Magistratura democratica
Editoriali

L'editoriale del n. 3/2017

di Renato Rordorf
presidente aggiunto della Corte di cassazione, direttore di Questione Giustizia
Due gli obiettivi al centro di questo numero: “A cosa serve la Corte di cassazione?”, “Le banche, poteri forti e diritti deboli”

A cosa serve la Corte suprema di cassazione?

La domanda, a prima vista, può sembrare provocatoria o paradossale, ma forse non lo è. Michele Taruffo, in una raccolta di saggi pubblicata da Il Mulino nel 1991, coniò per la Cassazione la definizione, spesso poi richiamata, di «vertice ambiguo». E l’ambiguità nasce dal dover coniugare due funzioni: verificare la corretta applicazione della legge sostanziale e processuale in ogni singola vertenza sottoposta all’esame della Corte, ma al tempo stesso dare uniformità ai criteri interpretativi della normativa per una più generale finalità di orientamento dell’intera giurisprudenza nazionale. Un Giano bifronte, è stato anche detto, con un volto rivolto all’indietro, che guarda a ciascuna specifica controversia ed al modo in cui essa è stata decisa in sede di merito, ed un altro rivolto al futuro, che dà indicazioni destinate a fungere da riferimento per ogni successiva decisione implicante la soluzione dei medesimi problemi giuridici. Quest’ultima funzione, diretta a formulare criteri ordinanti nel flusso sempre più mobile della giurisprudenza, usiamo chiamarla “nomofilachia”; e per distinguerla dalla prima siamo soliti parlare di ius constitutionis, che dovrebbe potersi coniugare con lo ius litigatoris.

Ma è davvero possibile tenere insieme queste due funzioni, perseguire contemporaneamente ed altrettanto efficacemente entrambe queste finalità? Ed è auspicabile? C’è chi ne dubita, e lo stesso Taruffo, in saggi più recenti (tra i quali, ad esempio, La giurisprudenza tra casistica e uniformità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, pp. 35 e ss.), si è spinto sino a parlare a tal proposito di un «mito delle Corti supreme». Nella contrapposizione tra una visione “particolaristica” ed una “universalistica” della giurisprudenza, si sottolinea come debba essere sempre la concretezza specifica dei fatti a condizionare di volta in volta la corretta interpretazione ed applicazione delle norme idonee a disciplinarli, e come, viceversa, la pretesa di dettare principi giuridici di carattere generale sottintenda una concezione statica ed uniforme dell’ordinamento, nient’affatto coerente con la realtà. Esaltando troppo la funzione “universalistica”, si rischierebbe, inoltre, di attribuire alle Corti supreme un non auspicabile ruolo verticistico e burocratico. Una parte non piccola della dottrina processualistica italiana, pur tra molte distinzioni e con sfumature assai diverse, sembra oggi nella sostanza condividere queste preoccupazioni e manifesta un malcelato scetticismo nei riguardi della funzione nomofilattica della Cassazione; tende insomma a privilegiare la concezione “particolaristica” della giurisprudenza, paventando un diritto vivente caratterizzato da un eccesso di astrazione.

Non vorrei esagerare, ma ho il timore che si stia qui rischiando di scavare un solco tra la dottrina processualistica (o almeno una parte di essa) ed il legislatore, il quale negli interventi riformatori degli ultimi anni ha fatto mostra invece proprio di voler accentuare il ruolo nomofilattico della Suprema corte; ed un solco mi pare si stia producendo forse anche tra quella medesima dottrina e la giurisprudenza della Corte di cassazione, che in molte sue pronunce sembra a sua volta incline a valorizzare maggiormente quel ruolo.

Perciò credo sia oggi particolarmente necessario sviluppare il dibattito sulla funzione della Suprema corte, dando voce al punto di vista dei magistrati che vi operano ma anche a quello dei giudici di merito, degli avvocati e della stessa dottrina. E mi pare importante farlo ricollegandosi idealmente al tema, approfonditamente discusso in un precedente numero di questa Rivista (n° 4/16), del rapporto tra il giudice e la legge: perché indagare sul ruolo nomofilattico della Cassazione significa mettere a fuoco uno dei meccanismi fondamentali dell’emersione del diritto vivente e, quindi, comprendere meglio in qual modo e con quale reale incidenza il formante giurisprudenziale contribuisce in questo momento storico all’evoluzione dell’ordinamento giuridico.

Senza la pretesa di sciogliere in pochi tratti i nodi di un dibattito tanto complesso, mi permetto qui solo di osservare, per un verso, che oggi è forse eccessiva (o va comunque ridimensionata) la preoccupazione di chi scorge nell’esaltazione del ruolo nomofilattico della Corte suprema il rischio di una deriva autoritaria e verticistica; e per altro verso che l’attuale tendenza dell’ordinamento giuridico a farsi frammentario e disordinato rende quanto mai necessario uno sforzo di coordinamento giurisprudenziale che solo attraverso l’opera di una Corte regolatrice può avere una qualche possibilità di riuscita. La nomofilachia, se bene intesa, è sempre frutto di un procedimento dialettico – come spesso sottolineava Pino Borré (vedi, tra gli altri scritti, La corte di cassazione oggi, in Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Giappichelli, Torino, 1996) – perché la Cassazione interviene sempre su un materiale giuridico già in precedenza elaborato dai giudici di merito, con i quali deve saper dialogare per individuare la più corretta interpretazione delle norme, specie quando si tratti di norme nuove, la cui prima lettura è necessariamente affidata appunto ai giudici di merito. Ed infatti è proprio dalla giurisprudenza di merito, non foss’altro per il suo essere più immediatamente a contatto con la mutevole realtà sociale (oltre che, ovviamente, dalla dottrina), che spesso provengono le più stimolanti sollecitazioni al cambiamento, grazie alle quali anche la giurisprudenza di legittimità progredisce e si affina. D’altro canto, come già accennato, il tasso di disordine dell’ordinamento giuridico negli ultimi decenni è smisuratamente cresciuto, per molte ragioni tra le quali non ultima il proliferare di fonti normative diverse e talvolta eterogenee, nazionali e sovranazionali. Perciò, anche a voler seguire la drastica opinione di chi sostiene essere il diritto per sua stessa natura un sistema così complesso da risultare necessariamente caotico, mi pare si debba oggi più che mai riconoscere la necessità di farvi emergere almeno delle «isole di ordine» (cito ancora Taruffo, Aspetti del precedente giudiziale, in Criminalia, 2014, pp. 56-57), sia pure instabili e provvisorie. Ed è principalmente per questo motivo che, oggi ancor più di ieri, si rende indispensabile la presenza di un organo giurisdizionale di legittimità capace di operare una sintesi dei diversi possibili orientamenti giurisprudenziali e di fornire, almeno tendenzialmente, dei criteri ordinanti, benché suscettibili di essere poi criticamente ridiscussi non appena emergano buone ragioni per farlo.

Ma, se così è, non ci possiamo non chiedere in qual misura l’attuale assetto della nostra Suprema corte la mette davvero in grado di svolgere il suo ruolo nomofilattico e di coniugarlo efficacemente con la tutela dello ius litigatoris. Di certo non v’è alcuna incompatibilità logica tra l’assicurare in ultimo grado e definitivamente la giustizia del caso singolo ed il prefigurare soluzioni giurisprudenziali destinate ad operare in una molteplicità di casi futuri. È astrattamente ben ipotizzabile che la corretta conformazione dello ius litigatoris valga, già di per sé, ad assicurare la tenuta dello ius constitutionis, e forse in un ormai lontano passato è stato davvero così, ma oggi questa conclusione appare quanto mai problematica.

È noto che, in presenza di una disposizione costituzionale (l’art. 111, comma settimo) che non sembra consentire veri e propri filtri di accesso idonei a selezionare i ricorsi alla Corte di cassazione, questa si trova a dover fronteggiare un numero di ricorsi così ingente da rendere assai difficile la produzione di una giurisprudenza coerente ed ordinata: il che rischia fatalmente di compromettere la sua funzione nomofilattica e la possibilità di coniugarla effettivamente con la tutela dello ius litigatoris (che a propria volta è affievolita dall’inevitabile dilatazione dei tempi di definizione di un così alto numero di procedimenti). Di fronte ad una tale proliferazione di ricorsi una Corte soprattutto destinata ad una funzione di giustizia del caso concreto, essendo costretta ad operare contemporaneamente attraverso decine e decine di collegi giudicanti, difficilmente può sempre garantire una sufficiente uniformità di indirizzi giurisprudenziali.

Bisognerebbe saper scegliere: si può volere che la Cassazione eserciti una funzione più o meno equiparabile ad un terzo grado di giudizio (ma in tal caso ci si potrebbe chiedere se serve davvero concentrare tutti i giudizi di ultimo grado in un'unica sede, e se non valga la pena piuttosto di tornare all’antico modello delle Cassazioni regionali) oppure che svolga (se non esclusivamente, soprattutto) una funzione nomofilattica, come accade in tutti i Paesi comparabili al nostro nei quali alle Corti supreme sono affidati prevalentemente compiti di nomofilachia e mai quelle Corti sono chiamate a produrre un altrettanto grande numero di decisioni. La risposta alla domanda posta da principio – a cosa serve la Corte di cassazione? – dipende da come ci si voglia orientare in questa scelta.

 

Se c’è un terreno sul quale la giurisprudenza – in particolare quella della Cassazione – ha svolto un ruolo di grande rilievo nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico verso soluzioni più attente alla tutela dei diritti, credo sia proprio quello delle banche e dei loro rapporti con i clienti ed i risparmiatori.

Vi sono però almeno altre due ottime ragioni per occuparsi di questo tema: l’una di ordine storico, l’altra di ordine costituzionale.

È noto che lo sviluppo delle banche e dell’attività creditizia è stato, sin dal tardo medioevo, uno dei motori della storia politica ed economica dell’Occidente, contribuendo in grande misura alle fortune ed alle miserie della nostra civiltà, e v’è perciò poco da sorprendersi del fatto che, ancora oggi, sia proprio da vicende prodottesi in ambito bancario che ha tratto origine la grave crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008, a partire dagli Stati Uniti, estesasi poi su scala mondiale sino al punto da mettere a repentaglio la stessa stabilità di alcuni Stati nazionali e con essa il tenore di vita ed i diritti fondamentali dei loro cittadini (il pensiero corre evidentemente alla Grecia). Una crisi, questa, che autorevoli commentatori hanno ricondotto anche ai profondi mutamenti dai quali sin dagli ultimi decenni del novecento è stato interessato il sistema bancario (soprattutto, ma non soltanto, quello statunitense), con il definitivo abbandono della distinzione tra banche commerciali e banche d’investimento, con la progressiva despecializzazione dell’attività bancaria e la conseguente possibilità per le banche di operare su tutta la gamma dei servizi e dei prodotti finanziari, con un generale allentamento del sistema dei controlli pubblici in nome di una pretesa maggiore efficienza competitiva. La liberalizzazione del mercato dei derivati finanziari, che ha visto le banche tra i suoi maggiori protagonisti, ha fatto il resto, contribuendo ad accentuare l’attitudine speculativa di buona parte dell’attività bancaria ed incoraggiando l’erogazione facile del credito grazie al fatto che il relativo rischio poteva essere agevolmente inglobato in strumenti finanziari tanto sofisticati quanto poco garantiti e così trasferito sui sottoscrittori di quegli strumenti.

Col mutare di alcune tra le tradizionali caratteristiche dell’attività bancaria è sensibilmente mutato anche il modo di essere del rapporto tra banca e cliente; e questo chiama in causa il secondo aspetto cui prima facevo cenno, quello costituzionale, perché la tutela del risparmio è uno degli obiettivi espressamente enunciati nella Carta costituzionale (art. 47) e la sua concreta attuazione dipende in buona misura anche da come quel rapporto tra banca e clienti si atteggia. Nei primi decenni dell’era repubblicana in larga prevalenza il risparmio, se non veniva investito in proprietà immobiliari o non rifluiva in titoli di Stato, era dato in custodia alle banche, intorno alle quali ruotava anche il sistema di finanziamento delle imprese. Non era un mondo idilliaco, ma presentava un tasso di conflittualità relativamente basso e ciò, almeno in parte, dipendeva da un sostrato fiduciario che faceva della “propria banca” un punto di riferimento per il risparmiatore. La trasformazione di molte banche in player finanziari, che perseguono il profitto anche (se non soprattutto) operando in proprio sul mercato, ha inevitabilmente comportato l’insorgere di un groviglio di conflitti d’interesse che ha finito con il minare il rapporto fiduciario con i risparmiatori, come le cronache quotidiane ampiamente ci riferiscono. «Il mondo è cambiato – scrive l’economista Marco Onado in un recente saggio intitolato Alla ricerca della banca perduta (Il Mulino, Bologna, 2017, p. 253) – e oggi i produttori di finanza sono anche venditori, sia nel campo dell’investment banking sia in quello dei servizi retail»; ed aggiunge che, appunto per questo, i conflitti di interesse «sono connaturati alla finanza di oggi e per il povero risparmiatore il mondo della finanza sembra sempre di più una foresta più intricata di quella di Cappuccetto Rosso».

Non ci si può dunque sorprendere se l’espandersi degli effetti della crisi economico-finanziaria, che ha direttamente colpito un elevato numero di risparmiatori, facendo emergere non poche criticità nella gestione degli istituti di credito (o almeno di alcuni di essi), ha alimentato un diffuso sentimento di ostilità nei confronti del mondo bancario nel suo insieme, considerato uno degli emblemi dei cosiddetti “poteri forti” dai quali il comune cittadino si sente vessato e contro i quali si sente impotente. 

I saggi ospitati nella seconda parte di questo numero della Rivista mettono bene in evidenza come l’incrinarsi del tradizionale rapporto di fiducia tra banche e clienti e l’emergere di quel senso di diffusa ostilità verso il mondo bancario cui accennavo si sia riflesso nel contenzioso di cui si sono dovuti sempre più spesso occupare in questi ultimi decenni i tribunali e le corti.

La giurisprudenza è stata ed è tuttora chiamata ad un compito particolarmente delicato su un terreno nel quale il diritto si misura con forti istanze sociali e non può rimanere insensibile al mutare degli scenari macroeconomici. Un compito che richiede grande senso dell’equilibrio, affinché sia assicurata effettività alla tutela del risparmio evocata dalla Costituzione ma nel pieno rispetto del principio di legalità, e perciò senza farsi condizionare da spinte emotive aprioristicamente ostili ad una delle parti in causa.

Ma soprattutto val la pena di rilevare come l’elaborazione di nuove categorie ad opera della dottrina e della giurisprudenza, pur non essendo ovviamente confinata al settore dei rapporti bancari, abbia trovato proprio in questo settore un campo privilegiato di attuazione e di sperimentazione, tuttora in atto, facendo emergere dal crogiuolo delle singole controversie principi giuridici capaci di rispondere alle istanze attuali: si pensi ad esempio alla nozione di contratto asimmetrico, alla nullità di protezione ed altro ancora.

Qui più che mai il “diritto vivente” manifesta tutta la sua vivacità, e di nuovo la nomofilachia viene in primo piano.

Renato Rordorf

Ottobre 2017

 

13/11/2017
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