Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

L’International Criminal Court e l’ipocrisia della comunità internazionale

di Filippo Aragona
giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria
La giustizia penale internazionale è ormai paralizzata da comportamenti protervi che danno luogo ad una politica del double standard: la Corte penale internazionale è supportata se si occupa di Stati sottosviluppati e deboli, mentre è boicottata se avvia indagini su crimini di guerra e contro l’umanità commessi da cittadini di Stati potenti e ricchi

Nell’ottobre 2018 il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scagliato anatemi contro l’International Criminal Court (ICC)minacciando un taglio dei contributi finanziari e addirittura ritorsioni nei confronti dei singoli giudici e pubblici ministeri che la compongono (divieto di ingresso negli Usa e sequestro dei loro conti bancari nel Paese).

Questo spirito vendicativo è stato generato dalla richiesta di avvio di una investigazione da parte dell’ICC Prosecutor Fatou Bensouda, a seguito di una preliminary examinations, finalizzata adimostrare che nei centri di reclusione in Afghanistan i militari dell’esercito Usa e gli agenti della Cia dal maggio 2003 si sono resi responsabili dei crimini di tortura e violenza sessuale nei confronti dei detenuti.

Il 5 aprile 2019 l’amministrazione Trump è passata dalle minacce ai fatti e ha revocato il visto di ingresso negli Usa a Fatou Bensouda, consentendole di entrare in quel Paese solo per partecipare alle riunioni delle Nazioni Unite a New York (in quanto in tale circostanza sarebbe considerata protetta da immunità diplomatica).

Il 12 aprile 2019 la Pre-Trial Chamber dell’ICC ha rigettato la richiesta di apertura della investigazione con una decisione che ha suscitato alcune reazioni critiche. La Corte, pur riconoscendo che la richiesta fosse basata su elementi sufficienti per ritenere che i crimini oggetto di indagine ricadevano sotto la sua giurisdizione, ha negato l’autorizzazione ad avviare le indagini a causa del tempo trascorso dai fatti, del mutamento dello scenario politico in Afghanistan e della mancanza di cooperazione da parte degli Stati coinvolti, concludendo che condurre una investigazione in questa situazione non sarebbe conforme agli interessi della giustizia (an investigation into the situation in Afghanistan at this stage would not serve the interests of justice).

Human Rights Watch, soffermandosi sull’aspetto relativo alla assenza di cooperazione, ha evidenziato che, a seguito di questa decisione, in futuro potrebbe essere più difficoltoso accertare crimini di guerra e contro l’umanità e tutelare le vittime di tali delitti, in quanto potrebbe essere sufficiente il rifiuto di collaborazione per l’accertamento dei fatti da parte degli Stati coinvolti per impedire alla Corte di esercitare le proprie funzioni (the judges’ logic effectively allows states to opt-out on their obligation to cooperate with the court’s investigation. This sends a dangerous message to perpetrators that they can put themselves beyond the reach of the law just by being uncooperative).

La questione appena illustrata pone due problemi, uno di ordine tecnico giuridico e un altro di carattere più ampio che riguarda i fondamenti delle democrazie moderne.

La questione tecnica è relativa alla competenza della ICC.

L’articolo 12 dello statuto istitutivo stabilisce che l’ICC può esercitare la propria competenza solo sui crimini commessi sui territori degli Stati aderenti allo statuto oppure quando l’autore del reato appartenga ad uno Stato aderente allo statuto. Tuttavia, se i fatti sono commessi in uno Stato non membro della Corte da militari di un altro Stato non membro, la giurisdizione della Corte può trovare comunque fondamento in una decisione dell’UN SecurityCouncil (come è avvenuto nel caso dei crimini commessi in Darfur, per i quali i poteri dell’ICC sono stati attivati grazie ad una risoluzione dell’Onu).

Nel caso specifico, la competenza della Corte è stata esercitata per i crimini di guerra o contro l’umanità commessi in Afghanistan in quanto questo è uno Stato membro dell’ICC. Tuttavia gli Stati Uniti avevano contestato il fatto che l’investigazione non era stata richiesta dall’Afghanistan quale stato membro della Corte ma era stata avviata d’ufficio dall’ICC Prosecutor. In merito, si osserva che nessuna norma impedisce a questo di iniziare un’investigazione motu proprio, pertanto le obiezioni degli Usa erano prive di fondamento. In particolare, il Public Prosecutor presso l’ICC può avviare indagini in relazione ad un crimine internazionale su segnalazione di uno Stato parte o dell’UN SecurityCouncil oppure motu proprio mediante una preliminary examination. In quest’ultimo caso, l’articolo 15 dello Statuto prevede un meccanismo di controllo sull’azione del Public Prosecutor, consistente in un’udienza filtro davanti alla Pre-Trial Chamber dell’ICC in cui viene deciso se sussistano gli elementi per autorizzare l’investigazione formale dopo la preliminary examination (cosa che nel caso in esame è avvenuta con una decisione di rigetto, come si è visto).

Contemporaneamente a questa protesta scomposta e rivelatrice di un’arroganza estrema nei confronti di un organo sovranazionale, è stata avanzata dagli Usa una critica (anch’essa totalmente infondata) nei confronti dell’ICC per un’altra preliminary examination avviata nei confronti di militari israeliani per presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi nei territori di Gaza e del West Bank. Anche in tal caso si è posto un problema di competenza della Corte in quanto né Israele né la Palestina erano, al tempo dei fatti, membri dell’ICC, problema superato con l’adesione della Palestina allo Statuto istitutivo della Corte [1]. In tale occasione gli Usa hanno reagito in modo aggressivo nei confronti dei giudici della Corte e nei confronti della Palestina (che aveva deferito i comportamenti dei militari israeliani all’ICC Prosecutor) mediante la chiusura della rappresentanza diplomatica palestinese a Washington.

Per proteggere i propri cittadini dai poteri investigativi e giurisdizionali dell’ICC, l’amministrazione Trump sta anche intensificando le relazioni diplomatiche con gli Stati membri della Corte per giungere ad accordi affinché tali Stati si impegnino a non deferire alla Corte i cittadini statunitensi.

Liz Evenson, direttore del Dipartimento per la giustizia internazionale di Human Rights Watch, ha commentato questa presa di posizione affermando che gli Usa preferiscono tutelare i loro interessi nazionali piuttosto che quelli delle vittime di atroci delitti.

Ormai gli atti di resistenza contro il pieno esercizio delle funzioni dell’ICC sono molteplici e provengono soprattutto dalle grandi potenze politiche e militari, le quali non hanno mai accettato una giurisdizione superiore (si rammenta che Usa, Russia, India, Cina e Israele non aderiscono allo Statuto dell’ICC, i cui Stati membri sono attualmente 123). Gli Usa hanno infatti dichiarato in più occasioni che l’ICC rappresenta una minaccia per la sovranità nazionale e che essi non riconoscono nessuna autorità al di sopra della propria Costituzione. Quando Omar Al Bashir, Capo di Stato del Sudan, ricercato dall’ICC per crimini di guerra e contro l’umanità, ha visitato il Sud Africa nel 2015 non è stato consegnato all’ICC, nonostante l’obbligo di tutti gli Stati membri di cooperare con la Corte. Lo stesso è accaduto durante la visita in Giordania nel marzo 2017. In Siria sono stati commessi recentemente crimini di guerra e contro l’umanità dalle forze armate russe, ma essi non sono stati mai perseguiti. In tal caso sarebbe stato necessario l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per attivare i poteri della ICC (in quanto Russia e Siria non sono Stati membri della Corte), ma ciò non è avvenuto a causa del potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza. Negli anni 2015-2018 nello Yemen (che non è membro della Corte) sono stati commessi crimini dai militari dell’Arabia Saudita (che non è membro della Corte), che non sono stati mai perseguiti grazie all’influenza di quest’ultimo Paese sul piano internazionale.

A fronte di tale atteggiamento ostile da parte delle maggiori potenze mondiali nei confronti dell’ICC, finalizzato solo a proteggere i propri interessi economici e politici, i Paesi africani hanno lamentato che finora l’ICC ha condotto processi solo nei confronti di esponenti di governi africani, definendolo uno strumento nelle mani dei Paesi occidentali per condizionare e controllare quegli Stati ed imporre la loro egemonia su quel continente. Per tali ragioni, il Burundi ha già esercitato il diritto di recesso dallo Statuto della Corte e gli Stati dell’African Union hanno approvato una mozione (non vincolante) che prevede il ritiro in massa dalla Corte.

Questi tentativi di ridurre la Corte ad un’anatra zoppa implicano, come già anticipato, questioni più generali concernenti l’essenza delle democrazie moderne.

Si deve rammentare che l’ICC (istituita con il Trattato di Roma del 17 luglio 1998 ed entrata in funzione il 1° luglio 2002) ha contribuito a determinare una svolta nella concezione e nell’attuazione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo, in quanto con essa (così come in passato era avvenuto con la European Court for Human Rights) si è sviluppata ulteriormente la tendenza ad affrontare il delicato settore dei diritti dell’uomo dal punto di vista della loro effettività, piuttosto che da quello della loro enunciazione formale o del loro fondamento giuridico.

Nella storia contemporanea si è assistito ad una serie infinita di proclamazioni dei diritti fondamentali dell’uomo, le quali, però, non sempre hanno trovato uno sbocco in un sistema di law enforcement che ne consentisse l’effectiveness e la piena tutela.

Basta ricordare, al riguardo, la Declaration of the rights of man and of the citizen del 1789 e la quasi contemporanea Declaration of Independence of the United States of America del 1776 per comprendere come alle solenni dichiarazioni non sempre è seguita l’attuazione dei diritti enunciati. Infatti, nonostante le altisonanti manifestazioni di intenti, la tratta di esseri umani da parte degli Stati finalizzata alla loro riduzione in schiavitù e al loro sfruttamento economico è proseguita ancora per un secolo e nell’Europa nel XX secolo si sono sviluppate cruente dittature che hanno scatenato genocidi e stermini di massa.

Sulla scia delle esperienze dei Tribunali Penali Internazionali ad hoc (International Military Tribunals in Nuremberg and Tokyo; International Military Tribunals for Far East; Sierra Leone Special Court; East Timor Special Panels; Cambodia Extraordinary Chambers; Iraqi Special Tribunal for Crimes Against Humanity; International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia and Rwanda), l’International Criminal Court (ICC), quale organo giudiziario permanente, ha rappresentato una occasione importante per strutturare in maniera stabile ed equilibrata il sistema internazionale di tutela dei diritti umani, perfezionandolo in modo da assicurare l’effettività di tale tutela senza invadere la sovranità nazionale dei singoli Stati. Infatti tale sistema è fondato sul principio di sussidiarietà, con la conseguenza che l’ICC svolge le sue funzioni solo quando i singoli Stati competenti per l’accertamento dei crimini internazionali non intendano procedere nei confronti dei presunti colpevoli oppure quando, nonostante lo Stato competente abbia avviato un’indagine nei confronti dei presunti colpevoli, il procedimento penale non si sia concluso a causa della incapacità delle Autorità statali di portarlo a compimento. L’esercizio delle funzioni della ICC, dunque, si fonda su due elementi alternativi tra loro: unwillingness (riluttanza) oppure inability (incapacità) degli Stati (i quali spesso sono gli Enti nel cui interesse l’autore dei crimini agisce) di accertare i fatti.

In tale cornice, è evidente che i tentativi di indebolire l’ICC da parte delle potenze mondiali mettono a serio rischio secoli di conquiste sul piano dei diritti umani, con conseguenti pericoli per la stabilità delle democrazie moderne nate proprio per tutelare quei diritti.

Questi comportamenti così retrivi, uniti all’ascesa di governi autoritari, razzisti e nazionalisti (definiti efficacemente dalla stampa internazionale con gli aggettivi inward-looking, nativist and populist), determinano, da un lato, la proliferazione dei particolarismi (ossia di ciò che è opposto alla universalità dei diritti umani e che mira a proteggere solo gli interessi di pochi), dall’altro lato, denotano la ciclica riemersione dell’istinto naturale di sopraffare i più deboli da parte dei più prepotenti con conseguente rifiuto di organi superindividuali delegati per la tutela dei diritti e delle libertà di tutti.

Per comprendere ciò che accade oggi si può tentare una lettura retrospettiva di questi fatti, risalendo ai tempi della Atene di Platone (IV secolo a.C.), quando la città è stata vista dal filosofo come avvolta in un “giorno notturno” a causa delle lotte per il potere da cui era tormentata, con problematiche politico-sociali pressoché identiche a quelle attuali. In particolare, quando Platone ha scritto La Repubblica, ha immaginato la polis ateniese come una grande scacchiera in cui da un lato vi erano le persone molto ricche e dall’altro quelle molto povere. I 64 quadrati della scacchiera rappresentavano i centri di interessi particolari e tribali che determinavano aspri conflitti interni. Tale situazione, secondo Platone, avrebbe condotto ad una oligarchia oppure ad una democrazia demagogica, in cui masse di incompetenti avrebbero eletto governanti incompetenti interessati solo a conservare il proprio potere.

L’analisi di Platone si fondava sul concetto di pleonexia, ossia la spinta innata dell’uomo verso la prevaricazione del prossimo ed il dominio sull’ambiente circostante. Egli aveva messo in luce la pulsione primitiva dell’uomo di esercitare una violenta sopraffazione sugli altri per conquistare potere e ricchezza. Tuttavia, ha osservato il filosofo, visto che ogni essere umano non può sperare di esercitare la violenza sugli altri senza rischiare di doverne subire una addirittura maggiore, sono nate le prime comunità sulla base di un pactum societatis che consiste nella reciproca rinuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi, soprattutto quelle poste a tutela delle libertà fondamentali dei più deboli. Platone, però, aveva intuito che la rinuncia alla pleonexia era solo apparente, riguardava solo la superficie sociale ed era strumentale a persuadere il popolo della bontà dei progetti politici. In realtà, sotto tale superficie restava intatto l’istinto prevaricatore dell’uomo, con la conseguenza che la spinta verso il conseguimento di interessi particolari mediante la sopraffazione degli altri veniva esercitata, dietro lo schermo apparente dell’esibizione di virtù civiche, in ambienti e sottogruppi segreti (la cd. synousia, ossia la società segreta, che oggi definiremmo con il nome di massoneria, lobby, gruppo di potere, mafia).

Dopo migliaia di anni, la situazione descritta da Platone è immutata. Gli ambienti segreti nazionali e internazionali sono infatti i luoghi dove si stringono accordi per la cura degli interessi dei più potenti e dei più ricchi, mentre all’esterno le istituzioni pubbliche, spesso rappresentate ipocritamente proprio dagli stessi soggetti che si muovono nell’ombra e che usano la retorica e i sofismi per proclamare i valori democratici solo al fine di acquisire consenso, sono sempre più incapaci di soddisfare le esigenze collettive e di proteggere i più indifesi.

La reazione degli Usa carica di protervia nei confronti del legittimo intervento dell’ICC è sintomatica della vitalità di questi ambienti segreti, dove l’istinto di sopraffazione dell’uomo si manifesta in tutta la sua brutalità.

La giustizia penale internazionale, quindi, è ormai paralizzata da questi comportamenti prepotenti che danno luogo ad una politica del double standard: la Corte Penale Internazionale è supportata se si occupa di Stati sottosviluppati e deboli, mentre è boicottata se avvia indagini su crimini di guerra e contro l’umanità commessi da cittadini di Stati potenti e ricchi.

Per superare questa impasse occorrerebbe un movimento culturale neoilluminista che dia ai cittadini la forza morale necessaria per agire contro questi abusi ed il coraggio di combattere «tirannide, sofismi e ipocrisia» [2], mediante l’elezione di governanti open minded il cui orizzonte non sia quello chiuso dentro gli interessi e i confini nazionali, ma un orizzonte sconfinato che faccia percepire l’appartenenza di tutti all’umanità ed accettare i caratteri universali dei diritti umani e della giustizia.

 


[1] Sulla questione palestinese in relazione alla competenza dell’ICC si veda un mio articolo pubblicato su questa Rivista on-line: L'ultimo conflitto israelo-palestinese e l'indipendenza della International Criminal Court, 12 gennaio 2015, http://questionegiustizia.it/articolo/l-ultimo-conflitto-israelo-palestinese-e-l-indipendenza-della-international-criminal-court_12-01-2015.php.

[2] Tommaso Campanella: «Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi e ipocrisia»

26/04/2019
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