Magistratura democratica
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La non punibilità per particolare tenuità del fatto

di Giovanni Zaccaro
giudice del Tribunale di Bari
Prime osservazioni sul decreto legislativo in corso di emanazione
La non punibilità per particolare tenuità del fatto

Premessa.

E’ in corso di emanazione il decreto legislativo recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in attuazione della delega conferita al Governo con l'art. 1, commi 1, lettera m), e 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67.

Allo stato, è noto lo schema approvato nel corso del Consiglio dei ministri tenuto il 1° dicembre 2014 trasmesso alle Assemblee parlamentari il 23 dicembre scorso.

Il Governo intende introdurre una causa di non punibilità per i reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva, qualora, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità ed il comportamento del reo risulta non abituale.

La cronaca politica e gli stessi lavori presso la Commissione Giustizia della Camera dimostrano il pregiudizio che accompagna l’istituto.

Pregiudizio figlio del populismo penale, così bene deprecato da Papa Bergoglio, che condiziona qualsiasi dibattito sulla giustizia, sui reati, sulla pena.

Si sono letti così commenti che rivendicano la necessità di pene esemplari anche per reati bagatellari, con dichiarati scopi generalpreventivi, oppure preoccupazioni che la riforma segni la resa dello Stato a fronte della criminalità comune ed addirittura elenchi di reati che non sarebbero più punibili.

Appare necessario sgomberare il campo da alcuni equivoci.

Non è una depenalizzazione.

La diffusione di elenchi di reati, ai quali la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto si applicherebbe, ha causato l’erroneo convincimento che il decreto legislativo comporti la loro depenalizzazione. Errore cinicamente cavalcato da chi cerca di acquistare consensi elettorali lanciando campagne contro la microcriminalità.

Invece, non si tratta di depenalizzazione e gli elenchi indicano solo i reati, i cui limiti edittali massimi potrebbero consentire l’applicazione dell’istituto.

La differenza è palese: con la depenalizzazione, tutti i reati, a prescindere dalle modalità con le quali in concreto si sono consumati, vengono meno; con la proposta governativa, non sarebbero punibili i reati, sanzionati in astratto nel massimo con la pena di cinque anni di reclusione o con la pena pecuniaria, solo qualora siano in concreto scarsamente offensivi. Nel primo caso, il legislatore stabilisce a priori le condotte che non costituiscono più reato; nel secondo caso, il legislatore attribuisce al giudice il potere di verificare, nel caso concreto, i fatti che non meritano di essere puniti, perché per le loro modalità, per la lievità del danno o del pericolo cagionato, per la loro occasionalità hanno arrecato una offesa troppo lieve per meritare una sanzione penale.

Gli effetti pratici sono di tutta evidenza e militano nel senso di una più attenta politica sanzionatoria.

La pratica giudiziaria dimostra come fatti, astrattamente gravi perché puniti severamente dal legislatore, a volte si manifestano in concreto come di scarsa gravità oppure fatti, astrattamente non gravi perché puniti lievemente dal legislatore, in concreto ledano seriamente il bene giuridico protetto.

Spesso la necessaria depenalizzazione è stata fermata o ridimensionata per gli interventi dei rappresentati degli interessi, tutelati dalle norme incriminatrici da depenalizzare, che hanno dimostrato come, a volte, la sanzione penale sia servita per punire condotte gravi che, in caso di depenalizzazione, non sarebbero più state perseguite.

Questo perché capita che fattispecie, generalmente di poco conto e poco allarme sociale, in qualche caso si manifestino con tale gravità da meritare la sanzione penale. Di qui la pan penalizzazione che impone lo svolgimento di indagini, dibattimenti penali ed eventuali tre gradi di giudizio, con tutto il giusto corollario di garanzie e comunicazioni, anche per vicende che non li meriterebbero, come per esempio la cattiva conservazione di una vivanda, magari mai destinata all’effettiva somministrazione al pubblico, o la realizzazione di un volume abusivo mediante chiusura di una veranda.

Se la proposta governativa venisse approvata, rimarrebbero (come è necessario che sia) le norme penali a presidio della salute degli alimenti o del corretto uso del territorio, ma si potrebbe rinunciare alla punizione nei casi dei piccoli abusi o delle condotte incapaci di ledere in concreto il bene protetto. Ossia esisterebbe sempre una sanzione per chi realizza un capannone industriale abusivo, ma non la si applicherebbe qualora l’abuso consista in una piccola veranda domestica, chiusa senza previo permesso dell’amministrazione competente. O, per utilizzare esempi più vicini alla “criminalità di strada”, alla quale i critici della norma sembrano essere più attenti, sarebbero sempre reati il furto o lo spaccio di sostanze stupefacente ma non sarebbero punibili se consistessero nell’impossessamento di un accendino del compagno di lavoro o nel “passare una canna, per un tiro” all’amico maggiorenne e consenziente, durante una festa.

Non è incostituzionale.

Timori giuridicamente più raffinati sono  mossi da coloro che temono che la norma violi i precetti costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale o della riserva di legge in materia penale.

La riforma non attribuisce alcuna discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale del PM. Si tratta, invero, di una causa di non punibilità, prevista dal legislatore, la cui esistenza dovrà essere accertata, su istanza del pm o di ufficio, da un giudice terzo, con decreto motivato (se il PM avrà richiesto l’archiviazione) o con sentenza (all’esito dell’udienza preliminare o nel corso del dibattimento).

Anzi, l’istituto attribuisce dignità al principio, anch’esso di rango costituzionale, di offensività.

Un diritto penale improntato alla necessaria offensività del reato è proprio dei sistemi liberali, in contrapposizione ai regimi autoritari che concepiscono il reato come violazione di un mero dovere di obbedienza alle norme statuali.

La dottrina penalistica maggioritaria ha affermato la matrice costituzionale del principio di offensività, rinvenendone la fonte:

  1. nell’art. 13 Cost.; la libertà personale è tutelata dalla Costituzione, una sanzione penale può essere ammessa solo come reazione ad una condotta che offenda un bene di pari rango, sanzionare comportamenti che non siano lesivi significa ledere l’art. 13 Cost.;
  2. nell’ art. 25, 2° co. Cost.; la sanzione penale è subordinata alla commissione di un “fatto”, e dunque è necessario che il legislatore punisca condotte materiali ed offensive e non una mera disobbedienza ad un precetto;
  3. nell’art. 25 e 27 Cost.; il costituente distingue la pena dalla misura di sicurezza, attribuendo a quest’ultima una funzione preventiva: sanzionare con una pena una condotta non offensiva, ma di semplice disobbedienza e dunque indice di possibili futuri reati, significherebbe assegnare alla pena il ruolo proprio della misura di sicurezza;
  4. nell’art. 27, 3° co. Cost.; poiché presupposto della rieducazione del condannato è la percezione dell’antigiuridicità del proprio comportamento, la condanna per mere violazioni di doveri, non offensive di alcun bene, frustrerebbe la funzione rieducativa della pena;
  5. nell’art. 8 Cost.; se si disancorasse il reato dalla necessaria lesione di un bene, si punirebbero semplici condotte “riprovevoli” sulla base dei precetti morali o religiosi correnti, e così si violerebbe il dettato costituzionale della laicità dello Stato e del pluralismo religioso.

Tuttavia, il riflesso pratico del principio di offensività è stato spesso limitato ai casi di scuola del furto d’acino d’uva o del chiodo arrugginito, fattispecie che, mancando il “profitto”, difettano del requisito della tipicità, ancor prima che di quello della necessaria lesività.

Spesso la giurisprudenza è stata assai timida nel dare rilievo al principio di offensività. A fronte di condotte in sé inidonee a ledere il bene, tradizionalmente inteso come bene protetto dalla norma penale contestata, si tende a reinterpretare le fattispecie in chiave plurioffensiva e, dunque, a considerare esistente il reato per il verificarsi della lesione di beni ulteriori. Così, si leggono sentenze che, nel caso di truffe contrattuali a prestazioni equivalenti e dunque incapaci di ledere il patrimonio, hanno individuato l’ulteriore bene protetto nella libertà negoziale, oppure, in ipotesi di cessione di sostanze non effettivamente droganti, hanno ritenuto comunque leso il “bene meritevole di tutela penale” della salvaguardia delle giovani generazioni.

Altre sentenze adottano criteri particolarmente restrittivi per riconoscere il falso grossolano nel caso di merci imitazione di quelli griffati vendute per strada o per escludere la punibilità nel caso di falsa testimonianza o simulazione di reato, consumati riferendo circostanze tante assurde, inverosimili o grottesche da non porre alcun ostacolo all’amministrazione della Giustizia.

Si tratta di resistenza culturali che l’introduzione del nuovo istituto ed il ripensamento del sistema penale e sanzionatorio nell’ottica del diritto penale minimo possono contribuire a vincere.

Sempre che si faccia buona applicazione delle norme in corso di emanazione.

I confini applicativi dell’istituto.

L’istituto non è una novità nel panorama legislativo italiano.

Già l’art. 27 del dpr 448/88 prevede, nel processo a carico di imputati minorenni, la non punibilità qualora la tenuità del fatto e l’occasionalità della condotta rendano il fatto penalmente irrilevante e l’ulteriore corso del procedimento penale lesivo per le esigenze educative del minore.

In tali casi, il giudizio di tenuità richiede che il fatto sia valutato globalmente, considerando la natura del reato, la pena edittale, l'allarme sociale provocato, la capacità a delinquere, le ragioni che hanno spinto il minore a compiere il reato e le modalità con le quali esso è stato eseguito. L'occasionalità indica, invece, la mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti mentre il pregiudizio per le esigenze educative del minore comporta una prognosi negativa in ordine alla prosecuzione del processo, improntato, più che alla repressione, al recupero della devianza del minore. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 32692 del 13/07/2010 dep. 06/09/2010)

L’art. 34 D.L.vo 274/00, nel processo penale innanzi al giudice di pace, prevede l’improcedibilità per la particolare tenuità del fatto, quando l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, la sua occasionalità ed il grado di colpevolezza, anche tenuto conto dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, non giustificano l’esercizio dell’azione penale.

Anche in tale ipotesi, la Suprema Corte pretende una valutazione congiunta degli indici normativamente indicati - esiguità del danno o del pericolo; grado di colpevolezza; occasionalità del fatto - e del fatto concretamente commesso, non potendo essere limitata alla fattispecie astratta di reato (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 34227 del 07/05/2009 dep. 04/09/2009).

Alcuni critici hanno evidenziato che l’istituto minorile è giustificato dall’esigenza di evitare che il processo penale incida negativamente sullo serenità dello sviluppo della personalità del minore imputato. Infatti, fra i presupposti c’è proprio quello che il processo possa pregiudicarne il processo educativo. In assenza di tale finalità, la non punibilità per la tenuità del fatto non avrebbe senso. Tale critica dimentica, però, che tutto il sistema penalistico è permeato dal finalismo rieducativo della pena, previsto dalla Costituzione. Se la pena deve consistere nella rieducazione del reo, non ha senza comminare pene qualora non vi siano esigenze rieducative. Se il fatto commesso integra un reato solo astrattamente, ma non ha in concreto la capacità di ledere in modo significativo il bene protetto, allora non vi è alcuna esigenza rieducativa per il suo autore ed è giusto trovare forme che ne escludano la punibilità.

Anche il riferimento all’ipotesi del reato impossibile, che già disciplinerebbe i casi di reati inidonei a ledere il bene protetto, non appare calzante. L’art. 49 II co cp ha un ambito di applicazione assai più ristretto, limitato ai reati di evento e solo qualora l’evento del reato sia impossibile. La tenuità del fatto, invece, si applicherebbe ad ipotesi di reato “perfette” in tutti gli elementi ma caratterizzate da una lieve offesa del bene protetto.

I timori circa gli arbitrii nell’applicazione e la diffusione di variegate prassi giurisprudenziali, che possano ledere l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, in realtà tradiscono la sfiducia, di chi li prospetta, nella capacità dei giudici italiani di svolgere il loro ruolo istituzionale: essere giudici del caso concreto, calare le fattispecie astratte nel fatto oggetto del processo, valutare le vicende particolari, pesare gli interessi in gioco e svolgere prognosi ragionate sul futuro criminale degli imputati.

Eppure si tratta del lavoro di ogni giorno dei giudici penali; si tratterebbe di utilizzare gli stessi parametri che si utilizzano normalmente quando si dosa la pena o se ne sospende l’esecuzione, si bilanciano le circostanze del reato o si ritengono sussistere le esigenze cautelari.

I timori di un’eccessiva discrezionalità del giudice, addirittura che tradisca la riserva di legge in materia penale, sono poi fugati dalla sussistenza di precisi presupposti per la non punibilità.

Invero, non basta che la pena edittale sia inferiore ai cinque anni di reclusione, ma è anche necessario che il fatto arrechi una offesa tenue, per le modalità della condotta e la scarsezza del danno, e che  non sia abituale.

Si tratta di parametri dotati di un grado di tassatività e chiarezza sufficiente ad evitare arbitrii interpretativi. Del resto, le modalità dell’azione, l’entità dei danni cagionati, il grado di offesa causata sono indici diffusamente utilizzati dal legislatore penale.

Le modalità dell’azione e la gravità del danno o del pericolo sono criteri di determinazione della pena ai sensi dell’art. 133 cp; la tenuità del danno è circostanza attenuante nei reati contro il patrimonio; la tenuità del fatto è circostanza attenuante nel reato di ricettazione, di bancarotta e nei reati contro la pubblica amministrazione (ex art. 323 bis cp); la lieve entità del fatto integra il meno grave reato di cui al V comma dell’art. 73 dpr 309 /90; la minore gravità del fatto è ipotesi attenuata della violenza sessuale.

E’ diffuso l’orientamento secondo il quale il giudizio di particolare tenuità non può fondarsi solo sulla valutazione dell’entità del danno economico o del lucro conseguito; deve, invece, guardarsi alla globalità del fatto, ai profili della condotta, dell'atteggiamento soggettivo dell'agente e dell'evento da questi determinato. In applicazione del principio, è stata esclusa l'attenuante in relazione al comportamento di alcuni carabinieri che, pur essendosi appropriati di modeste somme di denaro, avevano sottoposto alcuni cittadini extra-comunitari a perquisizioni arbitrarie, connotate da "brutale violenza" e dall' approfittamento della loro superiorità numerica (Cass. sez. 6, Sentenza n. 14825 del 26/02/2014 dep. 31/03/2014 ).

Tale principio è costante in materia di ricettazione, ove il valore del bene è un elemento concorrente solo in via sussidiaria ai fini della valutazione dell'attenuante speciale della particolare tenuità del fatto, nel senso che, se esso non è particolarmente lieve, deve sempre escludersi la tenuità del fatto, mentre se è accertata la lieve consistenza economica del bene ricettato, può procedersi alla verifica della sussistenza degli ulteriori elementi, desumibili dall'art. 133 cp, che consentono di configurare l'attenuante (da ultimo, Cass Sez. 2, Sentenza n. 51818 del 06/12/2013 Ud.  dep. 30/12/2013). Pertanto, pure in presenza di beni ricettati di scarso valore, viene esclusa la diminuente in concorso di ulteriori elementi negativi, quali le concrete modalità in cui si è acquisita la disponibilità della res o la capacità a delinquere dell'agente. 

Si ritiene unanimemente che non integri alcun reato l'utilizzo a scopo personale di beni appartenenti alla p.a., quando la condotta non leda la funzionalità dell'ufficio e non causi un danno patrimoniale apprezzabile (Cass. Sez. 6, n. 5010 del 18/01/2012) perché il “raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l'offensività del fatto, che, nel caso del peculato d'uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a., o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio”, come ricordato nella motivazione di Cass. Sez U, sentenza n. 19054 del 20/12/2012 (dep. 02-05-2013).

Anche per la attenuante speciale per i reati contro il patrimonio, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, in materia di rapina e di estorsione, non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi in danno della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia.

Sono, dunque, evidenti le linee conduttrici per il giudizio di tenuità di un fatto di reato: valutazione globale della vicenda, non decisività dello scarso rilievo economico del danno causato o del lucro cercato a fronte di condotte implicitamente gravi, scrutinio della condotta di vita anteatta al fine di esprimere un giudizio complessivo sulla valutazione del reo, verifica del grado di lesione di tutti i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice .

L’ancoraggio a tali parametri interpretativi consentirà un’equilibrata applicazione del nuovo istituto, senza il lassismo che taluni critici hanno paventato.

Sono, comunque, eccessive le preoccupazioni, emerse durante i lavori parlamentari, che la norma possa consentire la non punibilità di reati particolarmente odiosi, come l’omicidio colposo, gli atti persecutori od i maltrattamenti in famiglia.

Invero, sempre che la condotta sia stata eziologicamente rilevante, chi causa o concorre a causare la morte di un’altra persona, di certo non determina un evento lieve, essendo la vita umana il massimo bene tutelato dalla Costituzione, e dunque, anche se l’omicida colposo è punito con una pena compatibile con l’istituto, è da escludere possa beneficare della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

Quanto allo stalking o ai maltrattamenti in famiglia, trattandosi di reati abituali, delle due l’una: o manca la reiterazione degli atti penalmente rilevanti ed allora il reato non sussiste, oppure c’è la reiterazione ed allora sussiste il requisito dell’abitualità che preclude la non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Salvo modifiche del testo, i requisiti della tenuità e della non abitualità del fatto debbano sussistere cumulativamente e non alternativamente per la pronuncia non punibilità. In tale senso depone la lettera della norma e l’orientamento consolidato nel processo innanzi al giudice di pace (Cass. sez. 4, Sentenza n. 15374 del 15/02/2005 dep. 26/04/2005).

La non punibilità opera anche per i reati di pericolo astratto o presunto. In tale senso depone l’espresso riferimento alla “esiguità del pericolo” in alternativa alla “esiguità del danno” contenuto nella norma. Del resto, anche nel procedimento penale davanti al giudice di pace, la causa di improcedibilità di cui all'art. 34 D.Lgs. n. 274 del 2000 trova applicazione anche in riferimento ai reati di pericolo astratto o presunto, perché anche per essi il principio di necessaria offensività consente l'individuazione in concreto di un'offesa anche minima al bene protetto (come la Corte ha ritenuto per il reato di guida in stato di ebbrezza, in caso dell'esiguità del tasso alcolimetrico, Cass. Sez. 4, Sentenza n. 24249 del 28/04/2006 dep. 13/07/2006)

Conclusioni.

Una seria verifica della sussistenza dei presupposti, dell’effettiva offensività del fatto e della personalità del reo sono incompatibili con il dichiarato scopo deflattivo dell’istituto. Se fosse solo questo l’obiettivo della riforma, allora senza dubbio la tenuità del fatto si presterebbe a pratiche di “eutanasia” dei fascicoli bagatellari che affollano i nostri uffici penali. Ma se così fosse, avrebbero ragioni i critici più severi, preoccupati che le esigenze di economia processuale prevalgano su quelle di legalità ed obbligatorietà dell’azione penale.

Se tali principi si intendono salvare, diverso deve essere l’approccio alla norma.

La particolare tenuità del fatto, come la messa alla prova, può essere il banco di prova dove sperimentare la giustizia penale riparativa e riconciliativa. Per esempio, diffondendo protocolli secondo i quali la non punibilità è riconosciuta qualora che l’imputato abbia, spontaneamente e prima del processo, provveduto ad eliminare le conseguenze dannose del reato od a riconciliarsi con la vittima.

Solo in questi termini, si potrà progredire verso la strada del diritto penale minimo, senza che il principio di offensività venga strumentalizzato per “ripulire” i ruoli penali.

 

26/02/2015
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