Magistratura democratica
giurisprudenza costituzionale

La legge elettorale torna al vaglio della Corte costituzionale

di Marco Bignami
Magistrato Tar Lazio
Nota a Tribunale di Messina, ordinanza del 17 febbraio 2016

1. Persino nell’ambito di una scienza sociale inesatta, quale è il diritto, vi sono accadimenti che non possono non manifestarsi. A questa legge obbedisce il Tribunale di Messina, con l’ordinanza qui pubblicata, nel sollevare questione di costituzionalità sulla nuova normativa per l’elezione dei membri della Camera dei deputati.

Come è noto, un gran numero di azioni del tutto analoghe sono state esperite presso altri Tribunali, per iniziativa del medesimo comitato, allo scopo di denunciare plurimi profili di illegittimità della disciplina elettorale, approfittando del varco aperto dalla storica sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.

Alla luce di tale precedente, e del vivace dibattito polemico suscitato dalla approvazione della legge elettorale n. 52 del 2015, era dunque facile prevedere che corpose questioni sarebbero state ben presto sottoposte alla Corte. Del resto, pare doversi ritenere che, allo stato e salvo quanto si preciserà a breve, un azione di accertamento del cittadino elettore, avente ad oggetto la compressione del diritto di voto imposta da una normativa elettorale illegittima, possa utilmente introdurre il dubbio di costituzionalità, anche con riferimento ad una elezione di là da venire, e persino non ancora indetta. La citata sentenza n. 1 del 2014 ha infatti avallato gli argomenti spesi a suo tempo dal giudice a quo (che era la Corte di cassazione), a proposito della lesione che “ancora nel futuro” potrebbe prodursi in danno del diritto di voto a causa della legge elettorale, e ciò ha fatto in armonia con la natura propria delle azioni di accertamento, che non esigono una lesione attuale e concreta della posizione giuridica attiva, quanto una sola incertezza sulla portata del diritto controverso.

Nonostante questa considerazione, va detto che la scelta dei tempi non appare particolarmente felice da parte del giudice messinese. La legge n. 52 del 2015, infatti, è destinata ad entrare in vigore il 1° luglio 2016, circostanza di cui il rimettente è consapevole. Sembra perciò a prima vista curioso che essa possa divenire fin da oggi oggetto di un incidente di legittimità costituzionale, giacché inefficace e per definizione inapplicabile. Sul punto, il Tribunale crede di risolvere il problema, agganciandosi a quanto appena osservato a proposito della natura dell’azione accertativa, e al conseguente allargamento del filtro dell’incidentalità da parte della Corte, quanto all’impugnativa della legge elettorale.

Ma si tratta di una motivazione verosimilmente poco appagante. Un conto è affermare che sono ammissibili questioni di costituzionalità nate da un giudizio introdotto al solo scopo di proporle alla Corte (requisito della incidentalità); tutt’altro conto è impugnare, a tal fine, una legge che non è ancora in vigore, e che perciò, in questo momento, non è neppure in linea astratta in grado di cagionare una lesione dei diritti costituzionali azionati avanti il giudice comune (requisito della rilevanza). 

Certo, il giudice delle leggi si è già mostrato molto generoso nel filtrare questioni di costituzionalità vertenti sulla legge elettorale nazionale, e si troverà a decidere quella sollevata a Messina quando, con ogni probabilità, la novella sarà in vigore; ma resta il fatto che la rilevanza di una questione deve sussistere quando essa è sollevata. 

Con riguardo all’ordinanza che si annota, questa caratteristica è propria della sola censura che investe l’art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015, nella parte in cui determina l’entrata in vigore della novella all’1 luglio 2016, anziché al tempo, successivo, di approvazione della riforma costituzionale con referendum: in effetti, è argomentabile che questa disposizione è immediatamente applicabile, e dunque rilevante nel processo a quo. Ma analoga conclusione non si può trarre a proposito delle altre questioni sollevate.

Sarebbe per questo motivo più prudente che gli altri giudici, avanti ai quali pendono analoghe azioni, piuttosto che bruciare i tempi, li differiscano dei pochi mesi necessari a fondare con ragionevole certezza una prognosi favorevole, quanto al carattere rilevante delle questioni.

E qui, però, si inserisce un’ulteriore riflessione. È risaputo che la riforma costituzionale introduce un ricorso in via principale a favore di una minoranza di parlamentari, avente ad oggetto le leggi elettorali, e che la normativa transitoria permetterà di attivare questo rimedio, una volta entrata in vigore la revisione della Costituzione, anche con riguardo alla normativa vigente, appena approvata.

Se il referendum dovesse bocciare la riforma, il discorso si chiude. Ma, in caso contrario, bisogna chiedersi quale sarà la sorte, a regime, dei giudizi incidentali promossi contro la disciplina elettorale.

La sentenza n. 1 del 2014, nel dare il via libera a tale inedito canale di accesso, ha prestato il fianco a rilievi di ambiguità, quanto alla vera e decisiva ragione giustificatrice di un simile sacrificio, per lo meno a prima vista, della incidentalità. Essa, infatti, ha offerto sul punto una motivazione assai ricca, sviluppando a conforto della soluzione prescelta plurimi argomenti, ciascuno suscettibile di conclusioni sistematiche ben differenti, fino all’idea estrema di azioni dirette a tutela di qualsivoglia diritto costituzionale (devo rinviare, sul punto, e se interessasse, a M. Bignami 2014, in Prime riflessioni sulla “storica” sentenza n. 1 del 2014 in materia elettorale, a cura di M. D’Amico e S. Catalano).

In seguito, però, la sentenza n. 110 del 2015 ha risolto le alternative in modo reciso: dichiarando inammissibili questioni incidentali sollevate, a seguito di azioni di accertamento, con riferimento alla normativa elettorale per il Parlamento europeo, la Corte ha chiarito che l’accesso facilitato alla giustizia costituzionale era dipeso, nella logica della sentenza n. 1 del 2014, dalla sussistenza di una cd. zona franca, ovvero di un settore della legislazione non altrimenti aggredibile sotto il profilo della incostituzionalità. Questa area grigia ricorre avanti alla legge elettorale per il Parlamento, stante la carenza di giurisdizione del giudice comune affermata in tale materia dalle Sezioni Unite, ma non per quanto concerne gli altri procedimenti elettorali, i cui atti sono attribuiti invece al controllo giurisdizionale.

A questo punto, è intuitivo dove si va a parare: l’introduzione di un ricorso diretto al giudice costituzionale sulla normativa elettorale illumina la zona grigia, al punto che non sarebbe più giustificata la forzatura dell’incidentalità?

Non si può prevedere quale sarà la risposta della Corte a tale quesito. Da un lato, si potrebbe osservare che non è sufficiente riporre la garanzia del diritto individuale del cittadino elettore nelle mani di componenti di un organo politico, che ben potrebbero rinunciare a difenderlo; dall’altro lato, sarebbe seducente, dal punto di vista sistematico, richiudere la ferita all’incidentalità aperta, per ragioni eccezionali, dalla sentenza n. 1 del 2014, facendo leva sull’esaurimento della zona franca guadagnato con la revisione costituzionale.

Certo, è questo un ulteriore profilo della riforma costituzionale di dubbia apprezzabilità, perché consegna il giudizio della Corte alla guerreggiata dinamica del confronto tra forze politiche, e per di più nell’immediatezza di esso, anziché al filtro tecnico, e pacificatore, del giudice comune, proprio quando il problema relativo all’accesso incidentale era stato finalmente risolto.

Per tornare però al punto di partenza, sembrerebbe che la finestra utile per sollevare questioni di costituzionalità sulla vigente legge elettorale, senza correre il rischio che esse siano dichiarate inammissibili, si apra con l’1 luglio 2016 e si possa chiudere con l’eventuale entrata in vigore della riforma costituzionale. I nostri Tribunali dovranno perciò affrettarsi con lentezza, se intendono adire la Corte con la certezza di ottenere risposta.

 

2. Venendo al merito delle questioni sollevate dal Tribunale di Messina, è apprezzabile anzitutto che esse siano state adeguatamente selezionate, sotto il profilo della non manifesta infondatezza, da parte del rimettente, che, al di là di come sono state di volta in volta risolte le eccezioni di incostituzionalità, si è mostrato consapevole della necessità di temperare l’accesso diretto alla Corte con una accurata disamina del tono delle censure, sia pure sotto il profilo del solo dubbio di legittimità. 

È vero, in ogni caso, che pur nell’accuratezza della motivazione, il giudice a quo ha dovuto confrontarsi con una situazione più complicata, sotto il versante del merito, di quella ben affrontata a suo tempo dalla Corte di cassazione, quando furono rimesse alla Corte costituzionale le questioni poi decise dalla sentenza n. 1 del 2014.

Allora, infatti, la legge elettorale aveva già mostrato tutte le sue carenze nel vivo dell’azione parlamentare, compromessa a causa di essa sia nel grado di rappresentatività della maggioranza e dei singoli membri delle Camere, sia nell’efficacia dei procedimenti legislativi indotta da una differente composizione politica di Camera e Senato.

Oggi, invece, siamo in una dimensione del tutto astratta, perché non sappiamo ancora come e in che modo la nuova disciplina inciderà sulla condotta dell’elettore, e, comunque, quale potrà essere davvero la forza rappresentativa della maggioranza di governo, specie nel caso in cui ad un eventuale ballottaggio dovesse partecipare una quota minima di aventi diritto.

In altri termini: la bontà o no di una legge elettorale si apprezza in concreto, a seconda dell’impatto prodotto sul sistema politico e sull’adesione degli elettori al dovere civico del voto. Sarebbe pertanto preferibile adire il giudice quando il meccanismo ha già operato, ponendo in evidenza i suoi limiti, e persino i suoi costi a carico del gioco democratico. Ciò, del resto, ben si coniuga alla concretezza del giudizio incidentale, il cui merito rispetto al ricorso in via principale resta anche quello di cadere su norme già riempite di contenuto, piuttosto che su astratte disposizioni ancora prive di vita.

Ciò detto, resta ovviamente inevitabile che il giudice risponda ad una immediata azione di accertamento, benché sia reale il pericolo che in tal modo la Corte non sia ancora in grado di soppesare davvero gli effetti cagionati dalla legge elettorale impugnata.

Quest’ultima, come è ampiamente noto, e in estrema sintesi, si caratterizza per il forte correttivo apposto al meccanismo proporzionale, posto che la lista vincente, che abbia raggiunto il 40% dei consensi, ottiene un cospicuo surplus di seggi, che la trasformano in maggioranza. Ove la soglia non sia stata conseguita, si procede al ballottaggio tra i due partiti più votati, all’esito del quale il medesimo premio viene assegnato al vincitore. Opera, inoltre, in danno delle formazioni minori, una clausola di sbarramento del 3%.

Quanto appena detto, a proposito della opportunità di ponderare la costituzionalità della legge alla luce dei suoi concreti esiti applicativi, potrebbe allora avere il suo peso, se si pone lo sguardo ad una delle censure mosse dal Tribunale di Messina. Si ritiene di dubbia costituzionalità che il premio di maggioranza, in fase di primo scrutinio e di eventuale ballottaggio, operi con riferimento alle percentuali di voti espressi, senza tenere in conto il rapporto tra questi ultimi e gli aventi diritto al voto. In altri termini, viene denunciato uno svuotamento della componente rappresentativa della nostra democrazia, indotto dal fatto che una scarsa affluenza alle urne esalterebbe gli effetti distorsivi del premio di maggioranza.

Ora, in linea astratta (ed è appunto su questo versante che la Corte costituzionale finisce per essere inchiodata, a causa della pari astrattezza del quesito sottopostole) è evidente che su questa strada il cammino del dubbio di costituzionalità non sarà agevole. Le democrazie debbono infatti comunque funzionare, ed il doloroso, ma inevitabile costo di tale necessità è appunto che, perlomeno ai fini delle elezioni politiche, le maggioranze (alla cui formazione il premio elettorale di cui discutiamo è preposto) si formino sulla base dei voti validamente espressi, quale che sia la percentuale di astensionismo. In caso contrario, all’elettore che si sottrae al dovere civico del voto viene offerta un’arma che eccede i limiti costituzionali del diritto al dissenso, poiché si presta, se la scelta è ampiamente condivisa, a paralizzare il libero gioco democratico. Una sorta di facoltà di recesso dallo Stato democratico, capace di mutare la predominanza di una maggioranza artefatta e limitata, ma che comunque si esprime, nell’ancor più sinistra dittatura di una minoranza qualificata, che preferisce tacere.

Questi argomenti sono parzialmente estensibili allo stesso premio di maggioranza (in quanto finalizzato ad assicurare la governabilità), sia pure in forma attenuata, e paiono dunque insuperabili con riferimento al primo turno di voto (investito, invece, dal dubbio di costituzionalità del Tribunale siciliano), perché il sistema proporzionale dovrebbe offrire in ogni caso la più ampia scelta al corpo elettorale, scremando l’astensione, non priva di tratti meritevoli, di chi rifiuta consapevolmente l’offerta politica che è sul tavolo, da quella di chi invece, per ignavia, rinnega il suo status di cittadino.

Nell’eventuale ballottaggio, le cose sono un poco diverse, perché l’elettore è obbligato, se intende prendere parte al rito, a scegliere tra due sole liste, che non necessariamente hanno ottenuto larghi consensi al primo turno. È chiaro che se l’affluenza alle urne fosse alta, tale ultima circostanza non sarebbe dirimente, perché verrebbe recuperata un’investitura rappresentativa, per così dire, di seconda scelta, ma pur sempre imputabile alla maggioranza del corpo elettorale. Ci è stato insegnato dai politologi e ne abbiamo dovuto spesso prendere atto con amarezza: nelle classiche democrazie occidentali è meno raro votare contro chi ci è estraneo, che non a favore di chi ci è sodale.

Ma se, al contrario, al ballottaggio prendesse parte una percentuale davvero esigua di aventi diritto, il problema, pur nella sua complessa e non univoca soluzione, non potrebbe non essere avvertito, anche sul piano della legittimità costituzionale di un meccanismo che ammette allo scrutinio decisivo, per rendere maggioranza una di queste, le due prime liste, quale che ne sia il consenso guadagnato al primo turno, e dunque anche nell’ipotesi che esse siano debolmente rappresentative.

Naturalmente, siamo nel campo delle ipotesi, e dunque non si può non tornare a quanto prima osservato: la costituzionalità di una legge elettorale la si può e la si deve apprezzare, di regola, quando si è compreso che cosa essa davvero comporta. Il che potrebbe valere come un buon argomento, affinché non venga chiuso dalla Corte il canale di accesso incidentale aperto dalla sentenza n. 1 del 2014, e oramai posto sotto scacco dall’introduzione, nella riforma costituzionale, della via del ricorso diretto. Solo il primo, infatti, sfugge a termini perentori di proposizione, e permette di arrivare ad un giudizio di costituzionalità pienamente avvertito sulla natura della normativa impugnata.

Qui, argomenti giuridici e politici si intrecciano. Una democrazia che funziona solo perché ben oliata da una minoranza aggressiva, agendo invece in modo parassitario nei confronti di chi ne viene emarginato, e condotto sulla via del silenzio, a chi scrive non piace, e pare difficilmente compatibile con il modello arendtiano di vita activa, cui guarda la nostra Costituzione. Ma, certamente, essa ha i suoi estimatori sulla scia di una tradizione conservatrice ben familiare al nostro Paese, che, originandosi da Mosca e Pareto, trova nuova linfa attraverso la celebrazione anglosassone dell’apatia politica quale virtù precipua delle democrazie del consenso, ove “la convinzione che un alto livello di partecipazione sia sempre una cosa buona per la democrazia non è valida” (S. M. Lipset 1960, L’uomo e la politica. ed. it. 1963). Tale convinzione, invece, sembra sempre valida per la Costituzione repubblicana, e di ciò farebbero bene a ricordarsi coloro che forse confidano di trarre profitto dalla disaffezione degli elettori. Oltre un certo limite, non si può escludere che essa possa convertirsi in un vizio di costituzionalità della nuova legge elettorale.

 

3. La questione di costituzionalità principale sollevata dal giudice a quo coinvolge la lesione dei “principi della rappresentanza democratica”, dovuta: a) alla già rammentata ininfluenza, ai fini del premio di maggioranza, della percentuale dei partecipanti al voto tra gli aventi diritto, sia al primo turno, sia al ballottaggio; b) alla clausola di sbarramento fissata al 3%. È però curioso che il rimettente censuri, nella sostanza, l’effetto congiunto di tali previsioni, che, viceversa, il Tribunale giudica esenti da dubbi di legittimità se assunte in considerazione isolatamente.

Sia l’attribuzione del premio di maggioranza subordinata al conseguimento del 40% dei consensi al primo turno, sia lo sbarramento obbedirebbero “ad alti tassi di discrezionalità ed opportunità politica”, incensurabili in sede di sindacato di costituzionalità. La distorsione della rappresentanza deriverebbe, perciò, dalla sinergia tra tali fattori.

Bisogna dire, pur senza prendere posizione sull’ammissibilità o no del quesito, che non è questo il modo migliore per proporre una questione di legittimità costituzionale, specie nei casi in cui la legge elettorale non ha ancora trovato applicazione. La Corte necessita della individuazione specifica di norme di per sé viziate, mentre qui dovrebbe affidarsi ad un giudizio prognostico, peraltro altamente inaffidabile, in ordine all’ipotetico effetto di illegittimità costituzionale derivante in concreto dalla combinazione di istituti, che lo stesso rimettente reputa in sé conformi a Costituzione.

In questa prospettiva, il Tribunale ha forse rinunciato troppo in fretta a coltivare dubbi che (a prescindere da quanto ne pensa, nel merito, chi scrive) non possono liquidarsi come del tutto pretestuosi. È infatti discusso se la sentenza n. 1 del 2014 abbia colpito la legge elettorale n. 270 del 2005 in quanto essa, contraddittoriamente, abbracciava un sistema proporzionale e poi lo rinnegava attribuendo il premio di maggioranza quale che fosse stato il consenso della coalizione vincente (si otteneva la governabilità, ma a prezzo dell’integrale sacrificio della rappresentatività) o se, piuttosto, il giudice costituzionale abbia voluto formulare un giudizio di necessaria correlazione, sia pure corretta, tra peso dei voti in entrata e peso di quelli in uscita.

L’ingrediente proporzionalistico, in quest’ultima ipotesi, avrebbe un suo zoccolo duro con cui confrontare l’effetto distorsivo del premio di maggioranza. Prima ancora, ci si potrebbe chiedere se tale effetto, al di là della sua dimensione quantitativa, possa giustificarsi qualitativamente, quando i seggi ottenuti grazie al premio non si limitano a rafforzare una maggioranza già uscita dalle urne (secondo il modello della cd. legge truffa del 1953), ma più radicalmente a trasformare in tale una minoranza.

Vi sarebbe perciò stato uno spazio per aggredire in sé il premio di maggioranza previsto al primo turno, e forse anche per chiedersi se l’effetto utile del ballottaggio non debba accompagnarsi ad una previsione concernente una soglia minima di partecipanti ad esso.

Quanto, poi, alla clausola di sbarramento, è lecito domandarsi se essa si armonizzi con una formula elettorale che già in sé garantisce una forte governabilità alla lista vincente, e dunque con un contesto in cui sembrerebbe opportuno piuttosto recuperare spazi di rappresentatività, anziché chiuderne di ulteriori. È vero che la sentenza n. 193 del 2015 della Corte costituzionale, come pone in rilievo lo stesso rimettente, ha già sottolineato che clausole analoghe valgono altresì ad evitare la frammentazione delle forze di opposizione, e ricadono nella sfera della discrezionalità legislativa. Ma, in quel precedente, si trattava pur sempre di elezioni regionali, ove la forma di governo prescelta dallo statuto permetteva di collegare l’operatività dello sbarramento ai consensi ottenuti dal candidato Presidente della Giunta (venivano ammesse al riparto dei seggi le liste che avessero ottenuto meno del 3% dei voti, solo a condizione che fossero collegate ad un candidato premiato da almeno il 5% dei consensi).

Non è detto che le medesime considerazioni siano spendibili, nell’ambito di una forma di governo parlamentare, e al fine di eleggere l’organo insignito del più elevato grado di rappresentatività democratica.

Su tutti questi profili, non mancano certo alla Corte costituzionale argomenti per concludere nel senso della infondatezza, ma sarebbe forse preferibile sollecitare in ogni caso un pronunciamento del giudice delle leggi.

 

4. La seconda questione di maggior importanza sollevata dal Tribunale di Messina concerne il regime parzialmente bloccato delle liste, ove al voto di preferenza sono sottratti appunto i capilista. Anche su questo punto, il giudice a quo mostra talune incertezze, poiché non esclude che “le norme potrebbero considerarsi coerenti” con la Costituzione, ma ugualmente (e con scarna motivazione) denuncia un “effetto distorsivo dovuto alla rappresentanza parlamentare largamente dominata da capilista bloccati”, come se il problema attingesse alla dinamica interna al partito politico (che liberamente sceglie a chi affidarsi in Parlamento), anziché consistere nella privazione, in capo all’elettore e sia pure parzialmente, del voto di preferenza.

Ancora una volta, la sentenza n. 1 del 2014 si presta a letture alternative. Essa ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale delle liste bloccate, tenendo conto che esse riguardavano la “totalità dei parlamentari eletti”, di cui, a causa della ampiezza del collegio elettorale, non era neppure assicurata la conoscibilità da parte dei votanti. Al contempo, non manca una certa enfasi sulla libertà di scelta “dei propri rappresentanti”. Da qui il seguente dubbio interpretativo.

La Costituzione attribuisce al cittadino il diritto di scegliere il proprio rappresentante, (e dunque, in un sistema proporzionale, la pretesa che la Camera sia costituita sulla sola base delle preferenze espresse per i singoli), o piuttosto di conoscere i candidati che, sempre nell’ambito di un meccanismo proporzionale, appartengono alla lista prescelta, con la conseguenza che, votando per quest’ultima, se ne accettano i componenti?

Il precedente della nostra Corte costituzionale, ancora una volta a prescindere da quanto ne pensi chi scrive, non risolve univocamente questo dilemma, che in quanto tale avrebbe potuto divenire oggetto di una più chiara e netta questione di legittimità costituzionale.

 

5. Resta ora da vedere come si comporteranno gli altri giudici investiti di ricorsi analoghi a quelli presentati avanti al Tribunale di Messina. E resta da capire quale effetto sul tasso di democraticità del nostro ordinamento possa provocare una legge elettorale particolarmente sensibile alle esigenze della governabilità, in una con una revisione costituzionale di matrice non differente. Ma questo è già un altro capitolo.

 

29/02/2016
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