Magistratura democratica
Editoriali

L’altra metà
della magistratura

La politica delle quote si rivela se non indispensabile, comunque immediatamente efficace per il raggiungimento di un obbiettivo che si ritiene ormai ineludibile. Deve preoccupare l’irrisoria presenza delle donne in posizioni decisionali della magistratura, negli organismi di autogoverno e nell’associazionismo
L’altra metà<br />della magistratura

1.

Nel 1945 le donne francesi votavano per la prima volta e il 21 novembre di quell’anno usciva il numero 1 di “Elle” con un’editoriale della sua mitica fondatrice, Hélène Lazareff, dal titolo Francia record del mondo di deputate; erano state elette, infatti, 32 donne su 575 deputati, una rappresentanza ben più sostanziosa che negli USA (9 su 426 al Congresso) o in Gran Bretagna (50 su 617 ai Comuni), dove pure le donne godevano dei diritti elettorali fin dagli anni ’20. Nel commentare i risultati anche alla luce del sistema elettorale, la Lazareff  ricordava la risposta data dal Presidente Roosvelt a chi si meravigliava del ruolo così poco importante giocato dalle donne nella politica degli Stati Uniti, dopo oltre un quarto di secolo di vita pubblica: «A noi piace che le donne votino ma non che si voti per loro», «E perché?»,  «Perché siamo femministi ma mica idioti!».

Le spregiudicate risposte del Presidente (non era ancora l’epoca del  “politicamente corretto”)  mantengono una loro intima e inconfessabile attualità.

Nonostante notevoli passi avanti (soprattutto sul terreno della tutela del lavoro e della maternità), l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne e la rimozione degli ostacoli che ad essa si frappongono sono ancora nel nostro Paese, dopo quasi sessant’anni di vita repubblicana, un obbiettivo non pienamente conseguito; a ciò non è estraneo il fatto che ogni posto dato ad una donna è un posto tolto ad un uomo (come osserva Miriam Mafai, commentando la modifica dell’art. 51, 2° co. Cost. secondo cui “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” - La Repubblica, … febbraio 2003).

Liberalizzazione dei costumi e parità nell’acceso a istruzione e occupazione sono  risultati importanti e acquisiti, ma, a ben guardare,  l’uguaglianza spesso si scolora in illusione e la realtà è assai più dura: gli interventi strutturali sul mercato del lavoro e la rescissione economica colpiscono soprattutto le donne, la polimorfa flessibilità del rapporto di lavoro (scelta spesso irrinunciabile, in assenza di servizi pubblici adeguati, per conciliare il lavoro con la cura della prole e degli anziani) ne diminuisce la tutela pensionistica, il numero delle donne in posizioni decisionali è esiguo (tanto che la Commissione Europea ha fissato questo tema per i progetti da finanziarsi per il 2004 nell’ambito del programma comunitario di promozione dell’uguaglianza tra uomini e donne), la rappresentanza negli organi politici ci pone al livello degli Stati in via di sviluppo, l’imposizione masmediatica di un modello femminile incentrato su bellezza futilità e seduzione pone inquietanti interrogativi sul ruolo che si vorrebbe per la donna nella società (avrà ragione Fatima Mernissi, sociologa marocchina, quando afferma che la “taglia 42” è il velo delle donne occidentali?).

Ai problemi che investono l’universo femminile non sfugge la magistratura.

Dietro la cortina fumogena della valanga rosa delle vincitrici degli ultimi concorsi (ormai attestate oltre il 50% e in continua ascesa), testimone della parità di opportunità nell’accesso mediante concorso, si celano numerosi problemi, tra i più rilevanti: l’irrisoria presenza delle donne in posizioni decisionali, un’insufficiente garanzia di tutela della maternità, la sottorappresentanza negli organismi di autogoverno e nell’associazionismo.

Su questi problemi Magistratura Democratica vuole aprire - al suo interno, ma anche con l’ANM e il CSM – un ampio dibattito ed una riflessione, per individuarne i confini, le ragioni e soprattutto le soluzioni.

2.

Com’è ben noto, le donne hanno avuto accesso alla magistratura ordinaria soltanto dal 1965 (il primo decreto di nomina di donne è del 5.4.1965); da allora l’incremento della presenza femminile è stato costante e inarrestabile: le donne erano 207 su 6.999 nel 1971 (2,95%), 708 su 6.812 nel 1981 (10,3%), 1.264 su 7.282 nel 1988 (17,4%), 2421 su 8387 nel 1995 (28,9%), 2986 su 8704 ossia il 34,3 % nel 2000 e sono oggi 3472 su 9.115: il 38,9 %. Ancora più significativa appare tale presenza, se si considera la distribuzione per genere in relazione all’età: nella fascia di età oltre i 40 anni le donne sono il 20%, nella fascia tra i 35 e i 40 il 49,6%, in quella tra i 30 e i 35 il 53,2%, mentre tra i magistrati con meno di trenta anni le donne rappresentano il 57,2 %.

Tali dati spiegano sufficientemente la distribuzione delle donne magistrato in primo e in secondo grado, dove rappresentano rispettivamente circa la metà ed un quarto degli effettivi  ; non spiegano, invece, tenuto conto dell’anzianità di servizio e dell’età media necessarie per l’accesso, il risibile numero di donne in posizioni decisionali e all’interno della S.C.; infatti, le donne titolari di uffici semidirettivi sono 51 (7,6%) contro 665 uomini  e le donne titolari di uffici direttivi sono 23 (5,4%) contro 421  dirigenti uomini ; di queste ultime, inoltre, 15 ricoprono uffici minorili (11 Pres. T.M. e 4 Procuratori) e 2 sono Presidenti di Tribunali di Sorveglianza e quindi ben 17 su 23 dirigono uffici (a torto o a ragione) comparativamente meno ambiti, mentre le restanti 5 hanno la dirigenza di uffici piccoli e medio-piccoli; le donne con funzioni di consigliere di cassazione sono 16 (6,1%) su 260 effettivi e una soltanto (2,5%) su 39 svolge funzioni di sost. PG.

Si tratta di una situazione analoga a quella delle donne magistrato francesi e spagnole, mentre (tra i Paesi dell’UE con caratteristiche ordinamentali almeno in parte omogenee alle nostre) solo la Germania si distingue in positivo, applicandosi alla magistratura la norma generale del pubblico impiego secondo cui a parità di titoli e risultati prevalgono le donne (una disposizione con funzione promozionale, che, rassicurando le donne sull’assenza di possibili discriminazioni di genere, ne favorisce la partecipazione a selezioni e concorsi).

Il fenomeno, per quanto concerne il nostro Paese, è stato tradizionalmente minimizzato e non è stato conseguentemente analizzato ; a tale mancanza è indispensabile porre rimedio, verificando se le donne risultino discriminate in sede di assegnazione degli uffici (e le ragioni dell’eventuale discriminazione) ovvero se vi sia un deficit di partecipazione da parte delle donne ai concorsi per l’assegnazione degli uffici direttivi e semi-direttivi, accertandone le cause e quindi predisponendo azioni positive atte a rimuoverle.

Per completare il quadro della tipologia della presenza femminile in magistratura, è peraltro necessario estendere l’attenzione ad altri dati.

Mentre la partecipazione all’attività di formazione e aggiornamento professionale vede parimenti impegnati uomini e donne (le presenze agli incontri di studio realizzati a livello centrale sono esattamente proporzionali al rapporto maschi/femmine), scarsa è la partecipazione attiva delle donne all’attività di formazione: nel Comitato Scientifico solo 3 (15%) componenti su 20 sono donne (14 magistrati + 6 professori); su 62 formatori distrettuali le donne sono17 (27,4%); la differenza nelle nomine a relatori negli incontri di studio è poi notevolissima: nel 2000, 502 uomini e 95 donne; nel 2001, 552 contro 84; nel 2002, 537 a 101; nel 2003 (periodo gennaio-maggio) 287 a 57, una presenza stabilmente inferiore a 1/5.

Interessanti (e corrispondenti) anche i dati sugli incarichi stragiudiziari: da inizio consiliatura al 12 marzo 2003 sono stata date 532 autorizzazioni (per totali 6213 ore) per incarichi nella scuole di specializzazione per le professioni legali (251 per ore 2450), università (110 per ore 1794) e altri corsi (forze di polizia, ASL etc, 171 per ore 1969); gli incarichi conferiti alle donne sono solo 91 per 815 ore pari al 13% del totale.

3.

Se poi si affronta il problema della rappresentanza femminile nel campo dell’attività politica e associativa, i dati oggettivi appaiono di ancora maggiore evidenza e significatività.

Sia chiaro, la sottorappresentanza femminile è dato comune ed endemico a tutta la politica nazionale: recenti inchieste giornalistiche  denunciano infatti la situazione di un Paese, il nostro, in cui “La percentuale di donne elette in Parlamento non ha mai superato il 13%. Oggi è al 9,8% e occupa il penultimo posto nelle assemblee parlamentari dell’Unione Europea, guidate dalla Svezia con il 42,7%... Nella rosa del governo italiano, su 23 ministri solo 2 sono donne, Letizia Moratti, ministro della pubblica istruzione,  e Stefania Prestigiacomo, titolare del dicastero delle Pari Opportunità”.

Ma si tratta di un fenomeno  non nuovo: già con le elezioni del 1996 si era registrata una vera e propria caduta della presenza femminile nel parlamento italiano, caduta che era stata letta come l’aspetto più vistoso di un generale e diffuso declino della partecipazione alla politica da parte delle donne, declino che in particolare ha riguardato l’area della sinistra in cui tale presenza era stata dagli anni ottanta, particolarmente forte e, almeno ritualmente, incoraggiata .

Non rientra certo tra gli obbiettivi di questo scritto quello di individuare ed indicare le possibili cause di questo generale stato di cose: ma è  di qui che, prima di venire ad esaminare la particolare situazione della presenza femminile negli organismi rappresentativi della magistratura italiana, occorre partire per un esame degli strumenti e delle misure che sono stati prospettati per vincere, o quantomeno cercare di contrastare, un dato che si presenta, più che in termini di sottorappresentanza del genere femminile, quasi nel senso equivalente ad una vera e propria esclusione.

Tra queste misure, le più famose, e le più discusse, sono senza dubbio quelle delle cd. “quote” garantite per le donne: sulla cui opportunità, e utilità ai fini della causa femminile, e più in generale, della democrazia, molto si è discusso e si discute, e non solo in Italia  .

Il Legislatore italiano, nel 1993, con la L. n.81, ha introdotto all’art. 5 comma 2 il principio per cui “nelle liste dei candidati nessuno dei sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi”. La ratio di tale previsione trovava chiara espressione nei lavori preparatori: essa mirava, nelle intenzioni del legislatore, a “superare un grave deficit della nostra democrazia, una distorsione vera e propria della rappresentanza politica che vede le cittadine, quindi la componente femminile della collettività, fortemente sottorappresentate nelle assemblee collettive” .

La scelta normativa è stata poi portata avanti anche  per il sistema elettorale della Camera dei Deputati, con la L. n.277/1993, che stabiliva che le liste presentate a livello regionale, e contenenti più di un nome, dovevano essere “formate da candidati  e candidate in ordine alternato” (art. 4, comma 2, ultimo periodo).

Il percorso che sembrava essere stato intrapreso in termini così netti ed univoci dal nostro legislatore, è stato però bruscamente interrotto, nel 1995, dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 422 , che ha annullato la disposizione di cui alla L. 81/1993, in relazione alla quale il Consiglio di Stato aveva sollevato l’eccezione di costituzionalità, e tutte le altre disposizioni di legge contenenti la previsione di quote riservate in ragione del sesso.

Secondo la Corte Costituzionale, per vero, la riserva di una quota di candidature nelle liste elettorali ai candidati di ciascun sesso contrastava non solo con il principio della parità fra i sessi in materia di elettorato attivo sancito dall’articolo 51 della nostra Costituzione, ma anche con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, comma 2, datosi che disposizioni di tal genere “non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere  determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi”. In questo modo, “la disparità di condizioni (...) non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso”.

La pronuncia della Corte è stata al tempo variamente commentata e criticata, avendo suscitato nei fatti un dibattito acceso che riguardava  l’essenza stessa, e la giustificatezza, di una politica di “quote”: ma, se non è qui e adesso che di questo dibattito conviene occuparsi, dobbiamo invece far capo, anche per riavvicinarsi al tema da cui si era partiti, ad un altro passo saliente della decisione, che non è certo indifferente ai nostri fini.

Scrive infatti la Corte a proposito della riserva di quote: “Misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature”. Addirittura, secondo la Corte, risulta auspicabile “un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare”.

Dunque è la stessa Corte Costituzionale, nel momento stesso in cui sanzionava di illegittimità costituzionale le norme di legge ordinaria che introducevano le “quote riservate” alle candidature femminili, ad indicare questo strumento come mezzo qualificante per la realizzazione dell’obbiettivo di una crescita, prima di tutto numerica, della partecipazione femminile alla vita politica: e sembra questa una significativa riprova della fondatezza dell’assunto da cui si è partiti, per cui, indipendentemente dalla condivisibilità o meno degli argomenti sposati dalla sentenza n.422/1995, una riserva di posti destinati alle donne nelle candidature per le cariche politiche è il passaggio iniziale obbligato, perché finalmente la componente femminile possa raggiungere livelli numerici in qualche modo adeguati all’effettiva consistenza dell’elettorato attivo.

Nello stesso senso si sta muovendo  da ultimo anche l’attività della magistratura associata: il Comitato Direttivo Centrale uscente dell’Associazione Nazionale Magistrati, raccogliendo un’indicazione in tal senso del Comitato Pari Opportunità, ha rivolto alle proprie diverse componenti la raccomandazione di candidare, in occasione delle elezioni svoltesi nel maggio 2003, almeno un terzo di colleghe.

Solo Magistratura Democratica ha raccolto e condiviso questa sollecitazione, presentando 14 candidate nella propria lista, ed anzi, spingendosi oltre, fornendo espressa indicazione di voto nei confronti di tre colleghe, per diverse aree territoriali, allo scopo dichiarato di favorirne l’elezione nel Comitato direttivo centrale di prossima costituzione. L’obbiettivo è stato pienamente raggiunto, ed oggi il CDC dell’Associazione conta, su trenta componenti, quattro donne in tutto, di cui tre elette nella lista di MD.

I dati parlano ancora una volta da soli: la politica delle quote si rivela se non indispensabile, comunque immediatamente efficace per il raggiungimento di un obbiettivo che si ritiene ormai ineludibile.

Ma si tratta di un’azione che non potrà essere riservata di qui in avanti all’iniziativa singola di partiti od associazioni: la riforma costituzionale degli artt. 117 prima , e dell’art. 51  poi, investe chiaramente il soggetto pubblico, Regione o Stato, dell’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a promuovere le parti opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive.  

Quote anche per legge, dunque (anche se non solo quelle, evidentemente): per rendere anche alla componente femminile quella parità sostanziale nell’accesso alla rappresentanza politica. Un trend  che pare ormai inarrestabile, cui certo non si può sottrarre l’attività associativa della magistratura, soprattutto da parte delle componenti più avanzate.

4.

Che prospettive dare a questa maggiore presenza femminile negli organi rappresentativi?

La domanda, oltre a non essere di per sé semplice, dà  un senso a tutto quello che si è sin qui detto a proposito della necessità di adottare azioni positive che favoriscano l’incremento della partecipazione femminile nell’attività politica all’interno delle organizzazioni associative che agiscono all’interno della magistratura.

La vivacità delle discussioni che si aprono tutte le volte in cui si affronta il tema dell’opportunità di introdurre un sistema di quote riservate, dimostra, se ancora ve ne fosse bisogno, che non vi è consenso, e innanzitutto fra le donne, né nei confronti dello strumento in sé e della sua efficacia, né sul più generale tema della rilevanza del genere rispetto al problema della rappresentanza .

Alla prima serie di problemi, crediamo di avere risposto  con il limitato, ma efficace esempio delle recenti elezioni associative: una politica di quote riservate da parte di Magistratura Democratica ha elevato la presenza femminile tra i componenti del Comitato direttivo centrale dell’ANM eletti nella propria lista, sino a una percentuale mai raggiunta prima.

Il secondo argomento è molto più spinoso, e per essere superato necessita di uno sforzo argomentativo di ben maggiore creatività ed originalità.

Bisogna partire dal presupposto, a volte inconfessato, da cui a ben vedere, parte tutta la polemica successiva: la maggior presenza delle donne nella rappresentanza politica, fa davvero una qualche differenza? Porta argomenti diversi nelle discussioni, incide sul risultato pratico, aiuta il genere femminile?

A noi pare che, prima di tentare una risposta (non facile) a questo tipo di domande, sia doveroso affermare, e con chiarezza, che comunque importa in termini di giustizia sostanziale che ci siano più donne nel sistema della rappresentanza, in generale,  ed anche per quel che concerne lo specifico della magistratura, e questo secondo i normali parametri che definiscono il tasso di democrazia di ogni sistema.

Ma poi occorre calarsi nella realtà concreta dell’ordinamento giudiziario di oggi: a cui si accede attraverso un concorso che procede ad una selezione essenzialmente tecnica ed impersonale delle capacità dei candidati, e che quindi prescinde dalla considerazione del genere, sì da far ritenere comunemente che appunto l’ingresso in magistratura non conosce discriminazioni per ragioni di sesso (e che anche questo costituisce uno dei motivi della crescente proporzione degli ingressi delle candidate di sesso femminile, che ormai superano il 50%).

Rispetto a questa sempre  crescente “femminilizzazione” dei ruoli, allora, appare ancora più clamorosa la pressoché inesistente richiesta di una rappresentanza di genere: come se l’ingresso in una professione significativa per rilievo sociale e sicurezza economica sia risultata appagante rispetto ad ogni aspettativa, rispetto al ruolo lavorativo ed all’impegno pubblico, e che dunque non vi siano più stimoli per obbiettivi ulteriori.

Ma qui sta il punto: questa mancanza di ulteriori obbiettivi, è  da riferirsi  ad autolimitazioni dovute ai carichi familiari, a mancanza di autostima, oppure a disinteresse per determinati tipi di posti di potere ? C’è qualcosa nell’impegno lato sensu politico nella vita pubblica  che respinge le appartenenti al genere femminile, che le fa sentire estranee, indifferenti, incapaci di incidere?

Su questi interrogativi occorre incominciare a lavorare, per far sì che la maggior presenza delle donne in termini numerici riesca ad orientare anche un cambiamento dei tempi e dei modi di fare politica, dei linguaggi che si usano ritualmente, e soprattutto, dei contenuti, per dare un significato concreto ad una rappresentanza di genere che si affermi di per se stessa come elemento indispensabile di partecipazione e di progresso.

30/01/2013
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