Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

L’accordo sindacale sulla rappresentanza tra aperture democratiche e velleità normative

di Sergio Mattone
già presidente di sezione Corte di cassazione e componente del Comitato Scientifico di Questione Giustizia
Ancora una volta ricadrà sui giudici del lavoro il peso di sciogliere
le contraddizioni dietro il "Protocollo di intesa sulla rappresentanza
e rappresentatività" stipulato il 31 maggio
L’accordo sindacale sulla rappresentanza tra aperture democratiche e velleità normative

1.- Al fine di un’adeguata valutazione del Protocollo di intesa sulla rappresentanza e rappresentatività, stipulato il 31 maggio scorso tra la Confindustria ed i tre sindacati confederali (Cgil, Cisl ed Uil), occorre inevitabilmente fare un passo indietro e soffermarsi quanto meno sui contenuti del precedente accordo interconfederale del 28 giugno 2011.

A voler considerare soltanto i suoi aspetti più rilevanti, va ricordato anzitutto che, in una fase in cui erano venuti meno i capisaldi dell’ordinamento sindacale, quel primo Accordo aveva avuto l’indubbio merito di muoversi in direzione di un recupero del carattere “genuino” della rappresentatività sindacale, ricollegando la legittimazione a negoziare a livello nazionale ad una determinata soglia (il 5% dei lavoratori ai quali si sarebbe applicato il contratto collettivo), calcolata attraverso un mix tra consistenza associativa e consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.).

Nel testo mancava, in realtà, una regolamentazione della procedura relativa alla conclusione ed all’efficacia del contratto collettivo ai fini della sua validità, ma era ragionevole ritenere che tale lacuna sarebbe stata colmata – come infatti è accaduto - da un successivo accordo integrativo.

Ben più grave era stata invece considerata, da una parte cospicua del movimento sindacale e dei giuslavoristi di area progressista, la totale mancanza di disciplina di qualsiasi forma di consultazione da parte dei destinatari del contratto collettivo nazionale ed in particolare di quel referendum confermativo che legittimamente veniva avvertito come insopprimibile espressione di una istanza di partecipazione emersa con prepotenza anche nelle ultime vicende politiche del Paese.

Altro punto dolente era quello rappresentato dalla presenza delle c.d. clausole di tregua sindacale, le quali potevano essere definite dai contratti aziendali secondo specifiche modalità ed erano vincolanti nei confronti di tutte le rappresentanze sindacali firmatarie di quell’accordo, operanti all’interno dell’azienda.

Clausole che erano state giudicate inaccettabili da quelle organizzazioni, esterne o interne alla galassia sindacale (tra le quali ultime, in particolare, la Fiom), che ritenevano che la dignità del lavoro non potesse essere tutelata in presenza di una privazione in danno dei sindacati dei suoi tradizionali contropoteri, il più importante dei quali è stato sempre costituito dal diritto di sciopero.

Per di più, l’affidamento delle clausole di tregua alla contrattazione “di prossimità” veniva ritenuta fonte di ulteriori rischi in quanto è notorio che in tante realtà aziendali, soprattutto se di modeste dimensioni, le organizzazioni sindacali hanno una minore capacità di resistenza e possono, quindi, più facilmente cedere alle pressioni della controparte imprenditoriale.

Quest’ultimo rilievo investiva in realtà, insieme ad altre osservazioni critiche di non minor peso, tutta la parte dell’accordo che si riferiva alla contrattazione aziendale, alla quale venivano attribuite una “competenza” quanto mai estesa ed una efficacia di carattere generale, ove approvata dalla maggioranza dei componenti delle rsu ovvero, in loro assenza, delle rappresentanze sindacali aziendali maggioritarie (salva, in tal caso, la successiva validazione in sede referendaria).

Né può trascurarsi al riguardo che, a distanza di pochi mesi dalla conclusione di detto accordo, era stato approvato il d.l. n.138/2001, poi convertito nella l. n.148/2001, che nonostante le differenze tra di loro esistenti avevano un tratto comune, legittimando entrambi “uno spostamento di potere regolativo dei rapporti tra capitale e lavoro dal livello del contratto collettivo nazionale di categoria a quello aziendale” (M.Barbieri, Il rapporto tra l’art.8 e l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in Riv.giur.lav., 2012. I, p.461).

2.- Recependo almeno in parte le pressioni esercitate in questi ultimi due anni in ambito politico e sindacale, l’accordo di fine maggio (che nel suo complesso è stato valutato in termini positivi anche dalla Fiom, ma non dai sindacati di base) ha ribadito anzitutto che le oo.ss. che rappresentano almeno il 5% dei lavoratori interessati (percentuale calcolata secondo il criterio “misto” in precedenza richiamato) hanno il diritto di partecipare alla negoziazione in sede nazionale, impedendosi così che il datore di lavoro possa a proprio arbitrio individuare i suoi interlocutori.

Colmando la lacuna contenuta nel Protocollo del 2011, l’accordo del 2013 opportunamente ha stabilito, poi, che la soglia da superare perché i contratti collettivi nazionali siano “ efficaci ed esigibili” (punto 3) è quella del 50%+ 1 dei lavoratori; ma soprattutto sembra aver voluto recepire, per la prima volta quanto al livello nazionale, un principio di grande importanza quale quello della partecipazione diretta dei lavoratori al processo di formazione del contratto collettivo.

La cautela è d'obbligo perché non si è affermato in modo esplicito che la validità degli accordi sarà condizionata alla loro approvazione da parte della maggioranza dei lavoratori a cui essi si intendono applicare (né si è ricorso ad altra espressione di pari chiarezza), ma si è stabilito testualmente, con un linguaggio piuttosto involuto, che quei contratti collettivi saranno – come detto – efficaci ed esigibili “previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori, a maggioranza semplice”; e per di più, quanto alle modalità della consultazione referendaria, si è rinviato alle intese da assumersi successivamente dalle singole categorie, laddove sarebbe stato preferibile sancire già in quella sede alcuni criteri preordinati a garantire la regolarità e la genuinità delle votazioni.

E’ da apprezzare senza riserve, invece, la netta opzione in favore della costituzione del sistema organizzativo fondato sulle r.s.u., vale a dire di organismi costituiti su base schiettamente elettorale (laddove nel Protocollo del 2011 vi era stata un’apertura di credito in favore delle r.s.a), opzione che si colloca nel solco delle linee-guida che erano state definite nello “storico” accordo interconfederale del 1993, che era stato messo in crisi dai convulsi avvenimenti dell’ultimo biennio.

E proprio in riferimento alle r.s.u., per chiunque abbia costantemente ritenuto che non solo a livello politico, ma anche rispetto all'ordinamento sindacale, il cardine di ogni elezione dei propri rappresentanti deve essere costituito dal sistema proporzionale, è motivo di soddisfazione constatare che sia stato eliminato, per la loro costituzione, il criterio, ormai divenuto realmente anacronistico, secondo il quale un terzo dei seggi era riservato alle oo.ss. firmatarie del contratto collettivo nazionale.

3.- Se non mancano, dunque, nel più recente accordo sindacale numerosi elementi positivi che, se in futuro debitamente valorizzati, dovrebbero riaprire un dialogo tra la base ed i vertici sindacali e restituire così alle oo.ss. quel ruolo che anch’esse hanno rischiato di perdere nel generale marasma della “crisi” della politica, non possono tuttavia tacersene i limiti, che si possono cogliere in prima approssimazione sotto tre aspetti, peraltro di non secondaria importanza.

Il primo attiene al deficit di democrazia che tuttora persiste riguardo alle organizzazioni sindacali minori, le quali, ove non raggiungano la soglia del 5%, determinata con il sistema misto in precedenza richiamato, non sono ammesse neppure al tavolo delle trattative in sede di rinnovo contrattuale.

Prospettiva, questa, che ha provocato una vivace reazione nelle Unità sindacali di base (Usb), le quali hanno tra l’altro messo in risalto una grave incongruenza, costituita dalla circostanza che, non avendo i sindacati non firmatari del contratto nazionale diritto alle ritenute in busta-paga che vengono compiute per ogni lavoratore ad essi associato (si tratta della c.d.delega), essi sono conseguentemente esclusi dalla possibilità di far pesare i propri iscritti ai fini del conteggio utile per il superamento della soglia di sbarramento.

Ma al di là dei problemi connessi alla misurazione del peso elettorale, la condizione dei sindacati di base – se mal non si interpreta quanto si è sancito nell'accordo in questione – sembrano destinati comunque a restare fuori del “salotto buono”.

Nel paragrafo dedicato alla Titolarità ed efficacia della contrattazione, si legge infatti (punto 1) che “sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le Federazioni delle oo.ss. firmatarie del presente accordo che abbiano...una rappresentatività non inferiore al 5%...”, sì che, essendo notorio che i sindacati di base non aderiscono agli accordi interconfederali, gli stessi sembrerebbero naturaliter esclusi dal circuito negoziale, “a prescindere - come è stato osservato da un esponente del Forum diritti-lavoro – da qualsiasi grado di effettivo consenso da parte dei lavoratori” (C.Guglielmi, Verso quale nuovo accordo interconfederale di democrazia e rappresentanza http://www.dirittisocialiecittadinanza.org/).

Il secondo profilo di insufficienza concerne la totale disattenzione, da parte del recente accordo, nei riguardi di quello del giugno 2011 per la parte in cui esso aveva disciplinato – come detto in precedenza - la contrattazione di prossimità (aziendale e territoriale).

Dopo quella vera e propria valanga di giudizi critici espressi nei suoi confronti (non solo dalla Fiom e dalle Usb, ma anche da gran parte della dottrina giuslavorista), era ragionevole attendersi che vi sarebbe stata, in occasione di una nuova intesa a livello interconfederale, una correzione di rotta in relazione ai suoi contenuti più discutibili.

Viceversa, è rimasta ferma la previsione circa la non assoggettabilità a referendum degli accordi sottoscritti a maggioranza dalle rappresentanze sindacali unitarie, con il paradossale risultato che sarebbero ora sottoposti alla consultazione della base i contratti collettivi nazionali e non quelli stipulati in sede locale da detti organismi, spesso privi – come si è accennato – della forza contrattuale necessaria a raggiungere delle mediazioni accettabili.

Inoltre, la stipulazione delle clausole di tregua, che comportano la “piena esigibilità dell'intesa per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie”, è stata estesa al livello nazionale, evidentemente nell'ambito di una istanza di pacificazione che, oltrepassata la sfera politica, dovrebbe riversarsi a macchia d'olio nel sociale.

Il terzo e più importante aspetto critico dell'accordo va al di là della sua valutazione nel merito ed investe – per così dire - la sua credibilità quale fonte normativa (Un colosso dai piedi di argilla, è stato significativamente definito da P. Alleva in un commento a caldo apparso sul manifesto del 2 giugno scorso).

L'enfasi posta dai suoi artefici (e dai loro più convinti sostenitori) nel sottolinearne l'idoneità ad agire da regolatore dell'ordinamento sindacale deve fare i conti, anzitutto, con il nuovo panorama che si è venuto realizzando nelle relazioni industriali.

Da un lato, l'adesione delle imprese alla Confindustria non ha più quel carattere totalizzante del passato (e l'uscita da essa della Fiat rappresenta un'eccezione di così vasta portata da incidere di per sé sulla capacità salvifica dell'accordo). Dall'altro, l'intesa non coinvolge ovviamente i sindacati non confederali, con la conseguenza che non si potrà escludere neppure in futuro la presenza di contratti separati, né l'adeguazione dei lavoratori aderenti a quelle organizzazione alle regole prescrittive definite nelle clausole di tregua.

Il nodo più complesso ed intricato è rappresentato, però, dalla assai dubbia compatibilità dell'accordo con il quarto comma dell’art.39 Cost., essendo necessario chiedersi se l'efficacia erga omnes di un contratto collettivo possa darsi in assenza dell'attuazione di quella norma, che - come è ben noto – condiziona quel risultato ad uno specifico meccanismo regolativo.

Il problema si è posto anche di recente, quando l'accordo del 2011 ha inteso attribuire quella efficacia ai contratti stipulati a livello locale; ed in tale occasione si è tentato di aggirare l'ostacolo sostenendosi – tra l'altro – che l'art.39 non troverebbe applicazione nei confronti degli accordi aziendali.

Ma a prescindere dalla debolezza di quella tesi (che contrasta anzitutto con il tenore letterale della norma, la quale – come ebbe ad osservare Gino Giugni - compie un secco riferimento ai contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva), qui non sembra praticabile alcuna scorciatoia ed il problema si presenta, quindi, in tutto il suo spessore: è facile prevedere, pertanto, che non soltanto i lavoratori aderenti ai sindacati non confederali, ma anche i c.d. “cani sciolti”, potranno rivendicare la non vincolatività nei loro confronti dei contratti collettivi sottoscritti in ambito confederale (salvo che in senso contrario deponga il loro comportamento concludente).

Il copione è noto. Nell'inerzia illimitata dei partiti, che non hanno neppure iscritto nei loro programmi – a quanto consta - una legge di attuazione dell'art.39, ricadrà ancora una volta sui giudici del lavoro il peso di sciogliere quelle contraddizioni e di esercitare quell’inevitabile potere di supplenza che una parte delle forze politiche strumentalizzerà subito dopo per tentare di incidere sull’indipendenza della giurisdizione.

 

21/06/2013
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