Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

L’abuso del processo penale

di Luigi Pacifici
sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli<br>dottore di ricerca in diritto e procedura penale
L’abuso del processo costituisce una valvola di autotutela per l’ordinamento, elaborata, in ambito dottrinale e giurisprudenziale, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pur a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta

1. Cenni sull’abuso del diritto

L’abuso del processo affonda le sue radici nella teoria generale del diritto e, in particolare, nella nozione di abuso del diritto. Come può evincersi dalla radice etimologica del termine (ab-uti), con tale locuzione, sviluppata soprattutto in ambito civilistico, si indica un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto, del diritto soggettivo, il cui riconoscimento implica l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione, di libertà e di forza [1]. Di regola, infatti, chi esercita un diritto soggettivo non è tenuto a compensare gli altri degli eventuali pregiudizi che il corretto esercizio di tale diritto possa eventualmente provocare a loro danno (qui iure suo utitur neminem laedit). Alcune disposizioni vietano, però, il suo esercizio anormale, nel senso di utilizzo del diritto per uno scopo diverso da quello per cui è previsto.

Nel codice civile vigente non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del diritto. Tale scelta, da un lato, è una diretta conseguenza della cultura giuridica degli anni ’30, secondo cui l’abuso del diritto, più che una nozione giuridica, era un concetto di natura etico-morale, suscettibile di biasimo, ma non di sanzione giuridica; dall’altro lato, la mancata previsione discende dalla preoccupazione per la certezza del diritto e dalla conseguente sfiducia verso le clausole generali, in grado di attribuire al giudice margini di discrezionalità talmente ampli da sfociare nell’arbitrio. Per tali ragioni, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, non fu trasfusa quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto».

Con questa soluzione il codice italiano si poneva in contrasto con la legislazione di altri ordinamenti, in particolare tedesco e svizzero, contenenti, per contro, una norma repressiva dell’abuso del diritto. Il modello tedesco reca, infatti, la regola, frutto di generalizzazione dell’antico divieto di atti di emulazione, secondo la quale «l’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri»; l’art. 2 del codice civile svizzero ha adottato la più ampia formulazione secondo la quale «il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge».

Il legislatore del ’42, invece, ha preferito, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di diritti (ad es. artt. 330; 833; 1015; 2793; 1059, comma 2; 1175; 1375; 1993, comma 2 cc).

Tale scelta ha comunque indotto un perdurante dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, volto a verificare se le norme citate siano espressioni di un principio più generale, insito ed immanente all’ordinamento (e per questo non codificato), o se piuttosto siano settoriali e rappresentino un’eccezione alla regola generale per la quale l’esercizio del diritto è sempre legittimo (in ossequio al brocardo qui iure suo utitur neminem laedit). Tali differenti opzioni ermeneutiche nascondono contrastanti approcci culturali, finalizzati a privilegiare, nel primo caso, l’esigenza di adeguare il dato positivo ai nuovi valori emergenti nella coscienza collettiva (anche alla luce del principio di solidarietà sociale, di cui agli artt. 2 e 41, comma 2 Cost., nonché della funzione sociale della proprietà, ex art. 42, comma 2 Cost.) e, nel secondo caso, l’esigenza di certezza del diritto e di tutela delle libertà individuali (art. 13, comma 1 e art. 41, comma 1 Cost.).

2. L’abuso del processo

2.1 Premessa

L’abuso del processo rappresenta una specificazione dell’abuso del diritto, con particolare riguardo al versante processuale, fungendo da valvola di autotutela dell’ordinamento, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pur a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta [2].

La nozione è stata elaborata dapprima nell’ambito del processo civile, con la storica pronuncia delle Sezioni unite n. 23726 del 15 novembre 2007 [3], la quale, in materia di diritto di azione, ha chiarito che nessun procedimento possa essere ricondotto alla nozione di processo giusto (art. 111 Cost.) ove sia il frutto dell’«esercizio del diritto di azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell’attribuzione al suo titolare, della potestas agendi».

In ambito sovrannazionale l’articolo 35, § 3 (a) (già 35, § 3 e prima 27) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce l’irricevibilità di ogni ricorso individuale, presentato ai sensi dell’articolo 34, ove lo stesso risulti «incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo». La Corte di Strasburgo ha interpretato tale disposizione ritenendo abusivo (e dunque irricevibile) il ricorso quando la condotta ovvero l’obiettivo del ricorrente siano manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto. Al riguardo l’esplicazione della norma, divulgata dalla Corte di Strasburgo nella Guida pratica sulla ricevibilità [4], al punto 134, precisa: «La nozione di abuso ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) deve essere compresa nel suo senso comune contemplato dalla teoria generale del diritto ossia [come] il fatto, da parte del titolare di un diritto, di attuarlo al di fuori della sua finalità in modo pregiudizievole». Pertanto, è abusivo qualsiasi comportamento di un ricorrente manifestamente contrario alla vocazione del diritto di ricorso stabilito dalla Convenzione e che ostacoli il buon funzionamento della Corte e il corretto svolgimento del procedimento dinanzi ad essa.

In particolare, la pronuncia della Corte Edu del 18 ottobre 2011, Petrović c. Serbia, ric. n. 56551/11, ha tracciato la nozione di «abuso», ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione, come esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto.

Analogamente, la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue ha più volte stabilito che colui il quale si appelli al tenore letterale di disposizioni dell’ordinamento comunitario per far valere, avanti alla Corte, un diritto che confligge con gli scopi perseguiti dalle disposizioni, non merita che gli si riconosca quel diritto (cfr. in particolare sentenza 20 settembre 2007, causa C-16/05, V. Tum e M. Dari c. Secretary of State for the Home Department, punto 64; sentenza 21 febbraio 2006, causa C 255/02, Halifax e altri c. Commissioners of Customs & Excise, e ivi citate, a punto 68).

Alla luce della giurisprudenza delle Sezioni unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l’abuso del processo consiste, dunque, in un vizio, per sviamento, della funzione, assimilabile a quella che, in materia di diritti potestativi, viene definita talora come «frode alla funzione».

2.2 L’abuso del processo penale

Tanto premesso in termini generali, si deve dare atto che, nell’ambito del processo penale, la nozione di abuso è stata elaborata in modo approfondito con la pronuncia delle Sezioni unite n. 155 del 20 settembre 2011, la quale ha statuito che, quando si realizza uno sviamento della funzione, l'imputato, che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti. 

Nel caso di specie, nel giudizio di primo grado, si erano succeduti ben otto difensori dell’imputato, compreso quello che poi era tornato ad assistere lo stesso nella fase di appello e in Cassazione. Le ultime cinque rinunce e sostituzioni erano avvenute dopo che le parti avevano rassegnato le conclusioni ed il procedimento era stato rinviato solo per eventuali repliche del pubblico ministero, dato che l’imputato, dopo la discussione del suo difensore, aveva prodotto nuovi documenti. Le ultime sostituzioni del difensore erano addirittura successive alla rinuncia alle repliche da parte del pubblico ministero. A fronte di questo scenario, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che sarebbero stati gravemente lesi il suo diritto di difesa e il suo diritto a un equo processo, perché per quattro volte, a fronte di richiesta di termini formulata dal difensore appena nominato, sarebbero stati disposti rinvii non congrui e, nell’ultima occasione, sarebbe stato negato il rinvio, in violazione dell’art. 108 cpp.

Al riguardo si deve precisare che l’art. 108 cpp prevede la concessione di un congruo termine a difesa, con riferimento alle situazioni di difensore nominato d’ufficio o di fiducia in sostituzione del precedente, nei casi di rinunzia, revoca o incompatibilità. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della previsione, ha precisato che si tratta di un elenco tassativo di ipotesi, accomunate da una medesima ratio, ossia la privazione in via definitiva dell’assistenza del difensore. Ne consegue che, a parere della Consulta, non è possibile un’estensione della norma al diverso caso della mera assenza del difensore, in quanto il legale originariamente nominato, di fiducia o d’ufficio, è e seguita a rimanere l’unico titolare della difesa, sicché non può dirsi che l’imputato ne sia definitivamente privo [5]. Del resto, la prevalente giurisprudenza di legittimità sostiene che la mera assenza del difensore all’udienza non integri alcuna delle ipotesi contemplate dall’art. 108 cpp, con la conseguenza che non deve essere concesso alcun termine a difesa [6]. Dubbi sono sorti in relazione al concetto di mera assenza del difensore, poiché un’isolata pronuncia ha ritenuto che, in caso di legittimo impedimento non riconosciuto dal giudice, deve essere concesso il termine a difesa, ex art. 108 cpp, all’avvocato nominato in sostituzione del collega non comparso per legittimo impedimento (ritenuto insussistente). La prevalente giurisprudenza, tuttavia, non ha accolto tale tesi, evidenziando che, nel caso descritto, non vi è diritto al termine a difesa perché non vi è cessazione definitiva dall’ufficio del precedente difensore, come nelle ipotesi tassativamente contemplate dall’art. 108 cpp [7].

Tanto premesso sull’ambito applicativo dell’art. 108 cpp, si deve precisare che la disposizione non è espressamente accompagnata da una specifica sanzione di nullità in caso di sua violazione. Tuttavia, la pacifica giurisprudenza ritiene che l’eventuale violazione determini una nullità a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c) cpp, in quanto incide sull’assistenza dell’imputato [8].

Ciò posto, le Sezioni unite n. 155 del 20 settembre 2011, cit., hanno chiarito che non può dar luogo ad alcuna nullità il diniego dei termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti, quando nessuna reale menomazione ne derivi all’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica. L’art. 108 cpp, del resto, presuppone (ma non regola) i casi di revoca o rinuncia, limitandosi a disciplinare esclusivamente l’istituto del termine a difesa; pertanto sussiste il concreto rischio di uso arbitrario di tali facoltà, previste in modo generico dal legislatore. Per tali ragioni le Sezioni unite cit. hanno statuito che «l'uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli. In questo caso non soltanto la norma non legittima ex post eccezioni di nullità, ma va escluso, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto». 

Nel caso di specie, il supremo Collegio ha concluso che né il rigetto del termine a difesa, né i rinvii per un numero di giorni inferiori a quelli previsti dall’art. 108 cpp hanno prodotto alcuna nullità, non avendo determinato una reale lesione del diritto di difesa dell’imputato [9].

2.3 Le posizioni della dottrina

Sul tema dell’abuso del processo si sono delineate due contrapposte visioni, perfettamente simmetriche alle tesi elaborate in materia di abuso del diritto. Da un lato, infatti, vi è chi nega la sussistenza di una patologia processuale non prevista dalla legge e indeterminata tanto nella nozione, quanto negli effetti, intravedendo nella sua elaborazione rischi di derive verso l’arbitrio giurisprudenziale ed il paternalismo giudiziario. Con riguardo al processo civile, invero, si è osservato che la nozione di abuso è «vaga e sfuggente», in quanto rinvia al concetto di buona fede, che non è suscettibile di un’applicazione uniforme nei singoli casi concreti [10]. Inoltre, si è evidenziato che l’adozione di comportamenti conformi al modello legale non può determinare alcuna sanzione giuridica, salvo indebite commistioni tra morale e diritto che appaiono poche consone ad ordinamenti caratterizzati dal principio di legalità [11]. Infine, si è notato che l’attuazione di principi generali, come la ragionevole durata del processo, dovrebbe essere rimessa al legislatore, attraverso la predisposizione di norme chiare e puntuali, non certo alle parti del processo, peraltro attraverso una contrazione delle garanzie previste dal paradigma normativo [12].

Analogamente, in materia di processo penale, si è osservato che la nozione di abuso del processo è inevitabilmente indeterminata e come tale inidonea a delineare un vizio suscettibile di repressione [13]. In tale contesto si è rimarcato, con maggiore enfasi rispetto al processo civile, il fondamento autoritario dell’abuso del processo, in quanto strumento teso a limitare il diritto di difesa, attraverso l’imposizione di un latente dovere di collaborazione del difensore e l’aggiramento del principio di legalità processuale [14]. Tali profili hanno indotto ad evidenziare il rischio che, attraverso l’abuso del processo, si possa accentuare «l’autoritarismo giudiziale, già così diffuso in un processo fortemente segnato dalla disuguaglianza tutta a vantaggio della parte pubblica» [15].

In senso diametralmente opposto è stato espresso apprezzamento per l’elaborazione di un vizio, di origine extralegislativa, idoneo a far fronte a gravi condotte devianti, altrimenti destinate a rimanere prive di sanzione [16]. L’abuso del processo è stato quindi assimilato, da un lato, all’abnormità, quale patologia innominata che determina una stasi o una regressione del procedimento, in contrasto con il suo fisiologico evolversi verso una decisione finale [17], e, dall’altro, all’inesistenza, come forma di invalidità talmente macroscopica da essere sottratta a qualsiasi forma di tipizzazione e da determinare il superamento dell’apparente intangibilità del giudicato [18]. In questa prospettiva, l’abuso del processo risponde alla fisiologica esigenza di autotutela dell’ordinamento, imponendo sanzioni extra ordinem allo scopo di salvaguardare principi e valori costituzionali [19]. Mentre i vizi dell’atto processuale, come la nullità e l’inammissibilità, sanzionano la mancanza dei requisiti prescritti (e sono quindi soggetti al principio di tassatività) [20], l’abuso del processo si atteggia come patologia dello scopo, che mira ad evitare l’esercizio di diritti e facoltà per scopi estranei al sistema. Si tratta, all’evidenza, di una valvola di chiusura dell’ordinamento che ha come ineludibile presupposto la concreta lesione di beni costituzionali, quali la ragionevole durata del processo o il diritto ad un processo giusto. Il sacrificio del principio di legalità si giustifica, infatti, solo in presenza di palesi sviamenti e di evidenti pregiudizi ai valori costituzionali, non potendo essere sufficienti i casi equivoci e le semplici situazioni di pericolo [21]. Attraverso queste precisazioni la dottrina favorevole ha quindi cercato di contenere la portata del rimedio, procedendo ad un bilanciamento tra l’esigenza di autotutela dell’ordinamento e quella di certezza del diritto.

3. Le manifestazioni dell’abuso del processo penale

3.1 L’abuso del processo come sanzione innominata

Aderendo alla tesi favorevole all’elaborazione dell’abuso del processo, occorre interrogarsi sulla reale portata del rimedio e sulle forme nelle quali lo stesso possa manifestarsi.

Al riguardo, si deve in primo luogo osservare che le Sezioni unite Rossi [22] hanno costruito l’istituto in negativo, come sanzione innominata volta a negare il riconoscimento del diritto al termine a difesa, nei casi in cui le reiterate revoche del mandato difensivo abbiano finalità meramente ostruzionistiche e siano volte a difendersi dal processo e non nel processo, in palese contrasto con l’interesse dell’ordinamento e di ciascuna delle parti a un processo equo celebrato in termini ragionevoli. Il primo caso di abuso-sanzione consiste dunque nella negazione di diritti delle parti pur astrattamente riconosciuti dall’ordinamento, ma utilizzati in modo deviante.

Analogamente, con particolare riguardo alla parte pubblica, la suprema Corte ha negato il diritto-dovere del pm di contestare circostanze aggravanti ove l’esercizio di tale prerogativa sia volto unicamente ad aggirare l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione [23]. Nel caso in esame era stata chiesta ed ottenuta la revoca della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata per prescrizione del reato, mediante la contestazione di una circostanza aggravante che rendeva il reato imprescrittibile. La suprema Corte, adita in fase cautelare, ha chiarito che è legittima la revoca della sentenza di non luogo a procedere di un reato nel frattempo prescritto, se l’imputazione è riformulata contestando una circostanza aggravante che renda il reato non più estinto, purché detta circostanza aggravante sia ancorata ad elementi nuovi rispetto a quelli esistenti al momento della sentenza. Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza di applicazione della custodia cautelare in carcere, evidenziando la necessità di acquisire dati nuovi in ordine alla circostanza aggravante contestata dal pm con la richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere.

La giurisprudenza di legittimità ha costruito l’abuso del processo anche sotto forma di sanzione che opera, per così dire, in positivo, ossia attraverso il riconoscimento all’Autorità giudiziaria di poteri non espressamente tipizzati, che consentano al procedimento di proseguire nonostante gli atti ostruzionistici posti in essere da uno dei soggetti (o da una delle parti). È il caso, ad esempio, del consulente tecnico della difesa che aveva ostacolato per alcune ore, «con eccezioni ridicole, estranee alle sue competenze tecniche», le operazioni di accertamento autoptico sul cadavere della vittima, disposte dal pm ai sensi dell’art. 360 cpp. L’Autorità giudiziaria procedente, a fronte di tale atteggiamento ostruzionistico, aveva disposto l’allontanamento coattivo del consulente tecnico della difesa, al fine di consentire il celere svolgimento dell’atto urgente ed irripetibile. Avverso la sentenza di condanna l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, deducendo l’inutilizzabilità della consulenza autoptica sul cadavere della vittima per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., in relazione agli artt. 223 e ss. cpp, sul rilievo che l’allontanamento coattivo del consulente tecnico della difesa rileverebbe a titolo di nullità ex art. 178, comma 1, lett. c). Al riguardo, la suprema Corte, nel ritenere manifestamente infondato il motivo di ricorso, ha precisato che «il contraddittorio nel processo si fonda sulla leale contrapposizione delle parti ed in presenza di un palese abuso delle prerogative difensive, legittimamente può essere escluso il difensore ovvero il suo consulente dall’attività di indagine alla quale, peraltro, aveva una mera facoltà di assistere»[24]. Negli stessi termini, la Corte di cassazione ha ritenuto che integri un abuso del processo la richiesta, da parte della difesa, di citazione di testimoni a discarico, che ripetutamente non venivano citati per le relative udienze istruttorie. Nel caso di specie la suprema Corte ha ritenuto che la condotta abusiva fosse correttamente sanzionabile con una sospensione dei termini di prescrizione per tutto il tempo consumato dall’intervento defatigatorio della difesa, così di fatto neutralizzando l’artificio dilatorio e ripristinando la ragionevole durata del processo [25].

3.2 L’abuso del processo come canone ermeneutico

Fin qui è stato esaminato l’abuso del processo come sanziona innominata che opera sia in negativo, negando cioè diritti e facoltà delle parti utilizzati in modo deviante, sia in positivo, attribuendo all’Autorità giudiziaria poteri non espressamente tipizzati che siano funzionali a garantire la ragionevole durata del processo. La portata del principio è tuttavia più vasta, ben potendo essere preso in considerazione anche come criterio di interpretazione delle disposizioni vigenti, al fine di evitare il riconoscimento di diritti e facoltà per scopi diversi da quelli per cui gli stessi sono stati attribuiti. Nella sentenza delle Sezioni unite Rossi [26], invero, la suprema Corte non solo ha chiarito che, in caso di abuso del processo, non sussiste il diritto del difensore al termine a difesa ex art. 108 cpp (abuso-sanzione in negativo), ma, al contempo, ha precisato che non sono legittime ex post eccezioni di nullità per il diniego del termine a difesa o per la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall’art. 108 cpp. Infatti, nell’interpretare il regime delle nullità, la Cassazione ha ritenuto che non può sussistere la nullità ai sensi dell’art. 178, lett. c) «quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all’esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica» (abuso-criterio di interpretazione). La pronuncia in esame ha dunque esteso al processo penale la regola interpretativa codificata in ambito civilistico nell’art. 156, ultimo capoverso cpc: «La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato», ossia il cd. principio di strumentalità delle forme, secondo cui la patologia processuale sussiste solo ove ne derivi un concreto pregiudizio per il diritto di difesa. Alla luce dell’elaborazione del concetto di abuso del processo il principio di tassatività delle nullità non deve essere letto in senso rigido e formale, ma come obbligo di adeguata verifica circa la sussistenza di un pregiudizio effettivo al bene giuridico tutelato dalla patologia processuale. Tale verifica non può certo essere considerata incompatibile con il principio di legalità, in quanto perfettamente assimilabile a quella che, mutatis mutandis, viene svolta dal giudice penale per accertare l’offensività del reato. Secondo la consolidata dottrina, invero, la vigente Costituzione ha affiancato al principio di legalità formale quello di offensività, con la conseguenza che la nozione di reato deve essere costruita come fatto offensivo tipico, ossia come fatto che integra oltre agli elementi strutturali della fattispecie (condotta, evento materiale, nesso di causalità) anche il requisito essenziale dell’offesa al bene giuridico tutelato. Ciò posto, si deve ritenere che se, in materia di diritto penale, non vi è frizione tra principio di stretta legalità e principio di offensività, allo stesso modo, in ambito procedurale, non può essere ravvisata un’incompatibilità tra legalità processuale e principio di strumentalità delle forme, così come interpretato alla luce della nozione di abuso del processo.

Allo stesso modo, la suprema Corte ha precisato che non è possibile contestare, con l’atto di impugnazione, una circostanza aggravante la cui esistenza non si rilevi dalla descrizione del fatto contenuta nel capo di imputazione, in quanto si tratterebbe di un’elusione delle forme e delle garanzie previste per le contestazioni delle circostanze aggravanti [27]. In altri termini, l’impugnazione del pm, contenente la contestazione della circostanza aggravante, si tradurrebbe, per l’imputato, in un atto a sorpresa che lo priverebbe degli spazi difensivi cui avrebbe avuto diritto se la contestazione fosse stata correttamente formulata o con l’originaria imputazione o ai sensi dell’art. 517 cpp (nel corso del giudizio di primo grado). Anche in questo caso, l’interpretazione fornita dalla Corte di cassazione risulta chiaramente ispirata dalla nozione di abuso del processo, implicando che la contestazione della circostanza con l’atto di impugnazione rappresenti un abuso, da parte del pm, del potere di contestazione suppletiva.

Negli stessi termini, ma al fine di escludere che l’interpretazione accolta crei un vulnus alla parte, si è precisato che, in tema di giudizio abbreviato, è legittima la contestazione suppletiva della circostanza aggravante effettuata dal pm quando l’imputato ha richiesto l’ammissione del rito, ma questa non è stata ancora disposta dal giudice con ordinanza, posto che prima della formale instaurazione del rito speciale è ancora in corso l’udienza preliminare e l’imputato può revocare la scelta processuale precedentemente compiuta [28]. Al riguardo, la suprema Corte, nel verificare − conformemente al canone dell’abuso del processo − se la contestazione della circostanza rappresenti un abuso delle facoltà del pm, ha escluso qualsiasi patologia, evidenziando l’assenza di un effettivo pregiudizio in capo all’imputato, il quale sarebbe ancora in termini per revocare la scelta del giudizio abbreviato e per procedere quindi con rito ordinario.

Analogamente, in materia di ne bis in idem, le Sezioni unite hanno esteso il divieto di cui all’art. 649 cpp anche alle pronunce non irrevocabili, argomentando, tra l’altro, proprio sul rischio di abuso del processo che una lettura restrittiva potrebbe determinare [29].

Nella medesima prospettiva, in tema di intercettazioni, la giurisprudenza ha ritenuto che il mancato avviso al difensore del deposito, nella segreteria del pm, dei verbali e delle registrazioni non sia causa di nullità (non espressamente prevista), né di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, atteso il mancato richiamo, nell'art. 271 cpp, al quarto e al sesto comma dell'art. 268 dello stesso codice. In motivazione la suprema Corte ha precisato che l'avvertimento circa il deposito della documentazione relativa alle indagini, contenuto nell'avviso ex art. 415-bis cpp, deve ritenersi equipollente all'avviso di cui al predetto sesto comma, dell'art. 268 cpp, con la conseguenza che nella specie, nonostante l’inosservanza delle forme, lo scopo dell’atto deve comunque ritenersi raggiunto, non essendo riscontrabile alcun pregiudizio effettivo per i diritti di difesa [30]

Si tratta, all’evidenza, di un elenco non esaustivo, ma meramente esemplificativo dei casi in cui la giurisprudenza di legittimità abbia preso in considerazione l’abuso del processo come canone ermeneutico idoneo ad orientare una lettura corretta e non strumentale delle disposizioni processuali.

3.3 L’abuso del processo come principio ispiratore di norme vigenti

L’abuso del processo svolge non solo le funzioni, già esaminate, di sanzione innominata e di canone ermeneutico, ma rappresenta anche il principio ispiratore di talune norme vigenti, introdotte proprio al fine di evitare abusi dei diritti e delle facoltà delle parti. Anche in questo caso gli esempi potrebbero essere innumerevoli, motivo per cui ci si limiterà ad una mera elencazione non esaustiva.

Si pensi, in primo luogo, all’art. 441, comma 1 cpp, secondo cui nel corso del giudizio abbreviato non condizionato non è possibile effettuare contestazioni suppletive, pena altrimenti la nullità a regime intermedio prevista dall’art. 178, lett. c) cpp [31]; la ratio della norma, invero, è quella di evitare contestazioni a sorpresa successive alla scelta irrevocabile di procedere con il rito speciale, sicché, in ultima analisi, si tratta di un precetto che ha come scopo, da un lato, la tutela dell’affidamento dell’imputato e, dall’altro, la prevenzione di possibili abusi, da parte del pm, nell’esercizio del potere di contestazione.

In secondo luogo, la disciplina in materia di sanatorie generali delle nullità (art. 183 cpp) e delle notificazioni (art. 184 cpp) appare ispirata dall’esigenza di evitare il riconoscimento di patologie prive di una reale offesa all’interesse processuale tutelato, con conseguente tutela dell’ordinamento da possibili abusi difensivi nell’eccepire nullità meramente apparenti e/o formali.

Inoltre, si può richiamare il tema delle cd. contestazioni a catena (art. 297, comma 3 cpp), il cui dettato normativo persegue appunto lo scopo di scongiurare artificiosi spostamenti in avanti dell’inizio della decorrenza dei termini di custodia cautelare, i quali possano determinare un prolungamento della durata della misura ed un aggiramento dei limiti stabiliti dalla legge.

Infine, occorre sottolineare che la suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 40, comma 3 cpp (secondo cui «non è ammessa la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione»), sollevata con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., sostenendo che tale disposizione sia «l'espressione della discrezionalità del legislatore nell'individuare il punto di equilibrio tra le esigenze, entrambe di rango costituzionale, dell'imparzialità del giudice e della ragionevole durata del processo, così da evitare che i tempi del processo subiscano ingiustificati allungamenti a seguito di reiterate ricusazioni» [32]. Nel caso in esame, pertanto, la nozione di abuso del processo, quale ratio ispiratrice della disposizione, ha svolto anche la funzione di orientare la giurisprudenza nella valutazione sulla costituzionalità della norma.

Alla luce di quanto esposto, si può ritenere che il tema dell’abuso del processo permei in modo latente molti degli istituti processuali e delle norme vigenti, fungendo non solo da valvola di chiusura del sistema, ma anche da principio ispiratore dell’intero ordinamento processuale.

3.4 L’abuso del processo come illecito disciplinare

Tanto premesso sull’abuso del processo nei suoi risvolti processuali (sanzione innominata, canone ermeneutico e principio ispiratore), si deve dare atto dell’indubbio rilievo dell’istituto anche sul versante prettamente deontologico, essendo suscettibile di integrare possibili illeciti disciplinari da parte sia dei magistrati, sia dei difensori.

Con particolare riguardo agli illeciti dei magistrati, il Csm ha infatti statuito che «configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile la condotta del magistrato che emetta un provvedimento nel quale siano inseriti, nelle forme della riproduzione integrale, numerosi atti processuali senza alcuna connessione e in buona parte assolutamente estranei al suo oggetto, poiché il richiamo a vicende inconferenti, producendo anche un danno ingiusto a persone non coinvolte nel procedimento, implica una grave negligenza ed una mancanza di ponderazione degli effetti dell’attività svolta, che in tal modo fuoriesce dalle logiche e dalle finalità della giurisdizione, e dà luogo non ad attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti, come tali non sindacabili in sede deontologica, bensì a comportamenti del tutto arbitrari e non equilibrati, esattamente definibili come di abuso del processo, siccome caratterizzati dall’utilizzo di strumenti processuali per scopi diversi dalle finalità proprie di ogni processo, ed in violazione dell’obbligo, derivante dall’art. 111 della Costituzione, di motivare chiaramente e di rendere conto ai destinatari, ed a tutti, del percorso logico-giuridico e della necessità di certi provvedimenti» [33]. Si pensi, a titolo esemplificativo, al gip che, a seguito di richiesta di applicazione di misura cautelare nei confronti di Tizio, emetta ordinanza applicativa che si soffermi in motivazione su questioni afferenti ad altro soggetto (Caio, non attinto dalla richiesta del pm), evidenziando profili del tutto irrilevanti per il procedimento, che abbiano quale unico scopo quello di dipingere negativamente il soggetto sul piano morale, così da arrecargli gratuito discredito; oppure al giudice che, in sentenza, nel rigettare le eccezioni difensive, si soffermi inutilmente sulle qualità professionali del difensore o sulle sue conoscenze tecnico-giuridiche; ovvero al pm che, in sede di richiesta di archiviazione del procedimento, esponga inconferenti critiche sull’operato della polizia giudiziaria o sulle capacità investigative dei suoi appartenenti. Si tratta, all’evidenza, di una serie di ipotesi in cui l’esercizio di prerogative giudiziarie viene strumentalizzato per perseguire scopi diversi ed ulteriori, costituendo il mero pretesto per arrecare inutili pregiudizi a soggetti estranei rispetto ai procedimenti.

Nella medesima prospettiva, l’organo di autogoverno ha chiarito che «il principio della insindacabilità, in sede disciplinare, dei provvedimenti giurisdizionali deve essere correttamente inteso nel suo valore funzionale: impedire che la giurisdizione disciplinare, tramutandosi in controllo dei contenuti decisori, limiti la libertà di giudizio che è uno dei più importanti valori costituzionali. Tuttavia, l'indipendenza nel momento della decisione, come non è un usbergo che mette al riparo da negligenza nello studio e nella conoscenza degli atti, delle leggi e della giurisprudenza, a maggior ragione non può coprire forme di abuso o strumentalizzazione della motivazione, con la quale talora si colpiscono persone estranee al processo, o si denigrano ingiustamente le stesse parti o altri giudici intervenuti nell'iter del procedimento, al di fuori di ogni ragionevole necessità». Integra, pertanto, illecito disciplinare il comportamento del magistrato che corrisponda a tale fattispecie [34].

Analogamente, per quanto riguarda i difensori, la suprema Corte ha stabilito che integra una violazione del codice deontologico la condotta del legale che ponga in essere diverse azioni esecutive nei confronti di un medesimo debitore, aggravandone così la posizione senza un valido motivo [35]. Nel caso di specie, il Consiglio d’ordine forense di competenza aveva attivato un procedimento disciplinare nei confronti di alcuni avvocati, nelle rispettive qualità di difensore e/o procuratore domiciliatario e/o sostituto di udienza, in relazione all'attività professionale compiuta da ciascuno. Attivando diverse iniziative giudiziarie, i suddetti legali avevano aggravato la posizione del debitore, senza che, in realtà, vi fossero effettive ragioni di tutela della parte assistita.

In particolare, le condotte contestate ai legali consistevano nel:

a) richiedere per conto del medesimo cliente una pluralità di ingiunzioni per ragioni creditorie in tutto analoghe tra loro, riferita a crediti maturati in ristretto lasso di tempo;

b) procedere alla redazione-intimazione di separati atti di precetto per la sorte capitale ed onorari, dichiarandosi antistatario e in questo modo obiettivamente aumentando ingiustificatamente il complesso delle spese legali dovute con riferimento a ciascun titolo esecutivo;

c) procedere per conto dello stesso cliente a plurimi atti di intervento per fatture autenticate emesse in arco temporale ristrettissimo, ovvero per decreti ingiuntivi ottenuti contestualmente o in breve arco temporale, ottenendo per ciascuno di essi la liquidazione delle spese consequenziali;

d) pervenire a plurime liquidazioni e distribuzioni amichevoli delle somme ricavate, operando in sede di assegnazione ulteriori frazionamenti del credito apparentemente ingiustificati;

e) patrocinare le ragioni creditorie di cui sopra in sede esecutiva mantenendo e procrastinando l'ingiustificato frazionamento dei crediti sopra descritti.

All’esito del giudizio, il Consiglio dell’ordine forense proscioglieva gli avvocati domiciliatari, ritenendo gli altri, invece, responsabili degli illeciti disciplinari ascritti ai capi a), c), d), e), applicando loro la sanzione disciplinare della sospensione.

Veniva proposto ricorso al Cnf che, esclusa la fondatezza dell’addebito sub capo a), confermava gli altri addebiti, riducendo la durata della sospensione inflitta. Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione. La suprema Corte, a Sezioni unite, rigettava il ricorso, sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

Innanzitutto, riteneva che il Cnf avesse considerato come provata la pluralità d'interventi posti in essere nella procedura esecutiva, evidenziando la condotta negativa dei legali, che ben avrebbero potuto, per ciascun creditore, compendiare gli interventi in unico atto e con un’unica liquidazione dei compensi, senza aggravare ingiustificatamente la posizione del debitore. In tal modo, i suddetti legali erano incorsi nell'illecito deontologico dell'art. 49, secondo cui: «L'avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita».

Analogamente l'art. 66, del nuovo codice deontologico forense stabilisce che: «L'avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita» (comma 1); e che: «La violazione del dovere di cui al precedente comma comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura» (comma 2).

Dunque, non è consentito al creditore frazionare la propria pretesa in diverse richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in virtù delle regole di correttezza, buona fede e giusto processo per «inderogabili doveri di solidarietà» (art. 2 Cost.) da ritenersi violati quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore ed eserciti l'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi [36].

Inoltre, le Sezioni unite hanno osservato che, anche il frazionamento soggettivo delle azioni giudiziarie costituisce una condotta abusiva in quanto diretta a far aumentare gli oneri processuali della parte, per via della proliferazione non necessaria dei procedimenti [37].

Analogamente, per quanto attiene al processo penale, viene in rilievo il dovere di verità di cui all’art. 50 del codice deontologico, secondo cui l’avvocato non deve introdurre e utilizzare nel procedimento fatti, prove o documenti che sappia essere falsi. Tale norma, che costituisce una specificazione dei principi generali indicati dall’art. 9 del codice deontologico, rappresenta il riflesso, sul piano disciplinare, dei doveri di lealtà e probità indicati dall’art. 105, comma 4 cpp, nonché un precipitato del divieto di abusare dei diritti e delle facoltà processuali. L’utilizzo del diritto alla prova per ingannare l’Autorità giudiziaria costituirebbe, invero, uno sviamento dello scopo per cui le garanzie difensive sono riconosciute dall’ordinamento e come tale merita di essere sanzionato sul piano deontologico. Il difensore, infatti, diversamente dal pm, non ha alcun obbligo di collaborare per l’accertamento della verità, in quanto non solo può scegliere di non produrre gli elementi a favore o quelli equivoci raccolti nelle investigazioni difensive (art. 391-octies cpp), ma ha anche il dovere deontologico di non danneggiare il proprio assistito fornendo all’Autorità giudiziaria gli elementi a carico (dovere di fedeltà, art. 10 codice deontologico). Tuttavia, se sceglie di offrire al processo un dato conoscitivo non può abusare delle proprie prerogative ingannando consapevolmente gli organi decidenti, pena altrimenti la configurazione dell’abuso del processo.

4. Conclusioni

L’analisi condotta ha consentito di evidenziare, sia pur sommariamente, le molteplici sfaccettature dell’abuso del processo, istituto di recente elaborazione, ma dalle potenzialità applicative assai rilevanti, essendo in grado di fungere da sanzione innominata, da criterio interpretativo, da principio ispiratore e, infine, da illecito disciplinare per magistrati e avvocati. È pertanto rimessa alla futura riflessione dottrinale e giurisprudenziale la dimostrazione di quanto questa clausola generale possa essere in grado di influire sull’elaborazione e sull’interpretazione delle norme processuali, al pari di quanto è avvenuto, in ambito civilistico, con la nozione di buona fede.

 



[1] P. Rescigno, L’abuso del diritto, Il Mulino, Bologna, 1998; R. Sacco, L’abuso del diritto soggettivo, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Utet, Torino, 2001; S. Levanti, Abuso del diritto, in Diritto&diritti, 2001.

[2] Sez. unite, 29 settembre 2011, n. 155, in C.E.D. Cass., n. 251496.

[3] Sez. unite, Civ., 15 novembre 2007, n. 23726, in C.E.D. Cass., n. 599316.

[5] Corte Cost., 20 gennaio 2006, n. 17, in Cass. pen. 2006, 1425.

[6] Sez. V, 22 aprile 2010, n. 21899, in C.E.D. Cass., n. 247419.

[7] Sez. 5, 4 febbraio 2013, n. 23728, in C.E.D. Cass., n. 256520.

[8] Sez. I, 25 febbraio 2010, n. 11030, in C.E.D. Cass., n. 246777.

[9] Conforme Sez. 2, 15 marzo 2016, n. 12306, in C.E.D. Cass., n. 266772.

[10] M. Taruffo, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., I, 2012, p. 139;

[11] M. Taruffo, op. cit., p. 122.

[12] Id., op. cit., p. 139.

[13] T. Padovani, A.D.R. sul c.d. Abuso del processo, in Cass. pen., 2012, p. 3605.

[14] Id., op. cit., p. 3606.

[15] E. Amodio, L’abuso delle forme degli atti processuali penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., II, 2016, p. 559A.

[16] Id., op. cit., p. 559A.

[17] E. M. Catalano, L’abnormità tra crisi della legalità e crisi della Cassazione, in Ind. pen., 2016, p. 113.

[18] G. Leone, La sentenza penale inesistente, in Riv. it. dir. pen., 1936, p. 19.

[19] F. Palazzo, L’abuso del processo e i suoi rimedi tra legalità processuale e legalità sostanziale, in Cass. pen., 2012, p. 3611.

[20] G. Conso, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Giuffrè, Milano, 1955, p. 57.

[21] E. Amodio, op. cit., p. 559A.

[22] Sez. unite, 20 settembre 2011, cit.

[23] Sez. I, 15 luglio 2015, n. 39358, in C.E.D. Cass., n. 264942.

[24] Sez. I, 26 marzo 2015, n. 37604, in C.E.D. Cass., non massimata; E. Amodio, op. loc. ult. cit.

[25] Sez. III, 21 gennaio 2015, n. 7412, in C.E.D. Cass., non massimata; E. Amodio, op. loc. ult. cit.

[26] Sez. unite, 20 settembre 2011, n. 155.

[27] Sez. II, 20 gennaio 2016, n. 11002, in C.E.D. Cass., n. 266165.

[28] Sez. VI, 20 marzo 2014, n. 14295, in C.E.D. Cass., n. 258971.

[29] Sez. unite, 28 giugno 2005, n. 34655, in C.E.D. Cass., n. 231800.

[30] Sez. 3, 8 aprile 2015, n. 33587, in C.E.D. Cass., n. 264522.

[31] Sez. II, 29 gennaio 2014, n. 11953, in C.E.D. Cass., n. 258067.

[32] Sez. 3, 13 dicembre 2001, n. 5658, in C.E.D. Cass., n. 221110.

[33] Csm, 19 ottobre 2009, n. 156, in C.E.D. Cass.

[34] Csm, 12 giugno 1992, n. 65, in C.E.D. Cass.

[35] Sez. unite, civ., 30 gennaio 2017, n. 961 in www.altalex.com

[36] Sez. unite, civ., 15 novembre 2007, n. 23726, in C.E.D. Cass., n. 599316.

[37] Sez. I civ., 30 aprile 2014, n. 9488, in C.E.D. Cass., n. 631153-01.

19/09/2018
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