Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

La Corte di cassazione e l’assegno divorzile

di Isabella Mariani
giudice della Corte d'appello di Firenze
Prime riflessioni sulla sentenza n. 11504/ 2017 della I sezione civile della Cassazione. Il revirement in tema di riconoscimento dell’assegno divorzile: da mantenimento del pregresso tenore di vita alla autosufficienza dei propri mezzi

La sentenza n. 11504 del 2017: sintesi dei passaggi motivazionali

La pronuncia della S. C. che ridisegna i presupposti di “an” del riconoscimento dell’assegno divorzile si snoda nei seguenti passaggi:

- il divorzio estingue il rapporto matrimoniale sia in relazione allo status delle persone (che (ri)diventano “persone singole“), sia in relazione ai rapporti economico- patrimoniali, dettati in costanza di matrimonio dall’art. 143 cc che stabilisce “l’obbligo di assistenza morale e materiale”;

- sopravvive dopo il divorzio il diritto all’assegno divorzile nei limiti segnati dall’art. 5, comma 6 l. 898/70, il cui fondamento costituzionale è dato dagli artt. 2 e 23, nel senso che la doverosità della prestazione ex art. 23 si giustifica sulla base della “solidarietà post coniugale” di cui all’art. 2, che incombe sul singolo ex coniuge in favore dell’altro (ex) membro della coppia laddove economicamente più debole;

- il riconoscimento dell’assegno, la cui funzione quindi è esclusivamente “assistenziale” si svolge in due momenti, il primo attinente all’“an” che se, e solo se, dà esito positivo confluisce nella quantificazione: il solo rapporto matrimoniale non è sufficiente per la integrazione dell’“an”; in termini processual-civilistici, i fatti costitutivi sono quindi due, il preesistente rapporto matrimoniale e lo stato di non autosufficienza e indipendenza economica;

- deve quindi essere valutato il secondo presupposto per dargli concretezza oggettiva: cosa si intende per “mezzi adeguati e impossibilità di procurarseli” ed in relazione a quale parametro esso deve essere giudicato: l’onere probatorio del fatto costitutivo incombe sul richiedente;

- il parametro alla stregua del quale valutare la sussistenza della inadeguatezza dei mezzi e della incapacità a procurarseli non può più essere il tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, parametro che dopo 27 anni dalla sua enunciazione non può più ritenersi attuale (per le ragioni che si esporranno nel secondo paragrafo);

- deve quindi essere individuato un nuovo parametro di riferimento che consiste nella non indipendenza economica del soggetto richiedente, correlato inoltre al principio della autoresponsabilità.

- La indipendenza (autosufficienza) economica andrà valutata sulla base di indici che vengono specificati: il possesso di redditi e cespiti; la disponibilità di casa coniugale; la capacità e/o l’effettivo svolgimento di attività lavorativa.

Il revirement

Consapevolmente quindi la Cassazione si discosta dal parametro che sino ad oggi ha costituto riferimento nelle pronunce di merito, a tenore del quale la debenza dell’assegno divorzile si parametra(va) sul mantenimento dello stesso stile di vita tenuto in costanza di matrimonio.

Si veda per tutte la recente ordinanza della VI sezione civile della Cassazione (n. 19339/2016) che ha respinto la questione di legittimità costituzionale attinente la costante interpretazione del citato art. 5, comma 6 legge sul divorzio, citando la sentenza della Corte Cost. n. 11/2015, (ripresa anche nella sentenza che si commenta), riaffermando il (sino ad allora) consolidato principio di diritto secondo il quale «l'accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione del tenore di vita precedente. A tal fine, il giudice del merito può tenere conto della situazione reddituale e patrimoniale della famiglia al momento della cessazione della convivenza, quale elemento induttivo da cui desumere, in via presuntiva, il precedente tenore di vita e può, in particolare, in mancanza di prova da parte del richiedente, fare riferimento, quale parametro di valutazione del pregresso stile di vita, alla documentazione attestante i redditi dell'onerato. (Cass. Sezione I n. 6221 del 7 aprile 2006 e n. 13169 del 16 luglio 2004»).

Il fatto costitutivo da provare non è più quindi la circostanza che l’ex coniuge richiedente l’assegno non possa mantenere il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma che non sia economicamente autosufficiente secondo indici dettati dalla stessa Cassazione.

La giustificazione normativa si fonda su ragioni che riassuntivamente si colgono nella natura definitivamente dissolutoria del divorzio rispetto al rapporto matrimoniale (che determina il venire meno della coppia sostituita da due singoli individui), che contrasta con una ultrattività degli effetti del matrimonio; lo stesso art. 5, 6 comma considera il rapporto matrimoniale solo nella eventuale fase della determinazione dell’importo; l’evoluzione del costume sociale comporta che la esigenza garantita dalla previgente impostazione interpretativa risponde ad un modello tradizionale di matrimonio non più attuale. Infine anche i lavori preparatori della legge del 1987 erano chiari nel porre l’accento non sulla valutazione della posizione economica del soggetto pagante, ma sulle effettive necessità del creditore

Il commento

Una prima sommaria riflessione sposa con favore la interpretazione fatta propria dalla Prima sezione civile della Cassazione.

Il giudice di merito deve infatti anche affrontare situazioni che palesemente comportano la creazione di rendite di posizione, stridenti con una evoluzione del costume sociale (sottolineata dalla stessa Corte) e con la raggiunta pari dignità tra soggetti della coppia, che deve essere riaffermata anche contra se, che inevitabilmente comporta la affermazione che qualora vi sia autosufficienza economica, nulla possa pretendersi quando il matrimonio si sia dissolto, e con esso la comunione anche economica.

La operazione ermeneutica compiuta dalla Corte altro non è che una interpretazione adeguata alla mutata realtà della società, così come la sentenza S. U. n. 11490/1990 (anch’essa citata in motivazione) che rifiutava consapevolmente l’indirizzo ora seguito, per la esistenza allora di plurime realtà matrimoniali, tra le quali non potevano dirsi prevalenti realtà di pari autonomia e dignità.

Premessa quindi una prima valutazione positiva, occorre però anche dare conto di dubbi che la decisione può suscitare in relazione a fattispecie diverse da quelle oggetto della specifica decisione.

Il passaggio motivazionale che fonda la pronuncia – doversi ritenere che la adeguatezza dei mezzi si parametri sulla autosufficienza economica – alla stregua di quanto le S.U. sopra citate rifiutavano («Il punto di partenza, in altri termini, non può limitarsi ad offrire all'ex coniuge un livello di vita sufficiente ad assicurargli un'esistenza economicamente autonoma, libera e dignitosa ed a consentirgli la possibilità di realizzare la propria personalità secondo le capacità ed attitudini personali, perché tale opzione avrebbe dovuto essere basata su una normativa intesa soltanto a permettere il reinserimento del coniuge economicamente più debole nella vita di relazione, di cui non vi è traccia nel dato normativo, presentandosi essa come sovrapposizione ideologica suggerita anche dal confronto con altri, diversi tipi di legislazione») – e non più al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, se fornisce la corretta risposta a fattispecie ricorrenti di matrimonio fra persone anche redditualmente omogenee e comunque autosufficienti, rischia di ledere i diritti del soggetto che ha posposto la propria dimensione individuale alla cura della famiglia. Il relegare (oggi come prima) i criteri di cui all’incipit del comma 6 (e particolarmente per quanto qui interessa il criterio del contributo personale ed economico alla conduzione familiare e alla formazione del reddito comune e di ciascuno) alla fase solo eventuale di quantificazione dell’assegno, ritenendo titolare del diritto all’assegno solo chi non è in grado di soddisfare i propri bisogni autonomamente, misconosce realtà familiari nelle quali la cura domestica è consapevolmente affidata per la maggior parte alla donna con sacrificio del suo ruolo esterno. Ciò che ancora di più si presenterà nel futuro, data la crisi nel mercato del lavoro, soprattutto giovanile, e la sempre marcata differenza tra occupazione femminile (tra i 16 e i 18 punti percentuali nel 2014; dati Eurostat) e occupazione maschile.

Occorre quindi farsi carico di tali diverse situazioni, ancora esistenti nella nostra società nella quale la cura della casa e della famiglia è culturalmente affidata prevalentemente al genere femminile, onde non consentire un arretramento sul fronte della tutela della donna, rischiando di gettare il bambino insieme all’acqua sporca.

La riflessione che precede, comporta come conseguenza anche la necessità di ripensare, correlatamente alla modifica interpretativa proposta dalla Prima sezione, la rivisitazione del tema degli accordi prematrimoniali, sino ad ora ritenuti illeciti dalla S.C. per contrasto con il principio di indisponibilità dei diritti sorgenti dal matrimonio di cui all’art. 160 cc (v. da ultimo Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 2017, n. 2224[1]; contra, Cass. civ. Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23713[2]) alla luce della natura potestativa del diritto di azione per l’accertamento della separazione o del divorzio che potrebbe limitare la portata oggettiva dell’art. 160 cc alla sola fase fisiologica e non patologica del rapporto.

Né possono essere escluse conseguenze dall’indirizzo della Prima sezione, se verrà confermato, sulla determinazione dell’assegno di separazione (fino a che permarrà questa assurda bifasicità). La brevità del tempo che deve ora intercorrere tra separazione e divorzio (art. 3, II comma, l. 898/70 come modificato dalla l. 55/2015) non potrà non giustificare una osmosi tra la qualificazione dell’assegno di separazione e quello di divorzio e correlatamente comportare un’accentuazione della litigiosità nella prima fase.

Conclusivamente quindi, se certamente la pronuncia in oggetto consente di decidere diversamente situazioni che sino ad oggi si concludevano con risultati percepiti anche dal giudicante come impropri e sostanzialmente ingiusti, correlatamente apre la porta a nuovi problemi che andranno affrontati caso per caso con attenzione alla fattispecie concreta alla luce dei principi che si sono sino a qui costruiti.



[1] Così in motivazione: «L'orientamento di questa Corte secondo cui gli accordi preventivi aventi ad oggetto l'assegno di divorzio sono affetti da nullità. È stato infatti affermato che “gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall'art. 160 cc. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810). È stato altresì precisato che “gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all'assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 8, nel testo di cui alla L. n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell'assegno divorzile può avvenire in un'unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico –, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius”, non possono implicare rinuncia all'assegno di divorzio» (Cass., 10 marzo 2006, n. 5302; v. anche Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064; Cass., 11 giugno 1981, n. 3777).

[2] Così in motivazione: «Come è noto, la giurisprudenza è orientata a ritenere tali accordi, assunti prima del matrimonio o magari in sede di separazione consensuale, e in vista del futuro divorzio, nulli per illiceità della causa, perché in contrasto con ì principi di indisponibilità degli status e dello stesso assegno di divorzio (per tutte, Cass. n. 6857 del 1992). Tale orientamento è criticato da parte della dottrina, in quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non solo i principi del diritto di famiglia, ma la stessa evoluzione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici, anche successivi alla crisi coniugale. (È assai singolare che invece siano stati ritenuti validi accordi in vista di una dichiarazione di nullità del matrimonio, perché sarebbero correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie, volto ad accertare l'esistenza o meno di una causa di invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di disposizione degli status: tra le altre, Cass. n. 348 del 1993).

Giurisprudenza più recente di questa Corte ha invece sostenuto che tali accordi non sarebbero di per sé contrari all'ordine pubblico: più specificamente il principio dell'indisponibilità preventiva dell'assegno di divorzio dovrebbe rinvenirsi nella tutela del coniuge economicamente più debole, e l'azione di nullità (relativa) sarebbe proponibile soltanto da questo (al riguardo, tra le altre, Cass. n. 8109 del 2000; n. 2492 del 2001; n. 5302/2006)».

19/06/2017
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