Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

Il danno alla relazione parentale e il dilemma esistenzialista della Cassazione

di Donatella Salari
Giudice del Tribunale di Roma
Commento alla sent. n. 19402/2013 della Corte
Il danno alla relazione parentale e il dilemma esistenzialista della Cassazione

Con la sentenza in commento si apre un nuovo fronte nella perimetrazione della risarcibilità del danno esistenziale, quanto meno come voce autonoma di risarcimento del danno non patrimoniale separato da quello biologico.

Afferma la sentenza in commento che il danno esistenziale non è che un aspetto della plurioffensività dell’illecito e che la sua la sua risarcibilità  è subordinata al disimpegno di in un onere –rigoroso- della prova.

Il tema della prova va perciò finalizzato a fare emergere- con modalità precise e dettagliate - quello sconvolgimento radicale nella vita dei familiari superstiti, tale da incidere gravemente sulle abitudini di vita, radicalmente mutate in pejus. 

La fattispecie concreta, che va accennata per comprendere il percorso motivazionale della decisione, riguardava la morte di un figlio in giovane età all’esito di un incidente stradale per il quale il risarcimento per danno esistenziale richiesto dai parenti del deceduto non era stato automaticamente riconosciuto dal giudice del merito.

Per la verità, la sentenza in commento non nega l’astratta configurabilità di questa voce di danno, ma risente evidentemente di quegli arresti giurisprudenziali, dei quali ripercorre la storia, i quali nell’escludere l’autonomia di questa voce di specific damage, ne aveva ridimensionato l’autonomia declassandola a mera sotto-voce del danno non patrimoniale.

Ciò che la decisione sottolinea è la necessità di circostanziare e provare analiticamente la contrazione subita per effetto della lesione irreversibile della relazione affettivo parentale in conseguenza del lutto.  

Insomma, il danno esistenziale derivante da perdita di relazione parentale, comunque rappresentativa di interessi costituzionalmente protetti richiede, secondo la decisione in commento,una prova quanto mai accurata della sofferenza patita dai familiari che ne chiedono il ristoro.

Si tratta, insomma, di un nuovo - ma prevedibile- capitolo della tormentata elaborazione e concettualizzazione del danno esistenziale come voce di difficile omologazione nei parametri più consueti che lo vorrebbero assimilato al danno biologico ricomprendente, quale pregiudizio del bene –salute, inteso nella massima estensione, anche il danno alla vita di relazione intesa come diminuita capacità dell’individuo a reintegrarsi nel tessuto sociale e a condurre, dopo il danno-lutto, una vita normale.

E’ a tutti nota la complessa valorizzazione in termini giuridici della sofferenza da perdita relazionale e dell’espressione più intensa del danno stesso costituita dal danno parentale e come questi pregiudizi si siano espansi attraverso la categoria giuridica del danno esistenziale.

Per comprendere appieno il senso della decisione è perciò utile, come fa la sentenza in commento,ricordare, per prime, le ben note e più antiche “sentenze gemelle”, ossia le decisioni della S.C. nn.8827 e 8828 del 2003.

I provvedimenti citati si erano impegnate in una lettura attuativa dei valori costituzionali, nel tentativo di superare l’impostazione eccessivamente materialistica ed ancorata al concetto di malattia sia pure in senso psicologico, omologando anche la sofferenza relazionale all’antinomia benessere – sofferenza psichica ossia al danno biologico.

Si era così facilitata la prova del danno esistenziale semplicemente collocandolo nella disciplina del 2059 c.c. sul rilievo che anche il danno biologico può apprezzarsi come danno esistenziale nel momento in cui la sofferenza psichica impedisce al danneggiato lo svolgimento di quelle attivita' che il disagio psicologico, al pari di quello della malattia fisica, gli impediscono di disimpegnare a causa del dolore e della sofferenza esistenziale.

La Corte di Cassazione aveva perciò polarizzato due macrocategorie di danno: quello patrimoniale e quello non patrimoniale riconducendo poi in questa seconda area le c.d. sofferenze relazionali intese come espressione del c.d. danno morale soggettivo. 

Si trattava di un’apertura forte di riconoscimento del danno esistenziale inteso come impedimento della vittima dell’illecito a svolgere tutte quelle attività impedite dalla compromissione dell’integrità psicofisica.

In conseguenza di ciò, le citate sentenze del 2003 avevano avuto il grande merito di riconoscere le affinità tra danno biologico e danno esistenziale ancorando entrambi i pregiudizi alla previsione generale dell’art. 2059 c.c. ridisegnando, nel contempo, la grande area del danno non patrimoniale nelle tre sotto-categorie di danno biologico/ esistenziale e morale (meglio noto come sofferenza transitoria).

Insomma, il danno esistenziale si era configurato per questo arresto giurisprudenziale come qualcosa di ulteriore e diverso rispetto alla lesione dell’interesse protetto dalla categoria tradizionale del danno non patrimoniale

Con Cass., Sez. un., 24 marzo 2006 sembrava, alla fine dell’elaborazione giurisprudenziale più evolutiva, essersi consolidata la definizione del danno esistenziale come illecito che incide sulle potenzialità non reddituali del danneggiato privandolo di quelle occasioni che consentono, secondo un criterio tendenziale di normalità, lo svolgimento pieno della sua personalità ed il pregiudizio inteso come modificazione peggiorativa delle abitudini di vita.

Si afferma, insomma la natura del danno esistenziale come danno- conseguenza e non danno-evento a dire che il pregiudizio consegue non dalla lesione pura e semplice dell’interesse protetto (danno-evento) ma dalle conseguenze non patrimoniali (ma il meccanismo è il medesimo per i danni patrimoniali) che ne scaturiscono.

Sorge certo, nel concreto, un problema di prova.

Infatti, sarà il danneggiato a dovere provare- rigorosamente- le attività cui si dedicava prima del danno-evento- e quelle che, dopo l’evento pregiudizievole, non potrà più svolgere.

Si dice, in proposito che, rispetto a certi pregiudizi il danno sia in re ipsa, ma lo stesso si potrà,allora, dire della prova che è anche essa in re ipsa.

Pertanto è la stessa giurisprudenza di legittimità ad agevolare l’onere della prova proprio in tema di danno da perdita parentale.

Ne deriva secondo la giurisprudenza della S.C. (Cass. 13546/2006) che provato il fatto-basedella sussistenza  di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, possa ritenersi che la privazione di tale rapporto presuntivamente determini ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull’assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all’esterno di esso, rispetto ai terzi.

La migliore dottrina aveva sottolineato che solo in tal modo si poteva garantire una tendenziale integralità del risarcimento e la personalizzazione del pregiudizio già conosciuta dal diritto anglosassone come specificazione dei general damages (conseguenze ordinarie della lesione) especific damages (caratterizzate dalla personalità e dalle abitudini di vita del danneggiato) assicurando così il risarcimento del c.d. “sconvolgimento esistenziale”.

Il problema della prova appariva, in questa fase, agevolato dal carattere accentuato del danno esistenziale come danno-conseguenza e non come danno evento.

Ne conseguiva una forte personalizzazione del danno da sconvolgimento esistenziale e, attraverso la depurazione del tema probatorio, circa quali e quante abitudini di vita risultavano pregiudicate dal fatto illecito, si preveniva il pericolo di duplicazioni di voci di danno.

L’ulteriore evoluzione di questa giurisprudenza aveva trovato, però, un nuovo arresto nei costi sociali di una proliferazione di voci di danni vissuta – forse per la spinta di risarcimenti di danni pseudo esistenziali e/o bagatellari (la sposa che subisce il danno esistenziale di un’acconciatura sbagliata) o border line (la morte del piccolo cane d’affezione sbranato da un mastino sfuggito al controllo del padrone etc.) come ingiustificata laddove spinta fino alla duplicazione delle voci di risarcimento e come, questa preoccupazione, abbia condotto a quell’arresto giurisprudenziale che la sentenza in commento ripercorre e, in definitiva, conferma.

Infatti, con le decisioni a Sezioni Unite dell’ 11.11.2008, n. 26972 ed ancora, con quellepure gemelle  del 26973, 74 e 75 la Corte di Cassazione era tornata sul danno esistenziale con una decisione tacciata, forse a torto, di intenti restauratori quanto meno per avere negato autonomia al danno morale inteso come sofferenza transitoria e danno esistenziale inteso come perduta attitudine allo svolgimento della propria vita espressiva di una pienezza di possibilità che il soggetto si era dato nel suo progetto di vita: dall’impegno sportivo a quello sociale più generico, dalle relazioni sentimentali alla pienezza dell’attività sessuale e via discorrendo.

Bene, secondo le sentenze gemelle del 2008 il pregiudizio che attinge alla vita di relazione è un tutt’uno e si chiama danno non patrimoniale con la conseguenza che le c.d. sofferenze morali sono risarcibili solo se attengano ai diritti di rilievi costituzionali, perciò.. Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

E’ la stessa sentenza in commento che fa propria la giurisprudenza appena citata affermando che le Sezioni Unite del 2008 hanno chiarito che in assenza di reato e al di fuori dei casi determinati dalla legge, «pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona. Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)»; ed hanno ribadito che il danno non patrimoniale deve, comunque, essere provato.

Si negava insomma l’autonomia il danno esistenziale, in quanto tale.

A questo punto il tema probatorio appare evidentemente appesantito perché riconduce la sofferenza esistenziale nell’unico tema del danno morale e riassorbe tutti i danni extracontrattuali nei temi della rigorosità della prova, indipendentemente dal carattere così detto di consequenzialità dell’illecito, nei limiti generali di un rilievo costituzionale dei valori fondanti la richiesta.

Restavano ferme, ovviamente, le agevolazioni probatorie presuntive (Cass. Sez.Un., 15.1.2009, n. 794; Cass., 19.12.2008, n. 29832) e ciò valeva in particolare per il danno non patrimoniale da morte o lesione dello stretto congiunto, come già in passato statuito, tra le tante, da Sez.UU., 24.3.2006,n.6572.

Il rigore delle sentenze gemelle rimaneva perciò attenuato dall’ammissibilità delle presunzioni.

La Corte di Cassazione, infatti, ritornando sul tema della prova del danno esistenziale con la decisione 21 gennaio  2011, n. 7844 ribadiva che esse non costituiscono mezzi di prova di rango inferiore rispetto alla prova diretta o rappresentativa.

Rimaneva, dunque, ampio spazio per la deduzione della sofferenza esistenziale da lutto familiare.

Provata, infatti, la pacifica convivenza con la vittima dell’illecito, coloro che condividevano il legame dovevano provare le radicali ed irreversibili modificazioni delle regole di vita secondo l’id quod plerumque accidit .

Tanto premesso, ecco il fatto concreto preso in esame dalla sentenza 19402/13 dalla Corte diCassazione.

In un incidente stradale, come detto in premessa, perde la vita uno dei trasportati e rimane gravemente ferito il fratello di costui.

In primo grado viene riconosciuta la responsabilità dell’autoarticolato che aveva investito l’autovettura con una percentuale del 20% a carico del conducente dell’autovettura investita –pure lui deceduto nell’impatto e liquidata un risarcimento giudicato esiguo a favore della madre e del fratello del deceduto.

L’impugnazione innanzi alla Corte d’Appello dà esito positivo per i parenti delle vittime che ottengono una maggiorazione di circa diecimila euro a titolo di danno morale, svalutando, però, l’ulteriore istanza risarcitoria a titolo di sofferenza esistenziale per la perdita affettiva.

La Corte territoriale osservava, infatti, che l'ulteriore richiesta risarcitoria avanzata in conseguenza delle gravissime ricadute dell'evento sui familiari e sul tipo di convivenza non poteva trovare accoglimento, poiché il danno biologico ed il danno morale «non sono per loro natura suscettibile di una valutazione con criteri oggettivi»..

I ricorrenti si lamentano, allora, che la Corte territoriale abbia loro disconosciuto il danno esistenziale derivante dalla perdita parentale e dallo stravolgimento della vita familiare colpita dal lutto scegliendo di risarcire in unica accezione il danno morale, oltre al danno biologico.

Impugnata la decisione innanzi al Giudice di legittimità la decisione in commento, partendodalla prospettiva  diversa ossia dalla plurioffensività dell’illecito, afferma che il danno biologico, il danno morale ed il danno alla vita di relazione rispondono - per così dire - a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo.

In altre parole, secondo la S.C. un determinato evento può causare, nella persona stessa della vittima, come in quelle dei familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore ed un'alterazione della vita quotidiana. 

Così la sentenza in commento, perciò fattasi largo nelle ristrettezze imposte dalle c.d. sentenze gemelle del 2008, riconosce indirettamente il danno esistenziale come danno-conseguenza radicando il tema di prova sulla concretezza della lesione in ciò che l’illecito ha sottratto alla vita sociale del danneggiato nella relazione affettivo familiare che lo radicava nelle pregresse abitudini di vita per arrivare alla conclusione che danno morale e danno alla vita di relazione possono comportare non solo conseguenze alla salute medicalmente accertabili, ma anche un dolore interiore ed un’alterazione della vita quotidiana.

Si pone, allora, secondo la sentenza in commento, un’esigenza probatoria particolarmente rigorosa ed esigibile perché, secondo la Corte il Giudice in sede di liquidazione del danno dovrà tenere conto della molteplicità di effetti dannosi dell’illecito «evitando duplicazioni" ma anche "vuoti risarcitori”. 

I valori costituzionali sono quelli della centralità della persona e riecheggiano l’art. 1 della Carta di Nizza e il Trattato di Lisbona ratificato dall'Italia con legge 190/2008 e che colloca la Dignità umana come massima espressione della sua integrità morale e biologica.

In tal senso va letto il richiamo all’integralità del risarcimento e di questo la decisione dà contezza paventando i vuoti di ristoro che menziona in motivazione

Dunque sofferenza interiore da perdita parentale sì, ma con una rigorosa prova che disancora la sentenza da quelle negazioniste pure del danno esistenziale.

La sentenza in commento cassa dunque la decisione impugnata e, riconoscendo il valore costituzionale della lesione del rapporto parentale come sconvolgimento delle abitudini di vita,demanda alla prova rigorosa del danno da lutto la possibilità di un risarcimento.

Il puzzle giurisprudenziale del danno esistenziale si arricchisce, nel frattempo di un’altra tessera.

Infatti, la Corte di Cassazione con la sentenza 22585 del 3 ottobre 2013, in una fattispecie del tutto simile, ulteriormente ridimensiona le SS.UU del 2008 affermando che debba essere risarcita la sofferenza interiore al pari di quella fisica.

Insomma, per citare un’ autorevole dottrina personalizzare il danno marcandone la natura di danno-conseguenza significa, in definitiva, valorizzare l’area di tutte quelle ripercussioni vitali proprie di ciascun individuo, le quali, sia pure ancorate al criterio guida dei valori costituzionalmente protetti, costituiscono risposta giurisprudenziale ragionevole alla sofferenza esistenziale e a quelle pronunce negazioniste di un danno difficile da provare con criteri scientifici, ma, pur sempre, espressione diun “diritto vivente”, nel rispetto dell’indispensabile rigorosità della prova.

29/10/2013
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