, sulla falsariga del diritto statunitense [62].

*Relazione tenuta all’incontro di studio del 10 ottobre 2017, organizzato dalla Scuola superiore della magistratura territoriale di Torino.

 



[1] Cass. Pen, Sez. III, 21 maggio 2013, n. 38906.

[2] La norma fa riferimento, oltre che al concetto di «contraffazione» (con un passaggio dal significato etimologico contra-facere, che richiamava la violazione delle regole produttive delle corporazioni medioevali, a quello di falsità), anche alla «alterazione», che consiste nella eliminazione o aggiunta di elementi costitutivi in modo tale però che nel suo complesso il marchio venga scambiato per quello originale. L'ipotesi invece che si manometta materialmente un marchio genuino, operazione che potrebbe verificarsi nella fase intermedia della realizzazione di un prodotto, appare di minima rilevanza pratica.

[3] La natura di reati di pericolo pone il problema della configurabilità del tentativo, che anticiperebbe ulteriormente la soglia della punibilità. Sul punto la giurisprudenza si è evoluta, passando da un iniziale indirizzo negativo (motivato con la circostanza che con la «messa in vendita» in reato è già consumato, mentre la mera detenzione non è punibile in quanto inidonea) ad uno affermativo. Particolarmente significative delle oscillazioni in materia sono le pronunce relative alla presentazione della merce contraffatta alla dogana: per alcune trattasi di ipotesi reato consumato, perché la si mette «in circolazione» (così Cass. Pen., Sez III, 28 giugno 2005, n. 37139); per altre di fattispecie tentata (così Cass. Pen., Sez. III, 26 aprile 2001, n. 26754); per altre ancora la presentazione di merce alla dogana non è punibile del tutto, perché non vi è alcuna «messa in circolazione» (Cass. Pen., Sez. III, 11 dicembre 1985, n. 4374).

[4] Cas. Pen., Sez. III, 25 maggio 1998, n. 7639.

[5] Cass. Pen., Sez. III, 15 luglio 1997, n. 3674.

[6] Cass. Pen., Sez. V, 14 gennaio 1986, n. 2128.

[7] Cass. Pen., Sez. III, 8 marzo 1985, n. 2250.

[8] G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi, Giuffrè, 1962, p. 35.

[9] L'art. 127, comma 1, disponeva: «Salva l'applicazione degli articoli 473, 474 e 517 del codice penale, chiunque fabbrica, vende, espone, adopera industrialmente, introduce nello Stato oggetti in violazione di un titolo di proprietà industriale valido ai sensi delle norme del presente codice è punito, a querela di parte, con la multa fino a 1.032,91 euro».

[10] Per descrivere il vantaggio ingiusto di chi tiene queste condotte di carattere parassitario, utilizzando i beni senza sostenere i relativi costi si è coniato in inglese il termine «free rider», cavaliere libero.

[11] Con il paradosso che una norma che tutela unicamente il produttore è stata inserita nel titolo dedicato alla protezione dell'economia pubblica.

[12] Cass. Pen., Sez. II, 3 aprile 2008, n. 16821; Cass. Pen., Sez. II, 27 aprile 2012, n. 28423.

[13] L'espressione si ritrova in più di una sentenza (Cass. Pen. Sez. V, 15 gennaio 2004 n. 5237, Cass Pen., Sez. II, 11 ottobre 2005 n. 44297).

[14] G. Delitala, Contraffazione marchio o frode in commercio: concorso apparente di norme, in Diritto penale. Raccolta degli scritti, vol. 1, Giuffrè, 1976, p. 259.

[15] Questa previsione, già presente nella versione originaria del codice Rocco ed è stata ribadita e aggiornata dalla riforma del 2009.

[16] Sulla scorta delle indicazioni della direttiva n. 89/10/CE.

[17] D.lgs 10 febbraio 2005, n. 30.

[18] Art. 23 del Codice della proprietà industriale.

[19] F. Antolisei, Manuale di diritto penale: parte speciale II, XIV edizione, Giuffrè, 2003, p. 176.

[20] Cass. Pen, Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 46982.

[21] Cass. Pen., sez. VI, 21 marzo 1990, n. 4053.

[22] Cass. Pen., sez. III, 17 febbraio 2005, n. 13712.

[23] Pret. Torino 25 gennaio 1984, in Riv. Dir. Ind., 1985, II, P. 171.

[24] Trib. Torino 12 ottobre 1984, in Foro it., 1985, II, P. 230.

[25] Cass. Pen, Sez. III, 7 luglio 1999, n. 2500.

[26] P. Auteri, Indicazioni geografiche, disciplina delle pratiche commerciali scorrette e concorrenza sleale, in Studi in memoria di Paola A. E. Frassi a cura di S. Giudici, Giuffrè, 2010, p. 23; F. Di Gianni, Il lungo viaggio alla ricerca dell’origine: norme e giurisprudenza relativa al made in, in Rivista di diritto industriale, 1, 2007, p. 24.

[27] L'art. 2 dell'Accordo di Lisbona permette le registrazioni allorché «le qualità o le caratteristiche [del prodotto] sono dovute esclusivamente o essenzialmente alle caratteristiche geografiche, comprendenti sia i fattori naturali sia i fattori umani».

[28] G. Floridia, I marchi di qualità, le denominazioni d’origine e le qualificazioni merceologiche nel settore alimentare, in Rivista di diritto industriale, 1, 1990.

[29] V. Franceschelli, Made in Italy. Much Ado about Nothong, in Studi in memoria di Paola A. E. Frass, a cura di S. Giudici, Giuffrè, 2010, p. 356; E. Loffredo, Profili giuridici della tutela delle produzioni tipiche, in Il diritto industriale, 2, 2003, p. 140.

[30] F. Di Gianni, Il lungo viaggio alla ricerca dell’origine: norme e giurisprudenza relative al made in, in Rivista diritto industriale, 1, 2007, p. 40.

[31] A. S. Scalco, Made in Italy: necessità di una più intensa tutela penale dell’eccellenza italiana nel mercato globalizzato, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 4, 2008, p. 1080; G. Manca, La tutela penale della proprietà industriale e della struttura produttiva italiana: prospettive e ripercussioni della L. 23 luglio 2009, Cedam, 2009, p. 146.

[32] Dl 14 marzo 2005 n. 35; dl 25 settembre 2009 n. 135; dl 22 giugno 2012 n. 83.

[33] La norma è stata modificata più volte: prima con dl n. 35/2005 aggiungendo dopo «false o fallaci indicazioni di provenienza delle merci» anche «false o fallaci indicazioni d'origine»; dalla legge n. 296/2006 che ha allargato la repressione all'«uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli»; dalla legge n. 99/2009 che ha inserito un inciso, che pareva attribuire rilievo alle condotte meramente omissive); dal dl 135/2009 che ha abrogato l'inciso introdotto dalla legge n. 99/2009 e ha inserito il comma 49-bis; infine dal dl n. 83/2012.

[34] Dl 14 marzo 2005, n. 35.

[35] Cass. Pen., Sez. III, sent. 19 aprile-23 settembre 2015, n. 34103.

[36] Le pratiche ingannevoli sono quelle definite dall'art. 21 del d.lgs 2 agosto 2007 n. 146.

[37] Cass. Pen., sez. III, 21 ottobre 2004-2 febbraio 2005, n. 3352.

[38] Cass. Pen. Sez. III, 17 febbraio-14 aprile 2005, n. 13712.

[39] Cass. Pen., sez. III., 24 gennaio 2007, n. 8684; Cass. Pen., sez. III, 22 giugno 2006, n. 21797; Cass Pen, Sez. III, 2 marzo 2006, n. 24043.

[40] Cass. Pen., sez. III, 27 gennaio 2012, n. 19650.

[41] Fra gli altri, dalla Agenzia delle dogane (nota del 28 luglio 2010).

[42] Prima del 2009 la prima condotta era sanzionata solo sul piano amministrativo (art. 127, comma 2 del codice della proprietà industriale), la seconda cadeva nei comportamenti punibili ex art. 517 cp o ex art. 4, comma 49, della legge n. 350/2003, a seconda che la produzione fosse italiana o estera.

[43] Cfr. ad es. Cass. Pen. Sez. II, 2 febbraio 2010, n. 4217.

[44] G. Marinucci, Il diritto penale dei marchi: studi, Giuffrè, 1962, p. 37.

[45] Cass. Pen., Sez. V, 10 ottobre 2013, n. 41891.

[46] Art. 14 del Codice della proprietà industriale: «Il marchio d'impresa decade: a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato; b) se sia divenuto contrario alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume; c) per omissione da parte del titolare dei controlli previsti dalle disposizioni regolamentari sull'uso del marchio collettivo».

[47] Fra le pronunce più recenti, Corte d'appello Palermo, sez. I, 5 marzo 2012 n. 980; Corte d'appello L'Aquila, 12 marzo 2012, n. 457; Corte d'appello Taranto, 16 marzo 2012, n. 58.

[48] C. Pedrazzi, Appunti sulla tutela penale delle denominazioni di origine, in Rivista italiana di diritto penale, 1956, p. 590.

[49] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 25 marzo 1997 n. 4066; Cass. Pen. sez V, 17 giugno 1999, n. 2119.

[50] Cass. Pen., Sez. II, 18 ottobre 2016, n. 51001.

[51] Cass. Pen., Sez. II, 12 giugno 2012, n. 25684.

[52] Cass. Pen., Sez. V, 5 novembre 2001, n. 1195.

[53] Ciò che importa è l’imitazione fraudolenta del marchio e non del prodotto, che può anche dare adito a dubbi sulla sua autenticità (Cass. Pen., Sez. V, 20 novembre 2007, n. 47094; Cass. Pen., Sez. V, 14 febbraio 2008, n. 11240).   

[54] Cass. Pen., Sez. II, 11 maggio 2012, n. 31543.

[55] Originariamente la pena per l'introduzione nel territorio dello Stato e il commercio di prodotti con segni contraffatti (art. 474) era la stessa ed era più contenuta di quella attuale: la reclusione fino a due anni e una multa.

Nel 2009 (legge 23 luglio 2009, n. 99), per fare pronte al largo afflusso si merci contraffatte provenienti da Paesi extraeuropei, le due condotte, di introduzione nel territorio dello Stato e di commercio, sono state inserite in due distinti commi, prevedendo per la prima una pena molto più elevata: la reclusione da uno a quattro anni e la multa da 3500 a 35000 euro. Per colpire con severità il commercio di prodotti con segni falsi anche al di fuori delle ipotesi di vera e propria associazione a delinquere, è stata inoltre prevista una apposita circostanza aggravante per le ipotesi in cui il commercio sia commesso in modo sistematico o attraverso l'allestimento di mezzi e attività organizzate, con la comminazione della reclusione da due a sei anni e della multa da 5.000 a 50.000 euro (art. 474-ter, comma 2, cp).

[56] Art. 51, comma 3-bis, cpp, così come modificato dalla legge 23 luglio 2009, n. 99.

[57] Analogo principio è stato affermato anche in materia di diritto d'autore: il reato di cui all'art. 171-ter legge n. 633/1941 può concorrere con la ricettazione (Cass. Pen., Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 47164).

[58] Cass. Pen. Sez V, 3 marzo 1998, n. 1315; Cass. Pen., Sez. V., 16 dicembre 1999, n. 5526; Cass. Pen., Sez V, 14 gennaio 2000, n. 5525.

[59] Art. 1, comma 7, dl 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80, così come modificato dalla legge 23 luglio 2009, n. 99.

[60] Secondo la tesi opposta non accolta, l'illecito amministrativo è speciale rispetto alla contravvenzione di incauto acquisto, ma non anche rispetto alla ricettazione.

[61] Lo stesso principio è stato affermato in materia di diritto d'autore da Cass. Pen., Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 47164.

[62] D'altronde questo è il percorso seguito in una materia affine: il marchio CE che attesta la sicurezza dei giocattoli. Fino a poco tempo fa era incriminata la vendita da parte di «chiunque» di giocattoli senza marchio CE (art. 4 del d.lgs 27 settembre 1991, n. 313). L'art. 31 del d.lgs 11 aprile 2011 ha modificato la normativa, mantenendo la sanzione penale solo in capo a determinati soggetti: fabbricante, importatore o distributore e applicando ai semplici rivenditori una sanzione amministrativa pecuniaria.

09/05/2018
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