Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Il corpo. Gli affetti. La libertà

di Stefano Celentano
giudice del Tribunale di Napoli
Due pronunce, quella della Cassazione sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico e quella che della Cedu che condanna l'Italia per non aver dato ancora tutela legale agli omolegami, riportano i diritti del corpo e degli affetti al centro del dibattito pubblico

C’è un ideale filo conduttore che lega Roma a Strasburgo in questa torrida estate. Questa aria afosa e irrespirabile ci restituisce stranamente una ventata di libertà, attraverso due pronunce con cui ancora una volta, la dimensione del corpo e l’universo degli affetti recitano il loro impeccabile ruolo di protagonisti del dibattito culturale e giuridico del nostro paese.

Due pronunce, - quella sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico, e quella che condanna l’Italia per non aver ancora dato tutela legale e pubblica agli omolegami - rese pubbliche a poche ore di distanza, in una inconsapevole coincidenza che per qualcuno ha l’ormai stereotipato senso dell’ “assedio ingombrante dei giudici” sul tema dei diritti, ma per altri ha l’impareggiabile valore della libertà, e restituisce al tempo stesso l’immagine ed il senso altissimo dell’esercizio della giurisdizione come tutela dei diritti.

E’ ormai da tempo che il dibattito sui diritti del corpo e degli affetti, nel nostro paese ed all’estero quando l’IItalia è oggetto di “osservazione”, è alimentato soltanto dalla giurisprudenza di merito, da quella di legittimità e dal giudice delle leggi, in un silenzio assordante della politica, che - rotto solo da slogan di propaganda, da promesse mai mantenute, e improbabili scioperi della fame – evidenzia l’ambiguità e l’incapacità del governo e del parlamento a prendere posizioni nette su questi temi, come più volte sollecitato dalle corti di giustizia nazionali e sovranazionali. Una inerzia ormai sonoramente censurata e condannata da Strasburgo, rispetto alla quale non vi sono più giustificazioni giuridiche e, se il diritto è a sua volta cultura ed espressione  del tempo, anche le ragioni pseudo culturali contrarie alla trasversalità del diritto all’affetto e alla libertà del corpo, fanno davvero fatica a rendersi valide e perseguibili opzioni nel dibattito.

Roma. 20 luglio 2015.  “L’identità di genere costituisce un percorso che, grazie al minor stigma sociale, prende spesso avvio già in età preadolescenziale, e che è composto da tre componenti: il corpo, l’autopercezione, il ruolo sociale. L’apparenza fisica non può essere slegata dalla autopercezione e dalla relazione che si sviluppa con la società e con le sue norme comportamentali concernenti la sfera della sessualità, in una interazione costante tra cervello corpo ed esperienza. L’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali, influenza la costruzione dell’identità di genere, e la chirurgia, in tale prospettiva, non è la soluzione, ma solo un eventuale ausilio per il benessere della persona. Se si perde di vista questa prospettiva socioculturale da cui emerge la domanda di giustizia, non si può procedere ad una corretta interpretazione delle norme”- .

La Corte di Cassazione fissa finalmente un punto fermo nella interpretazione letterale e sistematica della L. 164/1982, con specifico riferimento al tema della necessità o meno che il processo di rettificazione di sesso debba per forza contenere in sé la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, affermando testualmente che “la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non può che essere una scelta espressiva dei diritti inviolabili della persona, sacrificabili soltanto se vi siano interessi superiori di carattere collettivo da tutelare espressamente indicati dal legislatore". Dunque, in mancanza di tali interessi superiori, il trattamento chirurgico, senza o contro la volontà del ricorrente, diverrebbe una sorta di trattamento sanitario obbligatorio, inumano e degradante, che il ricorrente sarebbe obbligato a subire pur di raggiungere il suo prezioso obiettivo di vita.Ed è proprio su tale ultimo aspetto che la Corte fa un salto di qualità nel dibattito giuridico e culturale, effettuando un’operazione di bilanciamento di eventuali interessi contrapposti, e formulando un giudizio di valore (giuridico) sugli stessi.

In primo luogo, si afferma che la certezza delle relazioni giuridiche e la diversità sessuale delle relazioni familiari non possono assumere al rango di interessi superiori tali da obbligare il soggetto che richiede la rettifica di sesso ad una radicale trasformazione dei suoi caratteri sessuali primari, e ciò perché la diversità di sesso nelle relazioni familiari (in primis in quella matrimoniale) non è più considerato né dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea né nella convenzione europea dei diritti umani un presupposto naturalistico del negozio matrimoniale.

A contrariis, l’identità di genere è una delle caratteristiche fondanti la persona, attinente all’espressione dell’identità personale, e dunque il contrasto tra i dati anagrafici e la rappresentazione esterna di un genere diverso (discrasia sanabile solo con la rettificazione di sesso) è un pregiudizio di un diritto fondamentale dell’individuo, che va dunque eliminato , proprio a tutela del suo equilibrio psicofisico e dunque del suo benessere.

La Corte ci ricorda come il diritto al cambiamento di sesso è uno dei diritti inviolabili della persona, come sancito dalla Corte Costituzionale già nel lontano 1985, come esso sia espressione di libertà e dignità umana, e come soprattutto non possa prescindersi dal ragionamento che il giudice delle leggi operò proprio trenta anni fa, allorquando espresse il concetto per cui il diritto al riconoscimento dell’identità di genere si inserisce in una civiltà giuridica “in continua evoluzione”, poichè soggetta alle modificazioni dell’approccio scientifico, culturale ed etico .

Sul punto - sebbene il riferimento all’etica apra sempre pericolosamente le porte a chi a sproposito voglia individuare sui temi della sfera dell’identità personale l’esistenza di un’etica di stato - va invece valorizzato il carattere interdisciplinare del dibattito sui diritti della persona, e le necessità che la norma, per essere “viva” e concretamente efficace, si alimenti del supporto del dibattito culturale e dei dati scientifici, in temi come quello della identità sessuale, in cui il confine tra scienze mediche, categorie filosofiche e di pensiero, e organizzazione dei rapporti sociali dal punto di vista giuridico, è molto labile. Laddove la Corte costituzionale, nel lontano 1985, si riferì a concetti in continua evoluzione, tale richiamo (con l’indubbio suo fascino dell’essere “remoto”) non può giustificare una interpretazione della norma storico-originalista (se non stantia e statica) che, basandosi solo sul dato letterale, arrivi a ritenere che l’intervento chirurgico è sempre necessario, a meno che il ricorrente non vi sia stato già sottoposto.

E così, nel pervenire alla soluzione in diritto, la Corte passa in rassegna dapprima lo stato dell’arte delle soluzioni giuridiche approntate nei paesi europei  caratterizzati da cultura giuridica e sociale simile alla nostra, nei quali non sono considerati necessari alla rettificazione di sesso interventi chirurgici invasivi, come quelli di eliminazione delle caratteristiche sessuali primarie del proprio sesso biologico; poi ci ricorda come la Corte Edu, nel marzo 2015, ha stabilito che la sterilizzazione imposta non può porsi come condizione indefettibile al cambiamento di sesso. Dunque, sostiene la Cassazione, il sistema creato con la l. 164/82 in realtà non prevede alcuna correzione chirurgica sui caratteri sessuali primari come presupposto necessario per la rettificazione di sesso, e la norma in questione va invece interpretata – sul presupposto della collocazione del diritto all’identità di genere all’interno dei diritti inviolabili che compongono il profilo personale e relazionale della dignità personale - operando un adeguato bilanciamento tra tale ultimo diritto e l’interesse di natura pubblicistica alla chiarezza nella identificazione dei generi sessuali e delle relazioni giuridiche, ma senza ricorrere a trattamenti ingiustificati e discriminatori, “pur rimanendo ineludibile un rigoroso accertamento della definitività della scelta sulla base dei criteri desumibili dagli approdi attuali e condivisi dalla scienza medica e psicologica”.

Può dunque ritenersi che, alla disforia di genere consegua – ai fini del raggiungimento del benessere psicofisico – un percorso assolutamente soggettivo ( e dunque personale e variabile) di riconoscimento dell’identità personale, di spessore e lunghezza indeterminabile ed assolutamente eterogenea, mai privo di interventi modificativi delle caratteristiche somatiche ed ormonali proprie del sesso biologico di appartenenza; il ricongiungimento definitivo tra soma e psiche, e dunque la condizione auspicata di equilibrio psicofisico (quella tutelata dalla norma) è pertanto indeterminabile da punto di vista dei tempi e dei modi per il suo raggiungimento, né può aver luogo soltanto mediante il verificarsi della condizione dell’intervento chirurgico.

La natura interdisciplinare del tema, e la necessità che si attinga da altre branche del sapere per predisporre soluzioni giuridiche efficaci e pertinenti, non può che prendere le mosse dallo sviluppo della scienza medica e dagli approdi della psicologia e della psichiatria sul tema del transessualismo e della transizione di genere, e da una particolare attenzione a come la cultura dei diritti delle persone, sensibile alle libertà individuali e relazionali che compongono la vita privata e familiare, abbia influenzato l’emersione ed il riconoscimento dei diritti delle persone transessuali. Oggi, il percorso di raggiungimento del benessere psicofisico dei transessuali è un percorso medico-psicologico graduale, il cui momento conclusivo ( a cui far coincidere temporalmente, in assenza delle c.d. “piccole soluzioni” il diritto alla rettificazione anagrafica), è assolutamente individuale e non standardizzabile, e potenzialmente differente da persona a persona. Il rispetto dell’individuo, in uno con il doveroso rispetto della sua libertà, nonché un serio approccio scientifico al tema, impone di considerare che tale momento conclusivo (l’auspicato equilibrio tra psiche e corpo) è profondamente influenzato dalle sue caratteristiche individuali, essendo un processo di autodeterminazione, personale, maturo, complesso e sofferto, sostenuto da presidi medici, terapie, trattamenti estetici e psicologici che non necessariamente comprende in sé la scelta di sottoporsi ad interventi chirurgici invasivi.

Tale percorso – argomenta la Corte – è tendenzialmente immutabile, proprio per le caratteristiche di spessore delle scelte effettuate e del grado elevato di autodeterminazione che si richiede a chi lo compie, e la variabilità delle modalità con cui si raggiunge l’obiettivo finale dell’equilibrio psicofisico non è certo indice della superficialità o semplicità del percorso in questione.

Dunque, l’interesse pubblico alla definizione certa dei generi (importante nelle relazioni filiali e familiari) risulta in ogni caso recessivo rispetto al diritto alla conservazione della propria integrità psicofisica, ed alla conseguente libertà dell’individuo di raggiungere l’obiettivo dell’equilibrio tra copro e psiche, transitando al sesso opposto da quello biologico, senza tuttavia ricorrere ad interventi manipolativi dei suoi caratteri sessuali primari, purchè tuttavia il raggiungimento di tale condizione di equilibrio sia serio, univoco ed effettivamente compiuto ed accertato.

Dunque, il corpo al centro di un delicato e sostanziale equilibrio con la mente; il corpo come patrimonio esclusivo e personale dell’individuo; il corpo come oggetto soltanto della volontà individuale; il corpo declinato in forme differenti, ma requisito di identità. E dunque il corpo come esercizio di diritti e libertà.

Strasburgo, 21 luglio 2015. L’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo statuisce il diritto di ogni individuo al rispetto per la sua vita privata e familiare. Tale diritto, afferma la Corte europea dei diritti dell’Uomo, impone l’obbligo di riconoscere giuridicamente la relazione tra due persone dello stesso sesso.

Se le parole hanno un senso, e se il ragionamento in diritto e l’affermazione di principi vincolanti passa per una corretta ed inequivoca semantica giuridica, il senso compiuto di questa “imposizione” comprende in sé da una parte un obbligo giuridico ormai espresso senza possibilità di argomentazioni contrarie, e dall’altra, in termini positivi, ci ricorda come  il diritto al rispetto della vita familiare dell’individuo, qualunque forma e colore assuma la sua dimensione affettiva, ha tale rilevanza e spessore da giustificare una tutela articolata in precisi obblighi e doveri da parte degli stati membri della comunità.

Rispetto a tale obbligo, costituente da una parte una regola indefettibile di convivenza giuridica all’interno di una comunità internazionale, e dall’altra l’unica valida forma di tutela del principio di uguaglianza dei cittadini in relazione alla vita affettiva, l’Italia è inerme, inerte, e colpevolmente inadempiente, e tale situazione di sostanziale illecito dura ormai da tempo immemore.

Le affermazioni di principio contenute in importanti pronunce delle corti sovranazionali, secondo le quali le coppie omosessuali – capaci di vivere e sostenere relazioni stabili e significative – devono avere riconoscimento e tutela pubblica dagli stati nazionali, sono rimaste nel nostro paese lettera morta, accantonate e irrispettosamente bollate come “opinioni”, contrapposte con voci disordinate e spesso con una violenza di pensiero capace al tempo stesso di mortificare i diritti delle persone lgbt, e di stilare improbabili graduatorie di valore tra legami eterosessuali ed omosessuali, nel tentativo - abbracciato come una cieca fede - di imporre un principio costituzionale di fatto inesistente, quello alla “conservazione” del matrimonio come istituto pubblico di esclusivo accesso alla famiglia tradizionale.

Un’etica di stato inaccettabile, a scapito di principi di diritto che impongono l’interpretazione delle norme con un approccio evolutivo,e contraria a normali dinamiche sociali rispetto alle quali alcuni concetti, non squisitamente giuridici (come  quelli di famiglia e matrimonio) hanno necessariamente natura elastica e mutevole nel tempo, senza che se ne svilisca il senso, l’identità e l’importanza.  

I governi ed il parlamento italiano degli ultimi anni hanno colpevolmente ignorato le pronunce delle corti sovranazionali, delle corti nazionali (tra cui la Corte di Cassazione e quella Costituzionale), le raccomandazioni provenienti da organismi europei. L’attuale governo, in una posizione che definire schizofrenica è operazione generosa, ha da un lato “promesso” più volte di intervenire sul tema, procrastinando di volta in volta la volontà pratica di interessarsene, e dall’altra, a livello ufficiale, ha invece posto in essere iniziative pubbliche (ed espressione dirette del suo agire) in senso esattamente contrario alle volontà sbandierate. La Corte di giustizia stessa ci ricorda come il Governo italiano abbia impugnato, a mezzo del pubblico ministero, la decisione del Tribunale di Grosseto che per prima autorizzò la trascrizione del matrimonio omosessuale contratto all’estero, e non dimentichiamo che il Ministero degli Interni ha partorito la famosa circolare Alfano – poi giudicata dalla giustizia amministrativa come provvedimento abnorme e gravemente errato in diritto – che obbligava i prefetti di procedere alla cancellazione delle medesime trascrizioni.

E non dimentichiamo neanche che, in sede europea, esponenti del partito di maggioranza del governo Renzi, si astennero dal votare una importante risoluzione del marzo 2015, non ritenendo (contrariamente alla voce ufficiale dell’Europa) che le questioni legate alla tutela delle persone lgbt attenessero al concetto di “diritti umani”. Tutte circostanze storiche passate sotto il silenzio di altrettante componenti del governo che però dichiarano di interessarsi a questi temi con approccio progressista ed a parole impegnato. Ad oggi, il DDL Cirinnà, che dovrebbe regolare le unioni civili, giace in Parlamento, senza che il governo si sia neanche preoccupato di verificarne in tempi utili per la discussione, gli aspetti economici; e le voci contrarie alla sua approvazione, anche all’interno delle forze politiche che compongono il governo, non sono poche.

Ma il già desolante scenario della politica italiana su questo tema riceve dal giudice europeo una ulteriore censura, che a ben guardare, ha una valenza rilevantissima proprio nell’architettura del funzionamento dello stato. Il Giudice ci ricorda come “sebbene in un contesto differente, la Corte ha previamente deciso che un tentativo premeditato di impedire l'esecuzione di una sentenza definitiva ed esecutiva, che sia inoltre tollerato se non tacitamente approvato dai poteri esecutivo e legislativo dello Stato, non può essere spiegato in termini di un qualsiasi legittimo pubblico interesse o degli interessi della comunità nel suo complesso. Al contrario è suscettibile di minare la credibilità e l'autorità dell'autorità giudiziaria e di mettere a rischio la sua efficacia, fattori che sono della massima importanza dal punto di vista dei principi fondamentali sottostanti alla Convenzione”.

In altri termini, il perpetrare una condotta inerte rispetto ai deliberati delle corti nazionali, di quelle sovranazionali e di altri organismi europei – così come l’Italia continua a fare – “potenzialmente indebolisce le responsabilità del potere giudiziario e nel presente caso ha lasciato le persone interessate in una situazione di incertezza giuridica che deve essere presa in considerazione “. E’ dunque contrario a qualsiasi principio pubblico deputato a presidiare la corretta dinamica tra i poteri dello stato, ipotizzare un approccio a dir poco indifferente tra i singoli poteri rispetto alle proprie prerogative, e in ambiti in cui – come in quello della elaborazione dei diritti - un dialogo e una collaborazione nell’interesse pubblico invece si imporrebbe.

In conclusione, dice la Corte, “nell'assenza di un interesse prevalente della comunità allegato dal Governo italiano contro il quale equilibrare i fondamentali interessi dei ricorrenti sopra identificati, e alla luce delle conclusioni delle Corti nazionali sulla materia, che sono rimaste inascoltate, la Corte ritiene che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di apprezzamento ed ha mancato di adempiere il suo obbligo positivo di assicurare che ai ricorrenti fosse disponibile uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento per la tutela delle loro unioni omosessuali.”

La statuizione di condanna (al risarcimento di una somma simbolica) in favore dei ricorrenti tende dunque, in modo plastico, tanto a ristabilire le corrette regole sottostanti alla convivenza in una comunità internazionale, quanto a scrivere un’ulteriore pagina nel percorso a tappe di una battaglia di civiltà, percorso a cui il legislatore nazionale ed il potere esecutivo non hanno fin’ora dato alcun contributo.

Italia. Luglio 2015. La giurisdizione ci dice in modo inequivoco e vincolante che il corpo e gli affetti sono titolari di diritti inviolabili, e che la libertà è metodo e presidio per la loro espressione. Il diritto è vivo. Il diritto è cultura e motore di crescita sociale. Il diritto è vita e garanzia di uguaglianza democratica, nonostante la censurabile inerzia di chi, nell’architettura dello stato,  dovrebbe creare le norme, garantendo la trasversalità del diritto all’uguaglianza.                 

      

28/07/2015
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