Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Il velo delle donne musulmane tra libertà di religione e libertà d'impresa

di Nicola Colaianni
Professore di Diritto ecclesiastico, Università di Bari
Prime osservazioni alla sentenza della Corte di giustizia sul divieto di indossare il velo sul luogo di lavoro

Si può essere uguali e diversi? Il porto del velo da parte delle donne musulmane è da anni, nel comune sentire, l’emblema di tale questione, decisiva per le democrazie occidentali sempre più tentate di interpretare l’uguaglianza come indifferenziazione, che spoglia le persone delle loro qualità peculiari per ridurle ad unità numeriche. Eppure, non c’è dubbio che la libertà di abbigliamento sia un tratto caratteristico, e anzi il più evidente, dell’identità personale, che si configura quale «diritto ad essere se stesso (…) con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, e al tempo stesso qualificano, l’individuo[1]».

Uguale è il sentire europeo: «Religious dimension it is one of the most vital elements that go to make up the identity of believers and their conception of life, but it is also a precious asset for atheists, agnostics, sceptics and the uncorcerned[2]», sicché «constraints imposed on a person’s choice of mode of dress constitute an interference with the private life as ensured by Article 8 para. 1 of the Convention», come riconosciuto dalla Commissione europea per i diritti umani a riguardo di un travestito e, nella scia, ribadito dalla Corte Edu a riguardo di una ragazza indossante il velo integrale (il burka o il niqab)[3].

Che questo diritto alla differenza sia esercitabile in ogni ambito relazionale, ovviamente, non si può dire, dovendosi bilanciarlo con altri beni costituzionalmente protetti, che possono fungere da limiti alla sua piena espansione. Sta di fatto che nella giurisprudenza a prevalere sono ordinariamente proprio i limiti, tanto nei rapporti pubblici grazie al margine di apprezzamento riconosciuto ai singoli Stati quanto in quelli privati, segnatamente di lavoro, grazie alla libertà d’impresa riconosciuta ai datori di lavoro e, quindi, al loro potere di imporre apposite norme interne o clausole contrattuali. Sia Strasburgo, sia ora – con le due decisioni C-157/15 e C-188/15 – Lussemburgo non trovano spazio per un’applicazione diretta del diritto europeo e si rimettono alla giurisdizione dei singoli Stati, rendendo un diritto, pur riconosciuto in tesi come coincidente con un diritto universale, una variabile dipendente dalle legislazioni nazionali: di solito interpretate restrittivamente per cui finisce quasi sempre per essere compresso il diritto all’identità sub specie religionis.

Per le norme proibitive del velo in pubblico, pertanto, gli Stati finiscono per essere quasi sempre assolti dalla Corte Edu: la Svizzera perché l’insegnante non deve influenzare con quel powerful external symbol allievi di tenera età; la Turchia perché altrimenti la studentessa che lo porta all’università discriminerebbe le colleghe che non lo portano; la Francia perché in una struttura sanitaria si rischia di condizionare pazienti in stato di fragilità e dipendenza psicologica e soprattutto per il principio di neutralité de la puissance publique, per cui in altro caso è stato deciso addirittura che l’indossare il velo integrale – anche se solo in particolari occasioni religiose come il Ramadan, e comunque solo per strada e non in caso di controlli di sicurezza – contrasta con il «living together in French society», cioè la declinazione francese della democrazia, il cui «ideal of fraternity» richiede il volto scoperto come «the minimum requirement of civility that is necessary for social interaction[4]». Il che, tra l’altro, significa ammettere versioni nazionali della democrazia, diverse l’una dall’altra: ed infatti in altro contesto, quello turco, la Corte ha riconosciuto la illegittimità del divieto di abbigliamento religioso (turbante, tunica e bastone, a simiglianza dei profeti, anche se a viso scoperto[5]), pur giustificato con la prevenzione del terrorismo.

Questa Europa a geometria variabile si accentua naturalmente nei rapporti privati, rimessi alle discipline nazionali sia pure con il limite del divieto di discriminazione, diretta o indiretta, posto dalla direttiva-quadro 2000/78/CE sulla parità di trattamento nei luoghi di lavoro, che indica tra i diversi motivi (l’età, la disabilità, l’orientamento sessuale) anche la religione e le convinzioni personali. Numerose decisioni di legittimità mostrano il trend favorevole alla prevalenza delle norme interne alle singole imprese e delle condizioni contrattuali. Anche un tribunale costituzionale, quello tedesco, s’è espresso in tal senso, dichiarando perciò solo illegittimo il licenziamento di una lavoratrice, impiegata in un grande magazzino, a motivo della sua decisione di indossare il velo[6]: con la conseguenza che da allora sono proliferate le offerte di lavoro accompagnate dalla clausola «nur ohne Kopftuch», «solo senza velo».

C’è discriminazione a motivo della religione ai sensi della direttiva citata? I casi portati in via pregiudiziale all’esame della Corte di giustizia riguardavano la receptionist di un’impresa fornitrice di servizi di accoglienza e un’ingegnera che, pur avvertita dei problemi che con il velo avrebbe potuto creare a contatto con i clienti, aveva preso ad indossarlo fin quando un cliente, dichiarando che esso aveva infastidito alcuni suoi collaboratori, aveva chiesto che non vi fosse «alcun velo la prossima volta» e la direzione le aveva imposto, senza successo, di non indossarlo più.

Le due decisioni, rese nella stessa giornata, escludono concordemente (la seconda richiamando la prima) una discriminazione diretta perché l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva «deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali» perché «tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni».

Il problema però è costituito in questi casi dal fatto che la neutralità dell’obbligo è spesso solo apparente perché di fatto comporta un particolare svantaggio solo per le persone che aderiscono ad una religione che impone o consiglia un determinato abbigliamento, come, per fare gli esempi più frequenti, la kippah per gli ebrei, il turbante per i sikh, il velo per le musulmane. A prima vista il divieto è neutrale perché si rivolge a tutti, anche ai cristiani: ma costoro non ne saranno mai colpiti perché notoriamente ad essi, perfino se religiosi, che pur sono caratterizzati da un abito particolare, è consentito, e anzi consigliato in particolari ambienti come i luoghi di lavoro e operativi in genere, di indossare abiti civili (senza velo nel caso delle suore). Che il divieto di velo sia contenuto in norme interne non contrattate, ma disposte unilateralmente dal datore di lavoro, anche se poi magari riversate nell’atto di assunzione, non può far velo, è il caso di dire, alla discriminazione che, in concreto, subiscono solo le donne musulmane. Si tratta di un’evidenza che non ha bisogno di dimostrazione, ma che nondimeno la Corte – che pure ha il merito di affrontare per completezza la questione della discriminazione indiretta, stranamente non posta dalla Cassazione belga – rimette per la prova al giudice nazionale, legittimando così una disparità di interpretazione tra Stati dell’Unione su un diritto fondamentale dei cittadini europei.

Questa è la sostanza delle due decisioni e i caveat, di cui la Corte la contorna, la colpiscono solo di striscio. Certamente importante – ma dalla seconda decisione si ricava che già il giudice di merito in Francia aveva corretto il provvedimento di recesso, imponendo il preavviso – è la configurazione della violazione del divieto non come giusta causa ma come giustificato motivo obiettivo di licenziamento, di talché sull’azienda grava l’onere di dimostrare che non è possibile adibire la lavoratrice ad un posto di lavoro che non comporti un contatto visivo con tali clienti, invece di procedere al suo licenziamento (nn. 38 e 42-43 della prima decisione). Viceversa, la condizione che la «politica di neutralità (…) sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico» è ovvia, scadendosi altrimenti nella discriminazione ad personam. La Corte non fa che renderla esplicita, ma già la sentenza Eweida della Corte Edu, che essa cita genericamente, aveva ritenuto violata la libertà di fede di una hostess della British Airways, che portava al collo una croce di piccole dimensioni, proprio per la disparità di trattamento con altri dipendenti, cui in passato la compagnia aveva permesso di indossare indumenti religiosi (come turbanti o hijab), e per la incoerenza della politica di neutralità, dimostrata dal fatto che a distanza di pochi mesi la British Airways avesse deciso di modificare il proprio codice di vestiario, ammettendo la presenza di simboli.  

Infine, è certamente di rilievo la statuizione contenuta nella seconda sentenza, per cui «l’articolo 4, paragrafo 1, della detta direttiva dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa» in quanto non «oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata». Ma tale questione potrebbe sorgere solo nel caso, come precisato dalla stessa Corte, in cui non vi sia una norma interna di neutralità, che invece ben può coincidere con il «principio di necessaria neutralità» invocato nella lettera di licenziamento dall’impresa. E anche a ritenere che, comunque, tale principio debba risultare per iscritto nulla impedisce al datore di lavoro di emanare un dress code privo di riferimento alla sua volontà «di tener conto dei desideri particolari del cliente».

Fatto è che se si ritiene incluso nella libertà dell’impresa, garantita dalla Carta di Nizza come si preoccupa di ricordare la Corte, anche il potere di determinare unilateralmente norme interne così invasive dell’altrui personalità, il lavoratore è spacciato nel suo diritto. La norma potrà anche essere formalmente uguale per tutti ma in concreto porrà un divieto solo a determinati lavoratori. Si perpetua, cioè, lo schema che denunciava due secoli fa Portalis, per cui tutti sono liberi di dormire sotto i ponti della Senna ma in realtà lo fanno solo i vagabondi di Parigi. La discriminazione indiretta è nei fatti e nient’affatto bilanciata o giustificata dai distinguo formalistici della Corte, che così finisce ancora una volta per considerare le persone uti mercatores e non uti cives.

Non sempre s’è condotta così, avendo per esempio stabilito, prima ancora della direttiva, che quando è sotto attacco la dignità della persona la tutela non può essere subordinata a condizioni o alla comparazione con altre situazioni perché la dignità è incomparabile. Il caso era quello del mutamento di sesso di un transessuale: il licenziamento per tale motivo fu giudicato discriminatorio a prescindere da comparazioni, perché lesivo del principio generale di uguaglianza in base al sesso di ogni persona e, quindi, del «rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare[7]». E successivamente alla direttiva non si può non ricordare la lapidarietà della sentenza Omega: «L’ordinamento giuridico comunitario è diretto innegabilmente ad assicurare il rispetto della dignità umana quale principio generale del diritto[8]». In generale, quindi, a livello dell’Unione, con i suoi riflessi a quello nazionale, s’è aperto uno spazio, chiuso nell’occasione, per questa nuova frontiera del diritto antidiscriminatorio: un diritto assoluto a non essere svantaggiati e non già più svantaggiati o legittimamente svantaggiati in omaggio alla libertà d’impresa.

Portare lo hijab, che è un semplice foulard e non il burka o il niqab, è diritto fondamentale da non comprimere salvo che danneggi in maniera irreparabile l’immagine, l’economia o la politica dell’impresa: anche perché – riprendendo la distinzione di Roland Barthes tra «costume» e «abbigliamento» – da «costume», espressivo di un sistema di regole e convenzioni intrinsecamente segregante, lo hijab sta diventando sempre più un «abbigliamento»: vale a dire, un modo personale di interpretare il costume, adeguandone il significato ai propri bisogni e facendone anche uno strumento di liberazione. Dietro a ogni hijab c’è una donna con il suo vissuto di genere, di religione, di cultura, insomma di identità, che il giudice di un’Unione dei diritti non dovrebbe consentire alle imprese di mortificare.

____________________

[1] Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13.

[2] Corte europea dei diritti umani, Eweida and others v. United Kingdom, 15 gennaio 2013.

[3] Rispettivamente, Commissione europea dei diritti umani Kara v. United Kingdom, 22 ottobre 1998; Corte Edu, S.A.S. v. France, 1° luglio 2014.

[4] Le quattro decisioni della Corte Edu sono rispettivamente la Lehila Sahin v. Turkey, 24 giugno 2004 e 10 novembre 2005 (grande Camera), Dahlab w. Switzerland, 15 febbraio 2001, Ebrahimian v. France, 26 novembre 2015, S.A.S. v. France, cit. 

[5] Corte Edu, Ahmet Arslan and Others v. Turkey, 23 febbraio 2010.

[6] BundesVerfassungsGericht 30 luglio 2003, n. 792, Kaufhaus L... GmbH & Co. KG. Per uno sguardo panoramico si può vedere, volendo, il mio Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 214 ss.

[7] Corte di giustizia Ue, 30 aprile 1996, P. c. S. e Cornwall County Council, C-13/94.

[8] Corte di giustizia Ue, 14 ottobre 2004, Omega, C-36/02.

21/03/2017
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