Magistratura democratica
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Il nuovo volto della Cassazione civile

di Luigi Lombardo
Consigliere della Corte di cassazione
A proposito della legge 25 ottobre 2016 n. 197

SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. – 2. La scelta del rito camerale. – 2.1. (Segue): il ruolo dell’oralità nel processo civile contemporaneo. – 2.2. (Segue): la soppressione del rito camerale c.d. partecipato. – 2.3. (Segue): il rito camerale “puro” alla luce dei principi costituzionali e della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo. – 3. L’ordinanza decisoria della Corte di cassazione e la nuova tecnica motivazionale. – 4. Conclusioni.

  

1. – La riforma del giudizio di cassazione, introdotta con la legge 25 ottobre 2016 n. 197 (legge di conversione del decreto legge 31 agosto 2016 n. 168), sembra destinata a cambiare radicalmente il volto della Corte suprema italiana, come l’abbiamo fin qui conosciuta, e sembra in grado – finalmente – di metterla al passo delle altre Corti supreme europee.

Nei Paesi europei a noi più vicini, l’efficiente esercizio della funzione nomofilattica affidato alle Corti supreme è assicurato o da limiti alla proponibilità dei ricorsi o da appositi filtri che servono a selezionare i ricorsi proposti e a sottoporli ad un trattamento differenziato.

In Germania (ma così è anche nel Regno Unito), non è consentito proporre ricorso alla Corte suprema se non dopo averne ottenuto l’autorizzazione (da parte del giudice di appello o della stessa Corte). La Corte suprema tedesca adotta il criterio c.d. teleologico, per il quale le questioni giuridiche c.d. “individuali” (individuellen Rechtsfragen), quelle che hanno rilievo solo nel singolo processo, rimangono fuori del sindacato del Bundesgerichtshof; sono invece ammessi dinanzi a quest’ultimo solo quei ricorsi che sottopongono questioni di diritto la cui soluzione può avere rilievo ai fini dell’indirizzo della futura giurisprudenza, nel senso che la decisione di essi può avere un «effetto di direttiva», può dare cioè l’occasione per fissare un principio interpretativo astratto della norma applicata, o un «effetto di esempio», potendo assumere valore esemplificativo dei concetti giuridici, utile per la soluzione di casi simili.

Anche in Spagna esistono limiti alla proponibilità del ricorso per cassazione, che non è ammesso qualora il valore della causa non superi il valore di 600 euro o se, comunque, non sussista il c.d. “interesse cassazionale”, ossia l’interesse pubblico generale – a tutela dello ius constitutionis – all’esame delle questioni di diritto sottoposte col ricorso.

In Francia, invece, ove il ricorso alla Corte suprema non incontra limiti (ma sono soltanto un centinaio gli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alla Cour), il ricorso per cassazione (pourvoi en cassation) ha mantenuto il suo carattere di impugnazione straordinaria (quale era anche in Italia nel primo codice unitario, il c.d. codice Pisanelli) e – una volta proposto – può essere cancellato, su richiesta del resistente, ove il ricorrente non dimostri di avere dato esecuzione alla decisione impugnata (salvo che l’esecuzione non determini “conseguenze manifestamente eccessive”). Soprattutto in Francia, i ricorsi vengono innanzitutto esaminati in camera di consiglio (“audiance d’admissibilité”) da un collegio in “formation restreint” (composto da tre magistrati), che può deciderli subito – con provvedimento sostanzialmente immotivato (contenente il solo riferimento alla norma del codice di rito applicata) – ove risultino inammissibili o manifestamente infondati ovvero quando sottopongano questioni di diritto già risolte dalla giurisprudenza della Corte.

Purtroppo, nel nostro Paese non è stato finora possibile recepire alcuno degli istituti che assicurano l’efficiente funzionamento delle altre Corti supreme europee.

Non la limitazione dei ricorsi sulla base del valore della controversia o della rilevanza della questione di diritto sottoposta sul piano dell’interesse generale alla tutela dello ius constitutionis, limitazione che trova ostacolo dell’art. 111, settimo comma, Cost. come finora interpretato, ritenuto fino ad oggi norma politicamente intoccabile; non la revisione dell’albo degli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione, albo pletorico nel numero degli iscritti, che – per di più – impropriamente accomuna chi esercita il patrocinio dinanzi alla Corte suprema di legittimità e chi lo esercita dinanzi ai giudici amministrativi di secondo grado. Neppure è stato finora possibile prevedere un filtro efficiente in grado di far fronte ai ricorsi proposti, essendo falliti tutti gli interventi legislativi compiuti a tal fine nell’ultimo decennio (che hanno riguardato ora l’art. 366-bis, ora l’art. 376, ora l’art. 360-bis cod. proc. civ.), con conseguente impossibilità per la Corte di far fronte tempestivamente al numero alluvionale delle sopravvenienze.

Questo il quadro delle mancate e delle fallite riforme col quale si è dovuto confrontare il legislatore del 2016 quando ha inteso approntare “Misure urgenti per la definizione del contezioso presso la Corte di cassazione” (secondo quello che è il titolo della nuova legge e, prima, del decreto-legge convertito).

 

2. – L’intervento legislativo è rimasto nel solco della tradizione italiana, secondo cui il ricorso per cassazione è ammesso senza limiti; ma esso ha introdotto una profonda revisione dei meccanismi decisionali del ricorso, avvicinandoli a quelli della Cassazione francese.

La novella del 2016 poggia su due pilastri: il primo è costituito dalla riforma del rito; il secondo dall’adozione di un nuovo modello di provvedimento decisorio. I due pilastri si sostengono e correlano tra loro; laddove all’adozione del “rito camerale” corrisponde la pronuncia di una “ordinanza decisoria”, mentre all’adozione del “rito della pubblica udienza” corrisponde la pronuncia di una “sentenza”.

Cominciando dall’esame del primo pilastro, l’importanza della riforma si coglie essenzialmente – per quanto è lo scopo di questo scritto (non ci si propone qui di esaminare in dettaglio la riforma, ma di coglierne le linee essenziali) – nel mutamento del rito dinanzi alla sezione semplice, laddove il novello secondo comma dell’art. 375 cod. proc. civ. stabilisce ora che la Corte «pronuncia con ordinanza in camera di consiglio (...), salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare». La nuova norma configura perciò la decisione in camera di consiglio come la “regola” del rito processuale dinanzi alla sezione semplice; e stabilisce poi – come “eccezione” – che il ricorso possa essere deciso in pubblica udienza quando la questione di diritto sottoposta presenti «particolare rilevanza» (a tale ipotesi principale la norma aggiunge quella – per la verità del tutto eterogenea e poco coerente – in cui il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’art. 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio).

Sembra chiaro che la riforma si ispira al c.d. criterio “teleologico” di tradizione germanica (opportunamente adattato al sistema italiano fondato sulla proponibilità senza limiti del ricorso per cassazione), puntando essa a selezionare i ricorsi in modo da poterli sottoporre ad un trattamento differenziato, a seconda della natura delle questioni da trattare.

Il legislatore, in altre parole, ha preso atto che, nel nostro Paese e nell’attuale quadro costituzionale, non è possibile adottare il criterio teleologico per selezionare i ricorsi da decidere, per attribuire cioè alla Corte suprema il potere di “decidere cosa decidere”alla stregua dell’interesse pubblico alla tutela dello ius constitutionis; ed ha optato per l’adozione del criterio teleologico al più limitato fine di stabilire le modalità della decisione, attribuendo alla Corte il potere di “decidere come decidere”ciascun ricorso.

In particolare, nella logica del nuovo art. 375 cod. proc. civ., i ricorsi assegnati alle sezioni semplici dovranno essere distinti a seconda che essi chiamino la Corte di cassazione all’esercizio della sola funzione di controllo di legalità della sentenza impugnata (a tutela del c.d. ius litigatoris) ovvero che chiamino la Corte anche all’esercizio della funzione di indirizzo della giurisprudenza (a tutela del c.d. ius constitutionis). Nel primo caso, la legge processuale riformata (nuovo art. 375 cod. proc. civ.) prevede che il ricorso sia trattato in “camera di consiglio” e deciso con “ordinanza”; nel secondo caso – e solo nel secondo caso – prevede che il ricorso sia trattato in “pubblica udienza” e deciso con “sentenza”.

Ne viene fuori un rito flessibile, che si adatta alla rilevanza delle questioni sottoposte col ricorso in funzione nomofilattica. Alla rigidità del rito precedente, che prevedeva sempre la trattazione in pubblica udienza, si sostituisce ora un rito che si adatta all’importanza delle questioni sottoposte e che riserva la trattazione in pubblica udienza ai soli ricorsi che sollecitano alla Corte l’esame di questioni di diritto di rilievo generale ai fini dell’esercizio della funzione di indirizzo della giurisprudenza.

In altre parole, il giudizio di legittimità risulta ora fondato su un “doppio binario”: il rito camerale – assunto come regola – che vale per tutti i ricorsi che non sottopongano alla Corte questioni di diritto di «particolare rilevanza» ai fini della tutela dello ius constitutionis; la pubblica udienza – con la discussione delle parti e del procuratore generale – riservata a quei casi in cui le questioni giuridiche sottoposte col ricorso abbiano valenza generale ai fini dell’indirizzo della giurisprudenza.

La scelta dei conditores valorizza il ruolo della pubblica udienza, rispetto a ciò che essa è stata finora (spesso uno stanco rito formale, nel quale – dopo la relazione della causa, gli avvocati si riportano ai loro scritti difensivi, in attesa di sentire le conclusioni del procuratore generale), riservandola alla trattazione dei ricorsi che sottopongono questioni di diritto di rilievo generale; valorizza il ruolo del difensore, che – una volta che la Corte ha riconosciuto l’importanza delle questioni di diritto da decidere – avrà lo spazio e il tempo necessario per svolgere una discussione approfondita e per patrocinare al meglio le ragioni della parte rappresentata; valorizza anche la figura del procuratore generale, non più costretto a presentare le proprie conclusioni rispetto a ricorsi di nessun rilievo ai fini della tutela dello ius constitutionis, ma chiamato a discutere e a concludere solo quando l’interesse generale lo richieda.

Vale la pena di ricordare che la riforma introdotta con la novella del 2016 non era inattesa; anzi, essa costituisce l’attuazione, a livello legislativo, di una lunga elaborazione culminata in ben due progetti di riforma del codice di procedura civile (il progetto redatto dalla c.d. “Commissione Vaccarella”, nominata dal Ministro della Giustizia con D.M. 28 giugno 2013, e quello redatto dalla c.d. “Commissione Berruti”, nominata dal Ministro della Giustizia con D.M. del 27 maggio 2014), dall’ultimo dei quali è scaturito un progetto di legge-delega per la riforma del codice di procedura civile, attualmente in discussione in Parlamento.

La novella recepisce anche le indicazioni formulate dall’Assemblea Generale della Corte suprema di cassazione tenutasi il 25 giugno 2015, la quale ha approvato un documento nel quale, dopo aver invitato il Parlamento e il Governo a valutare l’opportunità di una «revisione dell’art. 111 della Costituzione, nel senso che, salvaguardando il ricorso per cassazione per violazione di legge contro i provvedimenti sulla libertà personale, sia rimodulata la disciplina dell’ambito di proponibilità del ricorso contro le sentenze, circoscrivendola ai casi nei quali è ravvisabile la necessità di formulare principi giuridici di valenza generale o di garantire comunque un vaglio della Suprema Corte ed introducendo nel contempo la garanzia costituzionale del doppio grado di merito», ha auspicato per il settore civile, tra l’altro, «l’introduzione di disposizioni che, previa individuazione, sin dal momento della loro proposizione, dei ricorsi implicanti la soluzione di questioni interpretative di valenza generale, prevedano, per tutti gli altri, al pari di quelli che appaiano ictu oculi inammissibili, la trattazione con rito camerale; l’introduzione di una disciplina semplificata del rito camerale, senza previa relazione preliminare e con contraddittorio scritto; l’introduzione di disposizioni che prevedano la partecipazione del Pubblico Ministero al procedimento di cassazione, oltre che nei casi in cui tale partecipazione è obbligatoria già nei gradi di merito, solo quando il Procuratore Generale ne faccia richiesta, stabilendo, inoltre, che il Pubblico Ministero formuli per iscritto le proprie motivate richieste e che ne sia data comunicazione alle parti prima che scada il termine ad esse assegnato per la presentazione di memorie».

Infine, la proposta di prevedere che la decisione dei ricorsi avvenga, di regola, con provvedimento da adottare in esito ad un’adunanza camerale, senza pubblica udienza, è stata sostenuta dai più autorevoli studiosi del diritto processuale civile, primo tra tutti il prof. Giovanni Verde (cfr. Verde, Proposte per la cassazione-Testo dell’intervento all’incontro sulla funzione di nomofilachia svolto presso la Corte di cassazione l’1.3.2016, in www.judicium.it).

Dunque, una riforma tutt’altro che inattesa; anzi, una riforma frutto di una lunga elaborazione, che ha individuato nella generalizzazione del rito camerale – opportunamente derogabile di caso in caso per la «particolare rilevanza» della questione di diritto sottoposta – l’unica efficace riforma del giudizio di cassazione possibile in Italia a Costituzione invariata.

 

2.1. – È un paradosso tutto italiano il fatto che il giudizio civile di cassazione sia rimasto, fino alla riforma del 2016, l’unico giudizio trattato necessariamente in pubblica udienza.

Nel giudizio civile di primo grado, fin dalla legge 26 novembre 1990 n. 353, dopo la rimessione della causa al collegio e una volta scaduti i termini per il deposito delle memorie, la causa è decisa in camera di consiglio senza trattazione in pubblica udienza; salvo che una delle parti chieda al presidente che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio (art. 275 cod. proc. civ.).

Anche nel giudizio civile dinanzi alla Corte di appello, la trattazione della causa – pur svolgendosi in pubblica udienza dinanzi al collegio – è sostanzialmente scritta, articolandosi nello scambio di comparse conclusionali e di memorie di replica tra le parti, a cui segue la deliberazione della Corte in camera di consiglio dopo la scadenza del termine previsto per il loro deposito. La discussione orale della causa è ammessa solo in via eccezionale, quando una delle parti ne faccia espressa richiesta con apposita istanza (art. 352 cod. proc. civ.); facoltà nella prassi esercitata solo raramente.

Nella pratica il “feticcio” dell’oralità nella fase decisoria è stato espulso dal processo civile italiano almeno dall’entrata in vigore della legge n. 353 del 1990; e alla discussione orale, nella pratica, si fa ricorso in via del tutto eccezionale.

Il vero è che il processo civile è sempre stato e rimane un processo essenzialmente scritto. L’oralità costituisce certamente un valore nella fase istruttoria, con riferimento all’assunzione delle prove e, più in genere, all’acquisizione del materiale probatorio su cui deve decidersi la causa; ma è pur vero che tutto ciò che avviene in istruttoria viene recepito nei verbali di causa e viene così trasformato da orale in scrittura; la quale – in quanto tale – esige un attento esame e studio degli atti e non si presta, nella fase decisoria, ad essere discussa oralmente, se non in casi eccezionali.

L’esperienza del giudizio di cassazione dei nostri tempi convalida la scarsa utilità della discussione orale della causa.

L’udienza pubblica del giudizio civile di cassazione, dinanzi alle sezioni ordinarie, si riduce – nella maggior parte dei casi – allo svolgimento della relazione da parte del consigliere designato e alla requisitoria del pubblico ministero; raramente gli avvocati prendono la parola, preferendo – il più delle volte – riportarsi ai loro scritti, nei quali hanno avuto modo di mettere a punto gli argomenti difensivi. Ed è solo grazie a tale prassi (bisogna essere grati di ciò all’avvocatura italiana) che la Corte riesce a riunirsi in camera di consiglio nelle prime ore del pomeriggio; ché altrimenti, ove tutti i difensori esponessero oralmente i loro motivi di ricorso, la camera di consiglio non potrebbe iniziare se non a sera inoltrata o essere rinviata ad altro giorno, sottraendo così tempo ai magistrati per lo studio di altri ricorsi e per la stesura delle sentenze; con conseguenze perniciose sul piano dell’andamento del lavoro della Corte.

Dunque, oggi la discussione orale è un puro simulacro nel processo civile; e nessuno ne sente la necessità, neppure nei gradi di merito, se non in quei casi eccezionali in cui le questioni sottoposte abbiano particolare rilievo o specificità.

Ed è naturale che, nel giudizio di legittimità, tale particolare rilievo delle questioni sottoposte debba essere valutato – in coerenza con i peculiari compiti che l’ordinamento affida alla Corte di cassazione – in rapporto alla tutela dell’ordinamento giuridico e alla funzione di indirizzo della giurisprudenza.

È certamente vero che il controllo di legalità affidato dall’ordinamento alla Corte suprema (art. 111, settimo comma, Cost.) è posto, al tempo stesso, a tutela dello ius constitutionis e dello ius litigatoris (in ogni processo civile si tutela sempre lo ius litigatoris). Non è vero, però, che ius constitutionis e ius litigatoris debbano essere tutelati secondo le medesime modalità; essendo, al contrario, del tutto logico, che le forme di tutela apprestate siano commisurate ai mezzi disponibili; cosicché – nel quadro attuale – è del tutto ragionevole che il legislatore della novella abbia ritenuto che soltanto la necessità di tutelare lo ius constitutionis (non invece la necessità di tutelare unicamente lo ius litigatoris), giustifichi il ricorso alla pubblica udienza.

 

2.2. – La riforma ha destato perplessità non solo e non tanto per la previsione del rito camerale come rito “ordinario” del giudizio di cassazione, quanto soprattutto per la previsione di un “rito camerale puro” e per la correlativa soppressione del rito camerale c.d. partecipato.

La legge n. 197 del 2016 (art. 1-bis) ha sostituito per intero l’art. 380-bis cod. proc. civ., cancellando la previsione secondo cui il consigliere relatore dell’apposita sezione di cui all’art. 376 cod. proc. civ. (la c.d. sezione-filtro) deve depositare in cancelleria una «relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia», da notificarsi, unitamente al decreto presidenziale di fissazione dell’adunanza della Corte, «agli avvocati delle parti i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre cinque giorni prima, e di chiedere di essere sentiti, se compaiono».

Il nuovo testo dell’art. 380-bis prevede ora che il presidente della sezione-filtro, su proposta del relatore, fissi l’adunanza camerale per decidere sul ricorso – nei casi in cui si configuri un’ipotesi di “inammissibilità”, “manifesta infondatezza o “manifesta fondatezza” dello stesso – e che le parti possano presentare memorie non oltre cinque giorni prima della data stabilita per l’adunanza. Analogo – con lievi differenze relative ai termini concessi alle parti – è il rito camerale previsto dal novello art. 380-bis.1 per la decisione in camera di consiglio presso la sezione semplice.

Diversi autori hanno valutato criticamente la soppressione dell’udienza camerale partecipata (che – anzi – la commissione Vaccarella avrebbe voluto estendere al rito camerale delle sezioni ordinarie) e l’impossibilità per le parti di conoscere in anticipo (mediante la notificazione della relazione) l’idea del consigliere relatore circa la possibile decisione da adottare e le relative ragioni; e hanno valutato criticamente anche la soppressione della possibilità per i difensori di essere sentiti oralmente in camera di consiglio (vecchio testo dell’art. 380-bis cod. proc. civ.).

Va detto senza infingimenti che l’ostensione del (pre-)convincimento personale del giudice relatore, prima della definitiva adozione della decisione, è un istituto che non ha precedenti nell’ordinamento giuridico italiano (forse, per trovare qualcosa di simile, bisogna risalire all’istituto dell’opinamento previsto nell’ordinamento dello Stato Pontificio, in un quadro politico e ordinamentale però del tutto diverso). Ma è stata certamente un’idea bizzarra quella – posta a base del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 – di prevedere l’obbligo del giudice di comunicare alle parti il suo “progetto” di possibile decisione; un’idea che ha determinato il fallimento della sezione-filtro istituita dalla legge 18 giugno 2009 n. 69.

Già la Commissione Berruti, nel proporre la soppressione della relazione prevista dall’art. 380-bis vecchio testo cod. proc. civ., ha osservato che, con la notificazione della relazione, «abbiamo la situazione di un avvocato che conosce già l’intenzione del relatore e con essa quella, sicuramente probabile, del collegio. Egli in realtà ha di fronte un vero e proprio progetto di definizione della causa con tutte le possibili rationes.
Del tutto evidente a questo punto è che il difensore che si vede prospettare una sconfitta si trovi di fronte ad una possibilità difensiva assai più grande di quella che addirittura gli compete nel momento in cui la causa invece viene attribuita al teoricamente più garantito rito della udienza pubblica. Ulteriore risultato è la doppia fatica del relatore, relazione, adunanza, discussione con i colleghi, stesura di una sentenza nella quale tiene conto delle critiche alla relazione, ovvero di un’ordinanza di rimessione alla pubblica udienza, che rende questo rito del tutto irragionevole. Esso contraddice la sua funzione, cosicché accade, probabilmente solo in relazione alla quantità di fatica dei relatori delle singole sezioni, che ancora troppe siano le cause che, benché di agevole definizione e nelle quali sostanzialmente il ricorrente si duole solo di aver perduto la causa e ripete argomentazioni già esaminate dal giudice di merito, vadano alla udienza pubblica».

A tali condivisibili – quanto ovvie – considerazioni, si può aggiungere che il sostanziale fallimento della funzione di filtro esercitata finora dall’apposita sezione di cui all’art. 376 cod. proc. civ. è dipeso dalla irragionevole pretesa di imporre al magistrato relatore di comunicare monocraticamente alle parti la sua personale idea relativa ad una possibile decisione che dovrà comunque essere collegiale, determinando così l’isolamento del relatore rispetto al collegio (di cui pure fa parte) ed esponendolo agli strali della parte che vede profilarsi la soccombenza; è dipeso dall’avere preteso di costringere il consigliere relatore ad anticipare una decisione ancora da prendere, una decisione che dovrà prendere un organo diverso da lui, un collegio del quale è solo componente.

È evidente, in questo quadro, che la sezione-filtro non ha potuto funzionare secondo le attese del legislatore. Se poi si considera che la camera di consiglio (per sua natura segreta e riservata ai giudici componenti il collegio giudicante), grazie alla facoltà riconosciuta ai difensori di intervenire oralmente dinanzi al collegio, si è trasformata di fatto in un’udienza (quasi-)pubblica (con la sola differenza di essere tenuta a porte chiuse e senza l’uso delle toghe), si comprende ancor di più l’irragionevolezza del sistema.

Giustamente, perciò, la riforma ha cancellato questo anomalo – quanto fallimentare – rito camerale.

Soppresso il rito camerale c.d. partecipato, il nuovo testo dell’art. 380-bis prevede ora che il relatore della sezione-filtro formuli una proposta di definizione in adunanza camerale al presidente della sezione e che il presidente fissi con decreto l’adunanza della Corte «indicando se è ravvisata una ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza».

La lettera della legge esclude certamente che la proposta del relatore vada notificata alle parti. Si tratta, d’altra parte, di un atto interno alla Corte, che attiene al rapporto tra relatore e presidente, che non vi è ragione di esternare.

D’altra parte, il secondo comma del nuovo art. 380-bis è chiaro nel prevedere che solo il decreto di fissazione dell’adunanza camerale deve essere notificato alle parti, ai fini del decorso del termine per presentare memorie.

Si pone allora il problema di stabilire cosa debba essere effettivamente indicato nel decreto di fissazione dell’adunanza camerale della sezione-filtro.

A tal fine, sembra utile muovere dal confronto col testo della corrispondente norma del codice di procedura penale in tema giudizio di cassazione.

L’art. 610 cod. proc. pen. prevede che il presidente dell’apposita sezione (la sezione-filtro penale) fissi la data per la decisione in camera di consiglio e la cancelleria dia comunicazione del deposito degli atti e della data dell’udienza al procuratore generale ed ai difensori; la disposizione aggiunge: «L’avviso deve contenere l’enunciazione della causa dell’inammissibilità rilevata».

Orbene, la differenza che salta subito agli occhi, nel confronto tra il nuovo art. 380-bis cod. proc. civ. e l’art. 610 cod. proc. pen., è che solo nel codice di rito penale è prescritto che l’avviso alle parti contenga la enunciazione della “causa” dell’inammissibilità, mentre analoga prescrizione manca nel codice di rito civile.

Logica vorrebbe, dunque, che nel decreto di fissazione dell’adunanza camerale, il presidente della sezione-filtro civile si limiti ad indicare se è ravvisata un’ipotesi di “inammissibilità”, di “manifesta infondatezza” o di “manifesta fondatezza”; esattamente come prevede la legge.

D’altra parte, va escluso che il principio costituzionale dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111, sesto comma, Cost.) imponga di motivare la proposta del relatore o il decreto presidenziale di fissazione dell’adunanza camerale. Il detto principio costituzionale prescrive, infatti, che siano motivati i provvedimenti a contenuto decisorio, non quelli meramente ordinatori, che si limitano a disciplinare l’andamento del processo (quali i decreti di fissazione delle udienze). Alla stregua di tale principio costituzionale va, pertanto, motivata l’ordinanza che decide sul ricorso a seguito dell’adunanza camerale, non certo il decreto che fissa l’adunanza camerale.

E tuttavia, con lettera del 8.11.2016, il Consiglio nazionale forense ha chiesto al Primo Presidente della Corte che, nel decreto di fissazione dell’adunanza camerale, siano esplicitate, per ciascun motivo di ricorso, quali ragioni di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta infondatezza siano di volta in volta ravvisate.

È presto per dire quale contenuto verrà dato – nella prassi – alla proposta del relatore e al decreto di fissazione dell’adunanza camerale.

Ma il pericolo è dietro l’angolo. Certo, a seguire fino in fondo la richiesta del C.N.F., è elevato il rischio che – di fatto – si ritorni alla vecchia relazione appena abrogata; e si riproporrebbero allora tutte le difficoltà che finora non hanno consentito alla sezione-filtro di funzionare a dovere, con conseguente massiccia rimessione dei ricorsi alle sezioni semplici.

In tale eventualità, è facile prevedere che la prossima riforma del giudizio civile di cassazione sopprimerà del tutto la sezione-filtro; sezione che oggi – una volta che le sezioni semplici decidono “di regola” in camera di consiglio – ha perduto gran parte della sua ragion d’essere.

 

2.3. – Rimangono da affrontare le critiche più insidiose, che attengono alla legittimità del rito camerale “puro” – previsto tanto per le sezioni semplici quanto per la sezione-filtro – sul piano del diritto costituzionale e del diritto internazionale convenzionale.

Da più parti in dottrina si è manifestato il timore che il rito camerale “puro”, nella misura in cui esclude per il difensore la possibilità di discutere la causa oralmente dinanzi al collegio, possa comprimere il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e porsi in contrasto con la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, essendo stato l’art. 6 della Convenzione interpretato nel senso che deve essere comunque garantito il diritto delle parti ad essere sentite.

Sul punto, va innanzitutto escluso in radice che la previsione che le parti, nel giudizio camerale di cassazione, possano formulare le loro difese solo mediante le scritture determini una lesione del diritto di difesa e, quindi, la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost. La disposizione costituzionale, infatti, garantisce il diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti, ma non prescrive la forma in cui esercitare la difesa e svolgere il contraddittorio, la cui determinazione rimette alla scelta discrezionale del legislatore ordinario.

Il precetto secondo cui il giudice può decidere la causa solo dopo aver sentito entrambe le parti – condensato negli antichi aforismi: “nemo potest inauditus damnari”; “audiatur et altera pars” – non impone certo – soprattutto nel giudizio di legittimità – che la difesa debba essere orale o che la difesa orale debba sempre essere consentita, imponendo invece soltanto che alla parte sia data la possibilità di contraddire in qualsiasi modo (e dunque anche solo per iscritto) alle deduzioni avversarie.

La forma scritta, peraltro, è – di certo – quella che più si addice al giudizio di cassazione; un giudizio il cui oggetto non è costituito dalla vicenda fattuale concreta dedotta in giudizio (la res in iudicio deducta), ma dai vizi di legittimità denunciati col ricorso per cassazione; un giudizio in cui nessuna attività istruttoria è consentita e in cui la pronuncia della Corte verte esclusivamente sulle deduzioni formulate dalle parti nel ricorso e nel controricorso, con conseguente inammissibilità delle nuove censure eventualmente formulate durante la discussione orale, destinata com’è – quest’ultima – alla sola illustrazione dei motivi già formulati per iscritto.

Non meno infondata appare la preoccupazione che l’esclusione della pubblica udienza e della possibilità per le parti di svolgere difese orali possa costituire una violazione dell’art. 6 della C.E.D.U.

La Corte di Strasburgo ha costantemente affermato che il principio della pubblicità dell’udienza non ha carattere assoluto e può essere derogato in presenza di circostanze eccezionali collegate alla natura delle questioni sottoposte all’esame del giudice, con particolare riferimento al carattere altamente tecnico della materia trattata o alla particolare diligenza richiesta o ad esigenze di efficacia ed economia o, ancora, al rispetto della ragionevole durata del procedimento (in questo senso, Corte E.D.U. sent. 8 febbraio 2005, Miller c. Svezia; sent. 11 luglio 2002, Góp c. Turchia; sent. 24 giugno 1993, Schuler Zgraggen c. Svizzera; sent. 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia). Da ultimo la Corte europea dei diritti dell’uomo – con la sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti c. Italia – ha affermato che l’udienza pubblica può non essere necessaria quando la causa sollevi soltanto questioni di fatto o di diritto che possano essere risolte sulla base dell’esame del fascicolo e delle osservazioni presentate dalle parti.

Anche la Corte costituzionale, con la sentenza 11 marzo 2011 n. 80, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 – sollevata in relazione agli artt. 117 primo comma Cost. e 6 C.E.D.U. – “nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica”, ha affermato che «al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta», aggiungendo poi che «La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza (...), si apprezza (...) in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative».

Applicando tali principi – elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e dalla Corte di Strasburgo – la Corte di cassazione ha affermato che «il principio di pubblicità del giudizio, posto dall’art. 6 della C.E.D.U., non è di applicazione assoluta, potendo essere limitato – fermo restando il rispetto dell’inderogabile principio del contraddittorio – oltre che nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata delle stesse parti del processo, anche nell’interesse della giustizia, laddove lo giustifichino esigenze particolari» (Cass. 5 maggio 2016, n. 9041, Cass. 9 ottobre 2015, n. 20282; Cass. 18 giugno 2012, n. 9983; Cass., Sez. Un., 20 aprile 2004, n. 7585) e che è giustificata una sua applicazione più limitata nei giudizi di impugnazione quando il giudice possa adeguatamente risolvere le questioni di fatto o di diritto sottoposte al suo esame in base agli atti del fascicolo ed alle osservazioni delle parti (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20282).

La Corte suprema ha così escluso che, nella fase di impugnazione in sede di legittimità, possa reputarsi necessario che la decisione avvenga in udienza pubblica, non ravvisando alcun contrasto tra il citato art. 6 della C.E.D.U. e la disciplina dettata dall’art. 375 cod. proc. civ. (nelle sue varie versioni) sul procedimento in camera di consiglio (Cass., 18 luglio 2008, n. 19947). Più di recente, la S.C., a proposito del procedimento ex art. 380-ter cod. proc. civ. relativo alla decisione sul regolamento di giurisdizione e su quello di competenza e alla prevista esclusione, limitatamente a quest’ultimo, della possibilità per le parti di essere sentite in camera di consiglio (ultimo comma dell’art. 380-ter), ha escluso il contrasto di tale disciplina con l’art. 6 della C.E.D.U., ribadendo che, alla stregua della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo, «il principio della pubblicità del giudizio che si svolge dinanzi ad organi giurisdizionali, pur costituendo un cardine dell’ordinamento democratico, non trova, un’applicazione assoluta, potendo essere legittimamente limitato, oltre che nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata delle stesse parti del processo, anche nell’interesse stesso della giustizia, laddove esigenze particolari, quali quella concernente la celerità della decisione sul regolamento di competenza, lo giustifichino, fermo restando il rispetto dell’inderogabile principio del contraddittorio» (Cass. 18 giugno 2012, n. 9993; Cass. 16 marzo 2012, n. 4268).

In definitiva, alla stregua della giurisprudenza esaminata, deve ritenersi che, nel processo civile, essendo assicurata la pubblicità dell’udienza nei gradi di merito (mediante l’attribuzione alle parti della facoltà di chiedere la discussione orale della causa), il nuovo rito camerale di cassazione soddisfa appieno i parametri della C.E.D.U., a maggior ragione considerando che nel giudizio di legittimità si discute solo di questioni di diritto già sollevate e argomentate nel ricorso.

Il manifestato timore per la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo non ha, dunque, ragion d’essere; ancor di più se si considera che l’esame dei ricorsi senza pubblica udienza costituisce un modo di procedere da lungo tempo adottato dalla Cour de cassation, ove i giudici francesi possono esaminare i ricorsi in camera di consiglio (in formazione ristretta) e deciderli senza far luogo alla discussione orale.

 

3. – Rimane da trattare il secondo pilastro della riforma del giudizio di cassazione, quello che riguarda il provvedimento decisorio. D’ora in poi, il provvedimento decisorio ordinario, nei giudizi di cassazione, avrà la forma della “ordinanza” (adottata in esito all’adunanza camerale), e non più la forma della “sentenza” (adottata in esito alla pubblica udienza).

Anche in questo caso la scelta legislativa trova la sua ragion d’essere nell’adozione del criterio teleologico, che guarda alla funzione che la Corte suprema è chiamata ad esercitare.

Ove col ricorso si sottopongano alla Corte solo questioni diritto a valenza individuale, da decidersi esclusivamente a tutela dello ius litigatoris, la pronuncia assumerà la forma dell’ordinanza, adottata in esito all’adunanza camerale; ove, invece, col ricorso venga sottoposta una «questione di diritto di particolare rilevanza» (art. 375 secondo comma cod. proc. civ.), che abbia valenza anche sul piano della tutela dello ius constitutionis, dell’interesse generale all’unità della giurisprudenza, la pronuncia – che sarà adottata in esito alla pubblica udienza – assumerà la forma della sentenza.

Si tratta del medesimo sistema flessibile introdotto a proposito della scelta del rito; anzi di un aspetto di quel sistema, che opta per il “doppio binario” anche con riferimento alla “forma” del provvedimento decisorio.

La distinzione tra “ordinanza decisoria” (che – in quanto tale – si distingue dai provvedimenti di rito, destinati a governare l’andamento del processo) e “sentenza” si apprezza in relazione al contenuto della motivazione.

L’ordinanza, secondo quanto recita l’art. 134 cod. proc. civ., deve essere «succintamente motivata»; la sentenza – secondo quanto prevede il vigente testo dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. – deve contenere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» (non più – come prevedeva il precedente testo della disposizione, prima dell’intervento della legge n. 69 del 2009 – anche la concisa esposizione dello svolgimento del processo).

La differenza di contenuto motivazionale, tra ordinanza e sentenza, non va rinvenuta tanto nei diversi aggettivi – “succinta” e “concisa” – con i quali è qualificata la motivazione dei due provvedimenti, aggettivi dei quali peraltro il legislatore fa un uso promiscuo (ne è prova il fatto che l’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. recita che la motivazione della sentenza «consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e della ragioni giuridiche della decisione», ma aggiunge poi che «Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio (...)»); la differenza va rinvenuta invece nella diversa tecnica di redazione del provvedimento, laddove la motivazione dell’ordinanza può ridursi a meri enunciati di risposta alle questioni sottoposte, senza necessità di svolgere argomentazioni articolate e complete; mentre la motivazione della sentenza – dovendo contenere l’esposizione delle «ragioni di fatto e di diritto della decisione» – esige comunque un discorso, seppur sintetico, completo ed esaustivo, che esamina tutti gli argomenti sottoposti.

Con ragionevole approssimazione, può dirsi che l’ordinanza che la Corte di cassazione italiana adotterà al termine dell’adunanza camerale avrà il contenuto dell’arrêt della Corte di cassazione francese, quale modulo argomentativo che si sviluppa in una sequenza di affermazioni secche, in una serie di proposizioni assertive e non argomentative che, seguendo lo schema del ragionamento sillogistico, pervengono alla conclusione. L’ordinanza decisoria della Corte di cassazione adotterà la tecnica del c.d. “attendu que” (ossia “atteso che”, “considerato che”), che consiste nell’esaminare tutte le questioni sollevate col ricorso in un solo periodo, suddiviso in una pluralità di proposizioni (una per ogni questione esaminata), logicamente collegate tra loro, tali da giustificare il dictum giudiziale.

Questa tecnica motivazionale si adatta alla perfezione alla natura delle questioni di diritto trattate nell’adunanza camerale. E invero, laddove le questioni sottoposte col ricorso hanno valenza meramente individuale e non chiamano la Corte a svolgere la funzione di indirizzo della giurisprudenza, non v’è ragione perché i provvedimenti decisori siano argomentati, siano cioè giustificati con argomentazioni di carattere persuasivo; è sufficiente, invece, che i provvedimenti decisori siano motivati mediante proposizioni di carattere meramente assertivo, che si limitino a richiamare e ad applicare la giurisprudenza della Corte già esistente, i suoi precedenti giurisprudenziali.

È evidente il collegamento tra l’opzione legislativa per l’“ordinanza”, come forma ordinaria di provvedimento decisorio della Corte di cassazione, e il modello di “motivazione semplificata” elaborato in questi anni dalla Prima Presidenza della Corte suprema e oggetto di più circolari, l’ultima della quali (la n. 136 del 19.9.2016) – adottata dall’attuale Prima Presidenza – particolarmente rigorosa, nella misura in cui punta a generalizzare la motivazione semplificata, distinguendo le pronunce a seconda che abbiano o meno “valenza nomofilattica” e prevedendo – con riferimento all’uno o all’altro caso – la “differenziazione delle tecniche motivazionali”.

Naturalmente, le circolari della Prima Presidenza si sono mosse in un quadro normativo diverso da quello ora risultante dalla novella del 2016, in un quadro nel quale la Corte di cassazione pronunciava – di norma – con sentenza; dal che la necessità, giustamente colta dai vertici della Suprema Corte, di non adottare il medesimo modello motivazionale per ogni sentenza, ma di differenziare la tecnica motivazionale a seconda della valenza della pronuncia in chiave nomofilattica, secondo un criterio sostanzialmente teleologico. E in tale quadro, la richiamata ultima circolare del Primo Presidente ha previsto che il collegio deliberi in camera di consiglio in ordine alla valenza nomofilattica della decisione, stabilendo che, ove tale valenza non sia riconosciuta, debba essere senz’altro redatta una “motivazione semplificata” (assunta così a “regola”, derogabile di caso in caso), sulla schema dell’arrêt francese, connotata – tra l’altro – dalla possibilità di omettere l’esposizione dei fatti di causa quando tali fatti emergano dalle ragioni della decisione e dalla possibilità di omettere anche l’esposizione dei motivi di ricorso ove essi siano comunque fatti risultare dal tenore delle risposte della Corte.

Ben può dirsi, allora, che il legislatore della novella, generalizzando l’ordinanza come modello di provvedimento decisorio “ordinario” per le sezioni semplici, abbia fatto tesoro dell’elaborazione della Prima Presidenza ed abbia adottato nel sistema italiano il modello dell’arrêt della Cour d’oltralpe, quello che più si addice ad una pronuncia della Corte suprema che non risolva questioni di diritto di rilevanza generale ai fini dell’indirizzo della giurisprudenza.

Con ciò non è esclusa del tutto la motivazione estesa, quella che fa ricorso al discorso persuasivo, che adotta le tecniche argomentative dialettico-retoriche; essa però – nella logica della riforma – è riservata a quei casi in cui la Corte di cassazione sia chiamata a risolvere questioni di diritto che abbiano valenza generale, che abbiano rilievo ai fini della tutela dello ius constitutionis.

È evidente, infatti, che, quando la pronuncia non ha rilievo ai fini dell’indirizzo giurisprudenziale, ma esaurisce la sua funzione nella risoluzione della controversia tra le parti, non v’è ragione che le sentenze siano motivate secondo la tecnica delle argomentazioni persuasive. Persuasiva deve essere la motivazione della pronuncia che abbia rilievo ai fini giurisprudenziali e che – in quanto tale – è rivolta agli altri giudici, affinché nel decidere le future controversie si adeguino alla soluzione giuridica prescelta dalla Corte; non deve essere persuasiva la pronuncia della Corte di cassazione che esaurisce i suoi effetti nell’ambito della contesa tra le parti. La pronuncia della Corte è comunque un “atto d’autorità”, che non ha lo scopo di persuadere le parti, ma quello di risolvere le questioni giuridiche sottoposte; è sufficiente, allora, che la Corte spieghi le ragioni della decisione con proposizioni meramente assertive, che diano contezza dei principi di diritto applicati.

L’adozione della nuova tecnica motivazionale dell’arrêt, unita all’opzione per il rito camerale come rito ordinario, punta evidentemente allo snellimento del giudizio di cassazione, in funzione dell’aumento della produttività decisoria della Corte. Ed è certamente prevedibile che tale aumento di produttività avverrà; potendo ora i magistrati della Corte, grazie al nuovo rito camerale, iniziare a discutere e decidere i ricorsi in camera di consiglio fin dalle prime ore della mattina e stilare le ordinanze decisorie con una tecnica nuova, fondata sulla sintesi e sulla essenzialità delle proposizioni motivazionali, che consentirà loro di risparmiare notevole tempo, senza sacrificare la completezza delle risposte dovute.

Certo, i consiglieri della Corte dovranno ora acquisire una professionalità nuova; essi sono chiamati ad un rilevante impegno per superare abitudini ataviche, per superare quella, purtroppo diffusa, visione della sentenza – di ogni sentenza – come “monumento della scienza giuridica”.

Il giudice di legittimità dovrà mostrare di avere “capacità di sintesi”. Capacità di sintesi vuol dire, essenzialmente, escludere dalla motivazione del provvedimento la considerazione di tutti quei caratteri del fatto che non siano strettamente necessari ai fini della risoluzione della questione di diritto sottoposta, che non rilevino rispetto allo schema della fattispecie giuridica sostanziale; vuol dire richiamare i principi di diritto vigenti nella giurisprudenza della Corte utili alla soluzione della questione giuridica sottoposta, senza attardarsi ad esporre l’evoluzione giurisprudenziale sul punto e senza argomentare sulle ragioni che sostengono il principio di diritto applicato; vuol dire, in altre parole, valorizzare fino in fondo il “precedente”, in un quadro normativo peraltro in cui il principio dello “stare decisis” assume via via rilevanza sempre maggiore nel nostro ordinamento.

Il risultato della nuova tecnica motivazionale sarà un provvedimento essenziale e sintetico, ma – proprio per questo – più intellegibile e chiaro nella giustificazione della decisione.

 

4. – A conclusione di questa breve disamina delle linee essenziali della riforma del giudizio di cassazione, si può dire che la novella riformatrice costituisce senz’altro – tra le riforme politicamente possibili (di quelle necessarie, ma politicamente impossibili, si è detto all’inizio) – un enorme passo in avanti sul piano dell’adeguamento della nostra Corte suprema agli standard delle altre Corti supreme europee.

D’ora in poi avremo non più un rito processuale di cassazione rigido, ingessato, insensibile alla valenza delle questioni di diritto sottoposte; avremo, invece, un rito flessibile, che si adatta al contenuto del ricorso e alla rilevanza delle censure nel quadro della funzione, affidata alla Corte, di indirizzare la futura giurisprudenza; un sistema che – optando per il rito camerale – consente una più agevole e rapida risposta della Corte alla miriade di ricorsi che sottopongono solo questioni diritto di valenza meramente individuale, ma che conserva – nel contempo – e valorizza il rito dell’udienza pubblica, con la discussione orale delle parti e le conclusioni del procuratore generale, riservandolo a quei ricorsi che sottopongono questioni di diritto la cui soluzione consente alla Corte di esercitare la sua funzione peculiare, quella di indirizzo della giurisprudenza.

Oggi la Corte di cassazione italiana è un cantiere aperto, nel quale – con enorme sforzo di riorganizzazione – ci si prepara a dare attuazione ad una riforma che segna una svolta epocale; un riforma che certamente costringerà magistrati ed avvocati a mutar costume, ma che è necessaria per dare una risposta solerte alle istanze di giustizia dei cittadini. 

 

02/12/2016
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