Magistratura democratica
Magistratura e società

L'attualità di Montesquieu per legislatori e giudici: l'abc del garantismo

di Luigi Marini
Magistrato, Legal adviser permanent mission of Italy to the U.N.
Recensione al libro di Dario Ippolito, "Lo Spirito del Garantismo. Montesquieu e il potere di punire", Donzelli Editore, Roma 2016, euro16,50
L'attualità di Montesquieu per legislatori e giudici: l'abc del garantismo

Mi sono avvicinato con molta curiosità al libro che Dario Ippolito ha dedicato a Montesquieu e alla sua visione del sistema penale. In particolare, mi sono chiesto quali spunti per la nostra attualità possano venire dall’analisi di un testo così caratterizzato e così ampiamente studiato,

La domanda mi è parsa per un tratto destinata a restare senza risposte convincenti. Montesquieu ha di fronte a sé il regime monarchico della Francia di metà ‘700, fondato su logiche di arbitrio e violenza che contenevano i germi del crollo che sarebbe seguito di lì a poco aprendo la strada a una civiltà radicalmente nuova. Lo spirito delle leggi guarda al sistema penale come la cartina di tornasole del rapporto fra Stato e individuo e fissa nella difesa contro l’arbitrio il paradigma essenziale sul quale fondare un mondo nuovo. Ogni forma di potere può (sembra destinato a) trasformarsi in arbitrio e vessazione, privando l’individuo di ogni tranquillità e ponendolo in condizione di sudditanza senza difesa (vedi i richiami a Pagano, pag.15, e Costa, pag.67 in nota). Di qui il ruolo essenziale della Legge, presidio di certezza e di affidamento.

Sembrerebbero, queste, premesse oramai lontane e non calzanti rispetto alla nostra situazione, così come lo sono le critiche serrate che Montesquieu muove ai reati di eresia e magia, se non fosse che uno sguardo alla realtà internazionale ci ricorda che una larga parte dell’umanità vive ancora sotto l’egemonia di leggi fondate su principi religiosi che non ammettono critica, oppure sotto regimi autarchici che non concedono ai sudditi quelle garanzie “civili”, rectius politiche, che Montesquieu considera connaturate alla libertà del singolo e difesa rispetto all’arbitrio.

Ma non è solo questo. Poche pagine ancora e Ippolito ci ricorda il valore del dissenso politico e l’esigenza che le leggi siano improntate a due principi fondamentali: tassatività delle regole e materialità/offensività delle condotte.

Non credo si possa rispondere che questi principi sono ormai patrimonio della nostra civiltà e pienamente attuati.

Sotto il primo profilo, dobbiamo ricordare il proliferare delle fonti normative a livello sovranazionale e nazionale e il moltiplicarsi di precetti sempre più complessi: la difficoltà che i giudici incontrano spesso nel decidere e il numero crescente di contrasti giurisprudenziali sono segnali della assenza di quella chiarezza e comprensibilità delle regole che rende l’individuo pienamente consapevole delle proprie scelte. Sotto il secondo profilo, restano da noi ampie aree di punibilità in cui la sanzione penale sembra rispondere più alla incapacità statale di applicare sanzioni appropriate, civili e amministrative, che a un grado di effettiva offensività delle condotte meritevole di criminalizzazione.

Possiamo non condividere il criterio di “omogeneità” naturale delle pene accolto da Montesquieu (pag.42), ma non possiamo evitare di riflettere sulla strada che ci resta ancora da fare per definire un sistema sanzionatorio rispettoso dei principi ricordati. Viene qui in mente, fra le altre, la criminalizzazione dei reati di droga, con archi sanzionatori spesso sproporzionati (si vedano su questo i passaggi alle pagg.77-78, 83) anche in Paesi non troppo lontani da noi e con altri Paesi che applicano la pena di morte per condotte che ai nostri occhi appaiono di gravità ridotta (si veda pag.87).

Su queste basi si colloca l’elogio della mitezza. Se è vero che Montesquieu aveva davanti a sè un sistema che giustificava la crudeltà del supplizio come arma finale di deterrenza, e se è vero che il filosofo non rigettava come radicalmente inumana la pena di morte, abbiamo ancora molto da riflettere sulle considerazioni secondo cui la violenza/ferocia della risposta statale «corrompe gli spiriti» e rafforza una cultura diffusa di violenza e che «la disperazione, al pari dell’impunità, conferma il disordine e lo rende più grande». Si tratta di osservazioni che oggi non sembrano applicabili soltanto a realtà lontane dalla nostra e che sarebbe bene tenere a mente quando pensiamo alle logiche della risposta carceraria oppure ai processi di emarginazione e radicalizzazione che attraversano le nostre società.

Meglio considerare, dunque, il valore di pene proporzionate e umane che siano effettivamente applicate e che scoraggino ogni rincorsa del legislatore verso misure sempre più severe. Con il che il tema dell’efficienza e dell’efficacia dell’intervento penale assume una centralità sistemica e può metterci in grado di leggere la sanzione non con occhio rivolto solo al passato, il reato commesso, ma al futuro, il recupero del condannato alla vita della collettività (si veda pag.91 sull’opposta concezione della pena come rimozione delle cellule malate a fini di cura della società infetta).

Da quanto detto sin qui può comprendersi che la parte più consistente del lavoro di Ippolito, al pari de Lo spirito delle leggi, è dedicata ai profili sostanziali e assai minore quella che si occupa del processo e delle sue regole.

Il nesso inscindibile fra sistema penale e sistema processuale ci segnala subito come le poche pagine dedicate al secondo vadano lette alla luce di tutto quello che precede (rinvio alla sintesi contenuta a fine di pag.95 e iniziò di pag.96) e come il principio di libertà richieda un processo radicalmente diverso dal rito inquisitorio allora in vigore. In altri termini, le regole processuali, certamente volte a ricercare la verità e non un risultato già scritto in sedi diverse, servono a garantire il singolo da ogni forma di arbitrio che venga dal potere costituito o dallo stesso sistema giudiziario. Innanzitutto la persona ha diritto di rispondere a una fattispecie incriminatrice precisa e di confrontarsi con un’accusa chiara e determinata. In secondo luogo ha diritto a un contraddittorio fra pari davanti a un giudice terzo (si veda a tal proposito la più ampia elencazione di garanzie che Ippolito enuclea a pag.100).

Molte le soluzioni che il mondo occidentale ha escogitato per definire la figura del giudice garante delle regole: da quella elettiva a quella di carriera, alla cooptazione dei migliori avvocati. Nessuna è immune da limiti, ma ciò che conta è lo sforzo di escludere dal processo forme di eterodirezione e forme di conduzione arbitraria e parziale.

Qualora si accetti che la separazione delle carriere fra giudici e pubblici accusatori non è l’unica soluzione possibile, dobbiamo rivolgere con sguardo nuovo la nostra attenzione ai rischi che derivano dallo spostamento del baricentro processuale verso la fase delle indagini, dalle conseguenze della custodia cautelare sull’intero rito e dalla marginalizzazione del momento dibattimentale. Tutti elementi che riducono gli spazi di dialettica e introducono nel sistema germi pericolosi a cui è facile assuefarsi.

I pochi spunti che ho cercato di suggerire mi paiono sufficienti per rispondere positivamente alla domanda iniziale. La densa lettura del testo di Montesquieu che Ippolitto ci propone ha molto da dire ai politici e ai giuristi di oggi. Depurato da banalizzazioni e abusi (pagg.4-8), il concetto di “garantismo” si manifesta in tutta la sua sintonia con il moderno quadro costituzionale e con i principi della dialettica politica e ci interroga su tutti i piani del confronto pubblico in atto.

Merita di essere ricordata la risposta che la giornalista spagnola Angela Rodicio ha dato a Marco Travaglio in un recente dibattito televisivo sul tema delle intercettazioni: all’accusa di Travaglio di voler nascondere le notizie e riportare il giornalismo alle censure dell’epoca staliniana, Rodicio, richiamando Montesquieu, ha risposto che occorre stare molto attenti a non tornare ai metodi processuali di quell’epoca.

Può trattarsi di un paradosso dialettico, ma preferisco leggerlo come un segnale di pericolo che non dovremmo permetterci di sottovalutare.

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[*] L’Autore esprime in questo articolo opinioni esclusivamente personali 

05/05/2016
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