Magistratura democratica
Editoriali

“Il giudice e la legge”
L'editoriale del n. 4/2016

di Renato Rordorf
Presidente aggiunto della Corte di cassazione, direttore di Questione Giustizia
Al centro di questo numero il rapporto tra la legge ed il giudice chiamato ad applicarla

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Quello del rapporto tra la legge ed il giudice chiamato ad applicarla, tra il testo giuridico ed il suo interprete, è un tema antichissimo, e per molti versi fondamentale, che ha accompagnato nei secoli l’evolversi del pensiero giuridico riemergendo periodicamente all’attenzione per essere, di volta in volta, diversamente declinato a seconda dello spirito dei tempi. È un tema che evoca inevitabilmente domande appartenenti al campo della filosofia e della teoria generale del diritto, sollecita interrogativi sulla radice stessa del diritto e degli ordinamenti giuridici, sul come in questi si declina il concetto di giustizia, sul significato e sul ruolo dell’equità, e su molto altro ancora.

Tema antichissimo – si diceva – del quale si discute almeno dall’epoca della codificazione giustinianea, ma forse anche da molto prima, dal tempo delle dodici tavole, e che però da ultimo sembra esser tornato di bruciante attualità. Si moltiplicano gli articoli di riviste giuridiche, i saggi, le relazioni in convegni nei quali con diversi accenti ci si interroga – ora fiduciosi ora sgomenti – su ciò che da più parti è visto come un progressivo indebolirsi della tradizionale funzione legislativa e del potere che in essa si esprime, a fronte di un ampliamento dello spazio riservato alla creatività della giurisprudenza e, quindi, all’intervento del potere giudiziario. E da alcuni si parla perciò di «diritto giurisprudenziale», di «dottrina delle corti», di «crisi della fattispecie normativa», di «comunità interpretante», di «tramonto del mito del legislatore onnipotente», e così via. Ciò di cui si discute, a ben vedere, sono l’ubi consistam della giurisdizione ed il ruolo del giudice nella società democratica. È un dibattito alto, al quale hanno partecipato e tuttora partecipano alcune tra le voci più autorevoli della dottrina giuridica contemporanea, in Italia e fuori d’Italia, e del quale sempre più sovente si trova traccia anche in motivazioni di provvedimenti giurisdizionali (specialmente della Corte costituzionale e della Corte di cassazione), che non esitano ad esplicitare argomentazioni da cui traspare la chiara consapevolezza di una funzione tutt’altro che passiva del giudice chiamato ad interpretare ed applicare il diritto positivo lungo il delicato crinale in cui s’incrociano regole più o meno dettagliate e principi più o meno generali.

Era dunque opportuno dedicare a questo tema un numero monografico, nell’ambito delle pubblicazioni trimestrali di Questione giustizia; e ci è parso che fosse bene farlo non solo ospitando alcune di quelle autorevolissime voci dottrinali cui facevo sopra cenno, per cogliere appieno lo spessore delle questioni di cui si discute, ma anche cercando di comprendere, attraverso la riflessione di giudici e giuristi impegnati quotidianamente nella pratica giudiziaria, come e fino a qual punto la diversa declinazione di quel tema, dall’alto della sua complessità teorica, si riflette nella concreta e quotidiana realtà della giurisdizione. È ovvio che vi possano essere in proposito opinioni e sensibilità diverse, e non è escluso che la diversità almeno in parte dipenda anche dal punto di osservazione nel quale ciascuno si colloca, a seconda che siano messe a fuoco problematiche proprie del diritto e del processo civile o di quello penale, o del diritto del lavoro, oppure di quello amministrativo, o se si guardi alla giurisprudenza sovranazionale europea. Appunto perciò credo sia particolarmente utile esplorare il tema in ciascuno di tali differenti ambiti, come nelle pagine di questo numero della Rivista si è cercato di fare.

Nella sua lucida introduzione Andrea Natale disegna con estrema chiarezza il filo conduttore da cui sono legati i diversi contributi che animano questo numero della Rivista. Non è certo il caso che io vi sovrapponga mie personali considerazioni, le quali nulla di significativo potrebbero aggiungere ad un quadro già così ricco di spunti di riflessione.

Mi sia però consentita una sola, breve osservazione. Nei sistemi in cui vige il diritto scritto la regola giuridica posta dal legislatore per disciplinare una determinata fattispecie si presenta come un testo, che per esser applicato deve essere compreso; ma ogni comprensione implica un’interpretazione e quindi genera, quale che sia il testo da interpretare, un campo di tensione dialettica tra il dato oggettivo (il testo, appunto) e la percezione soggettiva che se ne abbia. Ciò accade in tutti i settori dell’agire e del pensiero umano, dall’arte teatrale, alla musica, alla religione, e via elencando. L’operazione interpretativa di un qualsiasi testo, considerato nella sua mera valenza semantica, è suscettibile sovente di molteplici varianti. Quando poi si tratta di un testo che esprime in termini generali ed astratti una regola legale, quasi sempre accade che soltanto nella sua concreta applicazione alla realtà economico-sociale di ciascuna situazione di vita quella regola disveli i molteplici e vari significati di cui è portatrice. Non diversamente si verifica (se mi si perdona il paragone forse un po’ ardito) per un testo musicale, che consta di segni grafici vergati sullo spartito il cui significato si esprime però appieno solamente nel momento esecutivo, quando le note si fanno concretamente suono; e chiunque abbia la minima dimestichezza col mondo della musica sa quanto possa variare l’interpretazione di un medesimo brano musicale a seconda della percezione e della sensibilità del musicista che lo esegue. Non è il caso di spingere oltre questo paragone, che ha evidentemente i suoi limiti. Quel che intendo sottolineare, pur senza indulgere alle estreme teorie di chi vorrebbe completamente esaurire il significato del testo legale nel suo momento applicativo, è come non debba certo stupire, e sia anzi da ritenere del tutto fisiologico, che anche l’interpretazione della regola giuridica posta dal legislatore risulti sovente suscettibile di interpretazioni diverse (a propria volta suscettibili di essere criticamente valutate). Nell’interpretazione di un testo legale, finalizzata alla sua applicazione al caso concreto, si esplica perciò sempre, o almeno assai sovente, una funzione che, almeno in qualche misura, può esser considerata creativa. È però questione di limiti e di misura.

L’atteggiamento ora più ora meno favorevole ad una maggior latitudine del potere interpretativo dei giudici è stato in realtà sempre condizionato – come già accennavo – alle peculiarità delle fasi storiche ed alle contingenti esigenze di reagire a situazioni avvertite in un determinato momento come non più tollerabili. Emmanuel de Las Cases, nel suo celebre Memoriale di Sant’Elena, riferisce di Napoleone in esilio il quale soleva dirgli che, appena avuto notizia dei commentari e delle interpretazioni fiorite all’indomani dell’emanazione del Codice civile, non si era trattenuto dall’esclamare: Eh! Messieurs, nous avons nettoyé l'écurie d'Augias, pour Dieu ne l'encombrons pas de nouveau” (Ah! Signori, abbiamo ripulito le stalle di Augia, per Dio non lordiamole di nuovo). Napoleone, dopo tutto, era pur sempre figlio di una stagione nella quale al pensiero dell’illuminismo era toccato il compito di sgomberare il campo da una selva di consuetudini e di ordinamenti di ceto la cui opacità aveva generato, sul piano applicativo, gli abusi più gravi, sicché facilmente si comprende la ragione per cui in quel torno di tempo l’esigenza di riaffermare il primato di una legge scritta, chiara e da tutti ben conoscibile, era assolutamente prioritaria (come non menzionare qui Cesare Beccaria?); e si può allora anche comprendere la crudezza del paragone napoleonico tra lo sterco delle stalle e l’attività interpretativa dei primi commentatori del suo codice. Oggi difficilmente un simile paragone verrebbe in mente ad alcuno: perché l’epoca nostra – un’epoca che Paolo Grossi ha definito di pos-modernità giuridica e nella quale straordinaria fortuna ha arriso all’espressione «diritto vivente» – ha sperimentato la caduta di molte tra le illusioni suscitate dalla stagione dell’illuminismo, o che vi hanno fatto seguito, e tra esse anche quella di un diritto positivo in grado di esprimere comandi sempre così chiari ed univoci da consentirne l’applicazione quasi meccanica ad opera di un giudice destinato a fungere da mera «bocca della legge».

Di questo sviluppo storico ci si può rallegrare, trovandovi una conferma dell’ineliminabile fattualità del diritto e constatando il tramonto delle tradizionali categorie giuridiche, in luogo delle quali si auspica il formarsi dal basso, per opera della giurisprudenza e della comunità interpretante dei giuristi, di nuovi criteri ordinanti. Oppure ce ne si può preoccupare, scorgendo in questa tendenza una degenerazione del diritto, destinata a provocare decisioni erratiche, prive di ogni prevedibilità ad opera di giudici carenti di adeguata legittimazione democratica. Si può paventare l’avvento di un diritto incalcolabile, favorito dall’abbandono del metodo deduttivo, proprio dei giudici di civil law, e lamentare che nel nostro ordinamento tale abbandono non sia bilanciato dalla vincolatività del precedente giudiziario che è invece caratteristico dei Paesi di common law. Si può condividere o meno l’impostazione di chi considera ormai compito primario del legislatore quello di selezionare gli interessi degni di tutela, ed assegna invece al giudice il compito di operare il necessario bilanciamento tra interessi diversi alla stregua di principi di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza. Ma, comunque lo si voglia valutare, il significativo ampliamento della funzione creativa della giurisprudenza appare oggi un dato non controvertibile, del quale occorre prendere laicamente atto, che si registra non solo in tutti i campi nei quali il legislatore opera attraverso clausole generali (o norme elastiche), ma anche nelle sempre più frequenti situazioni in cui le esigenze di tutela giuridica espresse dal corpo sociale sopravanzano la capacità (o la volontà) del legislatore medesimo di farvi fronte, ponendo perciò stesso il giudice nella condizione di dover dare risposta a domande di giustizia per le quali l’ordinamento non ha approntato regole puntuali e specifiche. D’altronde, la necessità dell’interprete di confrontarsi con un universo giuridico plurale, costituzionale ed europeo, da cui emergono non solo e non tanto regole, quanto valori e principi, alla luce dei quali le medesime regole debbono esser lette, inevitabilmente comporta un esercizio interpretativo tutt’altro che meccanico e dall’esito sovente per nulla scontato.

Tra l’enunciato della regola e la realtà fattuale cui essa deve di volta in volta applicarsi esiste sempre uno spazio da colmare, e lo si colma talora un po’ isolando i connotati del fatto, in modo da consentirne la riconduzione alla regola, talaltra un po’ ampliando o modellando la portata semantica della regola per ricomprendervi il fatto. Si potrebbe dire che in ciò appunto consiste, da sempre, il mestiere del giudice (ed anche di ogni altro operatore giuridico); ma oggi colmare quello spazio è divenuto più arduo: sia perché la realtà è assai più dinamica che in passato ed offre sempre nuovi profili non facilmente riconducibili all’astratta previsione legale, sia perché le leggi sono meno organiche e sistematiche in conseguenza del moltiplicarsi e del sovrapporsi delle fonti di diritto nazionali e sovranazionali. È innegabile che ciò ha finito per esaltare la dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza. La quale però, pur costretta a ricercare la propria rotta in una difficile navigazione tra regole e principi, non può mai affrancarsi dalla necessità di fondare le proprie decisioni su una base legale, per mal certa che sia. Se così non facesse, non riuscirebbe ad evitare il pericolo di divenire (e di essere avvertita dai cittadini come) un fattore d’irrazionalità e di disordine nel tessuto sociale. Per quanto si voglia esaltare la creatività del momento interpretativo ed applicativo del diritto ad opera del giudice, occorre ammettere che egli non compie un esercizio senza rete, né potrebbe mai prescindere completamente dal dato testuale senza provocare una rottura insanabile del quadro istituzionale in cui si iscrive lo Stato di diritto.

Il compito del giudice (al pari di qualsiasi altro interprete della legge) consiste perciò oggi soprattutto nel testare i limiti di elasticità della regola dettata dal legislatore, nel comprendere quale sia, di volta in volta, lo spazio interpretativo che nella situazione data l’ordinamento nelle sue varie articolazioni gli offre, e di saper motivare le scelte che egli compie nello spazio segnato da quei limiti, in modo da favorire il formarsi di indirizzi giurisprudenziali coerenti (nel che consiste, come già altre volte mi è capitato di dire, la funzione della moderna nomofilachia: non conservazione statica di orientamenti tradizionalmente recepiti, bensì capacità di governare l’evoluzione giurisprudenziale in funzione dei mutamenti sempre più accelerati della società e delle esigenze del sistema giuridico che essa esprime).

Mi pare, insomma, che non si tratti di sposare concezioni neopositiviste o, viceversa, di arruolare senz’altro la giurisprudenza nel novero delle fonti di diritto, quanto piuttosto di attrezzarsi a svolgere in ciascuna situazione, con professionalità, scrupolo ed onestà intellettuale, quell’opera di ricognizione dei limiti entro i quali la discrezionalità interpretativa può esercitarsi – e sono spesso, come s’è detto, limiti nient’affatto ristretti – senza provocare una rottura del quadro legale. E si tratta di saper riempire lo spazio che entro quei limiti si apre in modo argomentato e convincente, tale da lasciar ragionevolmente supporre che la medesima soluzione potrà applicarsi in futuro a casi analoghi, fin quando non si dimostri ancor più persuasivamente che ve n’è un’altra migliore.

È questa una conclusione che può apparire banale – forse anche inadeguata rispetto al livello teorico del dibattito innescato dal rapporto tra il giudice e la legge – ma che si radica nell’esperienza concreta dell’esercizio giurisdizionale e che, per banale che sia, si presenta spesso difficile da praticare nel variopinto panorama della realtà che l’interprete del diritto si trova quotidianamente a dover fronteggiare. Il suo compito non è agevole. L’auspicio è che gli scritti ospitati in questo numero della Rivista possano essergli d’aiuto.

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21/02/2017
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