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La proposta di legge sul reato di negazionismo nella prospettiva della giurisprudenza europea

di Andrea Buratti
Ricercatore Diritto pubblico - Dipart. Giurisprudenza - Univ. di Roma Tor Vergata
La complessità della questione "negazionismo" tra prospettive nazionali e giurisprudenza CEDU
La proposta di legge sul reato di negazionismo nella prospettiva della giurisprudenza europea

La lugubre diatriba sulla sepoltura del cadavere del boia nazista Erich Priebke è destinata a lasciare strascichi che vanno ben oltre i destini personali. Già nella tragedia greca, l’esposizione del cadavere è soggetto politico per eccellenza, interroga la comunità su questioni dirimenti: nell’Antigone e nell’Aiace, il diritto di sepoltura del traditore simboleggia il conflitto tra la tradizione giuridica arcaica e il nuovo codice vigente nella pòlis democratica. 

La sepoltura può avvenire solo all’esito di una pacificazione tra opposte, inconciliabili, visioni. L’esperienza sembra ora ripetersi nella cronaca, con il cadavere insepolto a ravvivare il dolore di una memoria non ancora condivisa, che domanda protezione dall'ennesima ingiuria.

Alla provocazione di un uso pubblico della morte, il Senato ha reagito deliberando la modifica dell’art. 414 c.p., nel senso della previsione del reato di negazione della «esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità». Ci si era già provato, senza fortuna, sei anni fa, con l’iniziativa del Guardasigilli Mastella. Anche allora, l’iniziativa coincise con la celebrazione del giorno della memoria della Shoa, ad attestare il valore anzitutto simbolico e risarcitorio della legge. Stavolta siamo appena al primo voto in commissione e i partiti hanno già fatto la corsa per rivendicarne la paternità. Ma, come sei anni fa, sono arrivate anche le critiche.

Vengono soprattutto dagli storici e dai penalisti: per i primi la storia ha la sua grammatica, che non coincide con quella processuale; scriveva Benedetto Croce: «La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice; e giustiziera non potrebbe farsi se non facendosi ingiusta». I secondi condannano l’espansione dei reati di opinione; e certo, è contraddittorio che mentre si ragiona su come alleggerire il sovraffollamento carcerario, magari attraverso la depenalizzazione di reati comuni o escludendo la pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa, il Parlamento si affanni ad istituire nuovi reati di opinione: prima l’omofobia, ora il negazionismo.

Invocare l’art. 21 della Costituzione, tuttavia, non risolve. L’analisi comparativa ci dimostra che in questo terreno le soluzioni sono le più diverse: la libera manifestazione del pensiero è da sempre il terreno dei bilanciamenti e dei test di ponderazione, a partire dal clear and present danger test della Corte Suprema americana. L’ipotesi di reato esiste già in molti Stati europei. Di fronte a questo concerto, l’Unione Europea ha perfino invitato gli Stati membri ad armarsi con strumenti “armonizzati” per reprimere un reato eminentemente “transfrontaliero”. Ma la struttura del reato varia sensibilmente, da formulazioni più generiche a prescrizioni direttamente riguardanti la Shoa; e la giurisprudenza non segue indirizzi comuni.

All’estremo si pone la soluzione francese. La Loi Gayssot-Fabius del 1990 condanna la negazione dell’Olocausto, ipostatizzando la verità storica attraverso il rinvio al giudicato di Norimberga. Il Tribunale costituzionale tedesco segue vie più sottili: la negazione dell’Olocausto si colloca a cavallo dei reati di istigazione ed offesa alla memoria dei defunti. Una soluzione che consente ponderazioni e valutazioni caso per caso. Va molto oltre il Tribunale costituzionale spagnolo, che nel 2007 cassa la previsione legislativa del reato di negazionismo, ritenendolo sganciato dalla concreta offensività, bastando allo scopo i reati di apologia e istigazione.

La Corte di Strasburgo viene subito chiamata a confrontarsi con l’armamentario penalistico, dando luogo ad una giurisprudenza che fa discutere. Come è noto, per i giudici europei la libertà di espressione è pietra angolare del sistema dei diritti, ed è protetta soprattutto quando «è scioccante, offensiva, fa indignare». Se però l’espressione consiste nella negazione di fatti storici connessi all’Olocausto essa non rientra nel campo di applicazione dell’art. 10 CEDU, rappresenta invece un abuso di diritto, come tale vietato dall’Art. 17 della Convenzione. Il parametro è un ferro vecchio, e la stessa Corte di Strasburgo praticamente non vi fa più ricorso. Ma in queste occasioni torna utile per evitare di spostare l’analisi sul terreno della libertà di manifestazione del pensiero, dove andrebbero soppesate le condizioni contestuali, misurata l’offensività dell’opinione. Se invece il diritto è abusato, la questione è risolta in via preliminare, non supera il vaglio dell’ammissibilità. È così quando si vuole rimettere in discussione «verità storiche definitivamente acclarate, comel’Olocausto», che rappresentano pilastri fondativi del sistema della Convenzione (Marais c. Francia, 1996). La vicenda più eclatante è quella che ha coinvolto l’eclettico e farneticante Roger Garaudy, filosofo marxista convertito all’Islam integralista, che scrive un libro zeppo di idiozie e luoghi comuni negazionisti (Garaudy c. Francia, 2003). Ma la giurisprudenza è consolidata.

La Corte è consapevole di risolvere i casi in modo rozzo, declinando la categoria del vero e del falso per opinioni storiche che, come tali, soggiacciono ad una conoscenza che evolve nel tempo, quantomeno perché cambiano le domande che alla storia rivolgiamo. Ed allora, non appena può, accantona il ferro arrugginito del divieto di abuso di diritto e recupera il terreno sofisticato della ponderazione dei casi concreti. Quando il signor Fatullayev ritiene del tutto infondata la versione storica tradizionalmente accreditata del massacro di Khojaly, perpetrato nel 1992 dagli eserciti armeno e russo contro la popolazione azera, uno degli eventi fondativi della memoria storica nazionale, la Corte apprezza la libertà della ricerca storica, la sua delicatezza, la plurivocità di fonti da cui sgorga la conoscenza storica. Ma lo stesso accade quando si prova a riqualificare l’immagine del maresciallo Petain (Lehideux et Isorni c. Francia, 1998) o quando si ricerca sulle colpe dei capi partigiani francesi, pur fin qui idealizzati (Chauvy et autres c. Francia, 2004).

Così, la Corte si riappropria della capacità di mediazione tra diritti e valori confliggenti, trattando il revisionismo storico come un discorso sì spiacevole – a volte ripugnante, come ogni lavoro di scavo nella memoria collettiva, come ogni riesumazione di un vissuto con il quale non si è giunti a riconciliarsi –, ma intimamente connesso all’esercizio delle libertà comunicative.
 
Nota bibliografica essenziale: P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, in Ragion Pratica, 12/1999; T. Todorov, Gli abusi della memoria, (1995), Napoli 2001; G. Vassalli, Formula di Radbruch e diritto penale, Milano 2001; M. Manetti, Libertà di pensiero e negazionismo, in M. Ainis (a cura di), Informazione, potere, libertà, Torino 2005; R. Uitz, Constitutions, Courts and History. Historical Narratives in Constitutional Adjudication, Budapest-New York 2005; A.Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione, Bologna 2005; A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, in Dir. pubbl. comp. eur., 1/06; J. Elster,Chiudere i conti. La giustizia nelle transizioni politiche, (2004), Bologna 2008; A. Garapon,Chiudere i conti con la storia, Milano 2008; E. Stradella, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Torino 2008; E. Traverso, L’Histoire comme champ de bataille, Paris 2011; O. Pollicino, Il negazionismo nel diritto comparato: profili ricostruttivi, inDir. umani e dir. int., 5/2011; F. Losurdo, Il divieto dell’abuso del diritto nell’ordinamento europeo, Torino 2011; M. Castellaneta, La repressione del negazionismo e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in Dir. umani e dir. int., 5/2011; G. Resta – V. Zeno Zencovich,Riparare, risarcire, ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, Napoli 2012; A. Buratti, L’uso della storia nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dell’Ass. it. dei cost., 2/2012.
 

26/10/2013
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