Magistratura democratica
Diritti senza confini

L’attualità del caso Khlaifia. Gli hotspot alla luce della legge 132/2018: la politica della detenzione extralegale continua

di Adelaide Massimi , Francesco Ferri
*operatrice del progetto “In limine”, Asgi - Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione<br>**Operatore legale specializzato nella protezione internazionale
I centri di prima identificazione italiani continuano ad essere caratterizzati da prassi detentive non disciplinate dalla normativa vigente. Il processo di supervisione dell'attuazione della sentenza Khlaifia può essere un'occasione per interrogarsi sull'attuale funzionamento degli hotspot e sull'illegittimità dei trattenimenti finalizzati all'identificazione

1. La detenzione amministrativa nei centri di prima accoglienza: scenari in trasformazione

Il caso Khlaifia e altri c. Italia riguarda le vicende di tre cittadini tunisini trattenuti nel 2011 per alcuni giorni nel centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola, a Lampedusa, e successivamente sulle navi militari Vincent e Audacia ancorate nel porto di Palermo, per poi essere rimpatriati nel Paese di origine. La sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) del 15 dicembre 2016 ha condannato l’Italia per tale vicenda, stabilendo, tra l’altro, che il trattenimento dei ricorrenti era privo di base legale e che il sistema giuridico italiano non offriva agli stessi la possibilità di un ricorso effettivo circa la legalità della detenzione.

In seguito alla sentenza si è aperto il processo di supervisione dell’attuazione della decisione della Corte di fronte al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, finalizzato al monitoraggio delle misure intraprese dal Governo italiano per evitare il ripetersi di violazioni analoghe a quelle che ne avevano determinato la condanna. Al caso Khlaifia è stata assegnata una procedura di supervisione rafforzata, che prevede una serie di revisioni annuali circa le misure adottate. L’esecuzione della sentenza e il relativo processo di supervisione appaiono oggi estremamente rilevanti e attuali poiché insistono su temi centrali nella gestione delle migrazioni e nel controllo delle frontiere.

Le pratiche di trattenimento dei cittadini stranieri – inclusi i richiedenti protezione – non disciplinate dalla legge hanno caratterizzato, come messo in luce dalla sentenza nel caso Khlaifia, il funzionamento dei centri di prima accoglienza in Italia. A partire dalla fine del 2015 tali prassi hanno assunto un carattere sistematico, tanto da apparire connaturate a quello che è stato definito approccio hotspot. Tale approccio, volto a una sistematica e immediata identificazione e classificazione dei cittadini stranieri in richiedenti protezione internazionale, da indirizzare verso le procedure di accoglienza, e non richiedenti protezione, da indirizzare verso le procedure propedeutiche al rimpatrio, prevede infatti una fase di identificazione (rilievi foto-dattiloscopici e relativi riscontri nelle banche dati nazionali e internazionali) che negli ultimi anni si è sostanzialmente svolta attraverso la momentanea limitazione della libertà personale in assenza di base normativa, di adozione di provvedimenti da parte delle autorità amministrative e di controllo giudiziario. In alcuni centri, come quello sito in Contrada Imbriacola, la limitazione della libertà si è protratta, in diverse circostanze, anche per alcune settimane.

Alcune delle modifiche introdotte dalla legge 132/2018 sembrano poter incidere sul funzionamento degli hotspot e sulla loro attitudine detentiva. Siamo davanti a un rilevante pericolo: un’interpretazione fuorviante della nuova normativa, diffusa tra chi si occupa a vario titolo di immigrazione, tende a rappresentare gli hotspot come luoghi di detenzione tout court. Riteniamo che tale retorica sia altamente problematica e non corrisponda a quanto disciplinato dal legislatore. Accanto alla necessaria promozione di azioni giudiziali finalizzate al contrasto dei profili di illegittimità della nuova normativa, riteniamo indispensabile avviare una riflessione sulle retoriche che descrivono gli hotspot come strutture chiuse.

2. La sentenza Khlaifia e il processo di supervisione: una vicenda paradigmatica

Il processo di supervisione della sentenza Khlaifia può rappresentare un’occasione per riflettere sul rapporto tra pratiche detentive e normativa vigente. Nel corso di tale processo, a fronte delle richieste del Comitato circa la base giuridica del trattenimento dei cittadini stranieri in hotspot, il Governo ha presentato tre differenti comunicazioni (settembre 2017, marzo 2018, settembre 2018) [1] e ha infine inviato, a gennaio 2019, una relazione nella quale si chiede la chiusura della procedura di supervisione. Le comunicazioni governative riguardano principalmente le novità introdotte dalla legge 46/2017 e dalla legge 132/2018. La legge 46/2017 stabilisce che «lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi» (gli hotspot) dove sono «altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico […] ed è assicurata l'informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell'Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito». Con la legge 46/2017 i centri hotspot vengono per la prima volta citati nella normativa nazionale. Inoltre, con lo stesso provvedimento normativo è disposto che il rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi fotodattiloscopici configura rischio di fuga ai fini del trattenimento nei centri di cui all'articolo 14 (centri di permanenza per il rimpatrio).

La legge 132/2018, invece, ha introdotto disposizioni che afferiscono al trattenimento «per la determinazione o la verifica dell'identità e della cittadinanza dei richiedenti asilo», disponendo che «il richiedente può essere altresì trattenuto, per il tempo strettamente necessario, e comunque non superiore a trenta giorni, in appositi locali presso» i “punti di crisi”, cioè gli hotspot, istituiti nei centri di primo soccorso e accoglienza o nei Centri governativi di prima accoglienza di cui all’art. 9, d.lgs 142/2015, «per la determinazione o la verifica dell'identità o della cittadinanza». Inoltre, la stessa legge ha introdotto Disposizioni in materia di modalità di esecuzione dell'espulsione, stabilendo che, a determinate condizioni, l’autorità giudiziaria «può autorizzare la temporanea permanenza dello straniero, sino alla definizione del procedimento di convalida in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell'Autorità di pubblica sicurezza».

La lettura delle citate comunicazioni governative appare particolarmente interessante poiché in esse opera una sorta di sineddoche circa la base legale del trattenimento all’interno dei centri hotspot: nella comunicazione del settembre 2018, la sussistenza di specifiche circostanze che consentono il trattenimento in caso di rifiuto reiterato di sottoporsi ai rilievi fotodattitoloscopici viene estesa fino a costituire «una prima base giuridica al trattenimento dei migranti nelle strutture di prima accoglienza» [2]. Con il Report di azione del gennaio 2019, il Governo ritiene, alla luce delle previsioni introdotte con la legge. 132/2018, di aver adottato tutte le misure necessarie ad evitare il ripetersi di violazioni inerenti al trattenimento.

Nell’ambito del processo di supervisione del Comitato dei ministri, l’Asgi è intervenuta in due occasioni con l’invio di due comunicazioni: la prima è stata inviata nel giugno del 2018 attraverso la piattaforma del progetto In Limine [3] − promosso insieme alle organizzazioni ActionAid, CILD e IndieWatch – per sottolineare l’assenza di base legale per il trattenimento dei migranti nei centri di primo soccorso e per sottoporre al Comitato le criticità insite nel cd. approccio hotspot, a sua volta introdotto in assenza di una disciplina specifica. In tale occasione è stato possibile rappresentare al Comitato quali fossero le prassi di trattenimento e di “classificazione” dei cittadini stranieri poste in essere a Lampedusa [4].

A fronte delle novità introdotte dalla legge 132/2018 e in vista della riunione del Comitato tra il 12 e il 15 marzo 2019, Asgi ha inviato una seconda comunicazione [5], nella quale si pongono in rilievo i profili di illegittimità costituzionale e di incompatibilità con la normativa europea delle nuove ipotesi di trattenimento.

3. Il trattenimento extralegale negli hotspot: un tema superato?

Secondo quanto sostenuto dal Governo, le nuove previsioni sulla disciplina del trattenimento colmano le precedenti lacune nella normativa accertate dalla Corte Edu. Al contrario, lo scenario è decisamente più complesso e permangono rischi di gravi e diffuse illegittimità. In questa sede si rifletterà su due fattispecie: il trattenimento dei richiedenti asilo ai fini indentificativi e il trattenimento dei cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione. L’art. 3 della legge 132/2018 disciplina il trattenimento a fini identificativi dei richiedenti protezione internazionale «per il tempo strettamente necessario e comunque per un periodo non superiore a 30 gg», in appositi locali presso le strutture di cui all’art. 10-ter, comma 1, d.lgs 286/98 (i “punti di crisi”, cioè gli hotspot, e i Centri governativi di prima accoglienza di cui all’art. 9, d.lgs 142/2015) «per la determinazione e la verifica della sua identità o della sua cittadinanza». Qualora alla scadenza dei 30 giorni non sia stato possibile determinarne o verificarne l’identità o la cittadinanza, il richiedente può essere trattenuto in un centro di permanenza per il rimpatrio per un periodo massimo di 180 gg.

L’art. 4, invece, introduce una nuova forma di trattenimento per cittadini stranieri sottoposti a provvedimenti ablativi. È ora possibile, a determinate condizioni e con specifici limiti, la detenzione degli stranieri in attesa della convalida dell’accompagnamento immediato alla frontiera presso «luoghi idonei», nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza, diversi dai CPR. Si tratta, a tutti gli effetti, di una potenziale moltiplicazione e diffusione dei luoghi finalizzati al trattenimento.

Nonostante non si abbia ancora notizia dell’applicazione di tali disposizioni, l’impatto delle stesse sulla qualità dei diritti dei cittadini stranieri appare rilevante: l’autorità di pubblica sicurezza ha a disposizione un set di possibilità che, alla luce della formulazione generica degli articoli 3 e 4 della legge 132/2018, sono potenzialmente applicabili nei confronti di numero elevatissimo di persone. Nel caso del trattenimento dei richiedenti protezione internazionale, questo potrebbe addirittura configurarsi come misura generalizzata.

4. Attualità delle violazioni: trattenimenti informali ai fini del fotosegnalamento

Le modifiche legislative così introdotte nel 2017 e nel 2018 potrebbero indurre a ritenere che “finalmente” «il trattenimento nei centri di prima accoglienza italiani abbia una base legale». Sembrerebbe, secondo questa prospettiva, che i centri hotspot siano, in ragione della normativa vigente, luoghi chiusi tout court. Sarebbe, secondo tale interpretazione, superato il tema dell’assenza di una base normativa per il trattenimento dei cittadini stranieri successivamente all’arrivo sul territorio italiano che ha comportato la condanna dell’Italia in seguito al caso Khlaifia.

A una lettura attenta, tuttavia, le questioni relative al trattenimento negli hotspot sembrano tutt’altro che superate, per almeno due motivazioni differenti.

Innanzitutto autorevoli giuristi hanno posto in evidenza come la normativa che definisce le nuove ipotesi di trattenimento sia costituzionalmente illegittima per contrarietà all’art. 13 della Costituzione e all’art. 117 della Costituzione per incompatibilità con la normativa europea e con la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato. Questo tema, di importanza capitale, è stato ampiamente e validamente affrontato, pertanto si rimanda ai fondamentali interventi in questo senso [6].

Dal punto di vista dei motivi per cui l’ultimo intervento del legislatore in tema di trattenimento è da ritenersi tutt’altro che risolutivo, è il caso di riflettere su una seconda e decisiva circostanza. Gli articoli 3 e 4 della legge 132/2018, infatti, sono applicabili ai cittadini stranieri classificati come «richiedenti protezione internazionale e irregolari». Negli ultimi tre anni, nell’ambito dell’approccio hotspot, e anche nelle fasi precedenti, la maggior parte dei cittadini stranieri trattenuti nel periodo successivo allo sbarco (ore, giorni e a volte settimane) sono stati privati della libertà personale per finalità di identificazione e fotosegnalamento, prima che fosse loro attribuito lo status giuridico di richiedenti asilo o di irregolare. Come visto, tuttavia, la normativa prevede, da un lato, la possibilità di trattenimento del richiedente protezione ai fini della determinazione o verifica dell’identità e della cittadinanza e, dall’altro, la possibilità di trattenere in hotspot o in altro luogo idoneo i cittadini stranieri classificati come irregolari in caso di assenza di posti nei centri di permanenza per il rimpatrio. Il trattenimento dei cittadini stranieri prima della identificazione e attribuzione dello status sfugge, dunque, all’applicazione della legge 132/2018. Tale forma di trattenimento – che, come evidenziato dal recente report sulle procedure applicate ai cittadini stranieri condotti a Messina [7], viene abitualmente messa in atto − è tutt’ora priva di base giuridica.

5. Le prassi di trattenimento informale e la loro normalizzazione

Come risulta da un rapporto relativo alla situazione del centro di Lampedusa [8], l’approccio hotspot potrebbe fungere da sistema di sperimentazione di prassi, che, negli ultimi tre anni, in alcune circostanze hanno anticipato l’intervento legislativo adottato in seguito per fornire ad esse la necessaria base giuridica. È ciò che è già accaduto, dato che i luoghi stessi adibiti a tali funzioni sono stati aperti alla fine del 2015 per esigenze squisitamente politiche e solo dopo due anni la legge 46/2017 ne ha introdotto una prima menzione nel sistema normativo come “punti di crisi”. Un altro esempio di tale dinamica riguarda la classificazione dei cittadini stranieri in richiedenti protezione internazionale e non richiedenti protezione, che è avvenuta, in maniera quasi sistematica, sulla base della nazionalità, ponendo in essere comportamenti e procedure per l’accesso alla domanda di asilo differenziate in base al Paese di origine [9]. Tale prassi ha in qualche modo trovato una legittimazione normativa – in senso lato − attraverso la previsione della lista dei Paesi sicuri che con ogni probabilità sarà stilata e adottata nel prossimo futuro.

Come visto sopra, tale trattenimento è stato negli ultimi anni ampiamente attuato all’interno di tali centri generalmente in due circostanze: nella fase di identificazione, esteso a tutti i cittadini stranieri presenti, e nei casi di persone non richiedenti protezione internazionale in attesa che venisse emesso e notificato il provvedimento di allontanamento. Queste forme di trattenimento informale hanno dato risposta a esigenze di gestione dei flussi all’interno dei centri hotspot: nel primo caso alla necessità di identificare tutte le persone in arrivo, nel secondo alla necessità di garantire l’esecuzione dei respingimenti. Le aperte violazioni della normativa e, soprattutto, la grave lesione dei diritti individuali che tali prassi hanno comportato sono state rapidamente normalizzate e accettate da tutti gli attori coinvolti: le autorità, gli operatori di organizzazioni non governative, degli enti gestori e degli enti di tutela sembrano aver assunto la prospettiva secondo la quale gli hotspot sono luoghi tout court chiusi. Tali pratiche infatti sono state considerate necessarie nell’economia del funzionamento degli hotspot e indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi propri dell’approccio hotspot quali la rapida identificazione e classificazione dei cittadini stranieri in richiedenti protezione internazionale e cittadini stranieri in posizione di irregolarità e il loro immediato incanalamento nelle procedure rispettivamente di accoglienza e di allontanamento dal territorio. In tale dinamica gioca un ruolo fondamentale il sapere diffuso e condiviso dagli attori che operano in tale contesto. Il fatto che «i Tunisini sono migranti economici, i Sudanesi e gli Eritrei si allontanano» sono ragioni che nel sistema discorsivo della frontiera hanno un peso di gran lunga maggiore della normativa nel determinare i comportamenti e le procedure messi in atto.

È quindi necessario sviluppare fin da subito un sistema di conoscenze e di interpretazione della normativa di recente introduzione che sia in grado di orientare il comportamento degli attori pubblici e privati che cooperano nella gestione dei centri al rispetto delle garanzie che, nonostante le criticità delle nuove previsioni, permangono. Una narrazione che descrive gli hotspot come luoghi di trattenimento generalizzato tenderebbe infatti a incentivare e ratificare comportamenti informali ma estremamente incisivi in questo senso. Tra l’altro è il caso di ricordare che l’applicabilità delle nuove misure di trattenimento è evidentemente subordinata all’emissione di un atto motivato dell'autorità giudiziaria e attuabile nei soli casi e modi previsti dalla legge, conformemente alle garanzie di cui all’articolo 13 della Costituzione.

Da questa prospettiva, se, come si è tentato di dimostrare, negli ultimi tre anni le procedure attuate negli hotspot si sono collocate ai limiti del diritto, sarà ora indispensabile valutare le modalità, i luoghi, i tempi, il comportamento fattuale, le condizioni e i termini applicativi delle nuove fattispecie. Sarà indispensabile farlo fin dalle primissime applicazioni. Il momento in cui verrà per la prima volta tradotta in prassi la nuova normativa, infatti, appare cruciale: le procedure prenderanno forma e un tempestivo intervento di operatori legali e avvocati può evitare che prassi incoerenti si cristallizzano. Questo primo momento applicativo è, in questo caso, ancor più rilevante: è in gioco un diritto fondamentale – la libertà di movimento – e appare essenziale la promozione di contenzioso finalizzato alla tutela dei cittadini stranieri e, insieme ad essa, all’ottenimento di una pronuncia in tema di incostituzionalità.

6. Agire in frontiera

Alla luce di quanto evidenziato, lo scenario che abbiamo davanti appare tutt’altro che “normalizzato” e l’intervento del legislatore niente affatto risolutivo. Inoltre, le disposizioni introdotte presentano numerose criticità anche per altri profili. Ad esempio, la detenzione ai fini identificativi dei cittadini stranieri richiedenti asilo, se sovrapposta ad altre novità − si pensi, a titolo di esempio, alla possibilità, potenzialmente generalizzata, di valutare direttamente in frontiera e in maniera accelerata le domande di asilo – può contribuire a determinare un possibile scenario all’interno del quale i cittadini stranieri potrebbero essere trattenuti ai fini dell’identificazione e, nelle more di questo trattenimento, sottoposti all’esame accelerato della richiesta di protezione internazionale. È verosimile ritenere che tali circostanze potrebbero ulteriormente diminuire il tasso di consapevolezza e la preparazione dei richiedenti asilo. Il contatto degli stessi con tutto quello che c’è fuori dagli hotspot – avvocati, organizzazioni solidali, operatori legali, attivisti – sarebbe fortemente limitato. In aggiunta, la formulazione degli articoli che disciplinano questa nuova forma di trattenimento e la procedura accelerata e in frontiera sono, dal punto di vista dei presupposti per l’applicabilità, così generici da poter essere potenzialmente applicati nei confronti della totalità dei cittadini stranieri che arrivano via mare successivamente alla manifestazione della volontà di voler chiedere asilo.

Infine, sarebbe molto grave ritenere che gli hotspot siano ora disciplinati come «luoghi chiusi». Lo possono essere per specifici cittadini stranieri, a determinate condizioni, per tempi e finalità definite, con l’applicazione di specifiche garanzie procedurali, con il coinvolgimento dell’autorità giudiziale e nel rispetto delle garanzie previste all’art. 13 Cost.

Nonostante gli otto anni trascorsi dalla vicenda Khlaifia, il tema del trattenimento extralegale negli hotspot è attualissimo. Al di fuori della normativa vigente e in assenza delle specifiche garanzie, un cittadino straniero non può essere trattenuto − neanche per un minuto − in nessun luogo. Rileggere il caso Khlaifia e seguire la sua esecuzione è un’ulteriore occasione per comprendere la portata dei valori in gioco e riflettere sulle illegittimità ancora in corso.

Rendere effettivo l’esercizio della libertà di movimento nelle fasi precedenti all’identificazione è un’urgenza non più rinviabile: è a rischio la qualità della democrazia.



[1] Per i documenti relativi all’esecuzione della sentenza di veda: https://hudoc.exec.coe.int

[2] Nota del Governo, settembre 2018: https://hudoc.exec.coe.int

[4] Si veda: Considerazioni relative all’attuale funzionamento del centro hotspot di Lampedusa alla luce delle violazioni riscontrate dalla Corte nella sentenza Khlaifia e altri c. Italia, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/07/Khlaifia_-hotspot-Lampedusa_Progetto-In-limine_ITA-giugno-2018.pdf.

[5] Testo della comunicazione visualizzabile sul sito del Comitato dei Ministri: https://hudoc.exec.coe.int

[6] Per un approfondimento circa i profili di illegittimità della legge 132/2018 si veda: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/10/ASGI_DL_113_15102018_manifestioni_illegittimita_costituzione.pdf

[7]  Si veda il resoconto delle procedure osservate presso l’hotspot di Messina: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/02/resoconto-sintetico-messina.pdf

[8] Si veda l’approfondimento sulla situazione dell’hotspot di Lampedusa: http://www.indiewatch.org/wp-content/uploads/2018/11/Lampedusa_web.pdf

12/06/2019
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