Magistratura democratica
Magistratura e società

“Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”

di Rita Sanlorenzo
sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione
Attraverso un’analisi serrata e rigorosa, Elisabetta Grande in “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America” (Edizioni Gruppo Abele, 2017) ricostruisce il percorso che ha portato alla diffusione drammatica della condizione di povertà estrema negli Stati Uniti, determinato non tanto dalle cicliche fasi di recessione quanto dalle scelte di politica operate con leggi che hanno allargato le diseguaglianze e poi hanno messo i più poveri nella condizione di nemico da sconfiggere con tutti i mezzi
“Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”

Appartiene sicuramente alla categoria dei saggi, il testo che Elisabetta Grande dedica allo studio del fenomeno della povertà negli Stati Uniti ed alle sue cause: ma l’incipit costituisce una prova efficace di pura narrazione. Le vite di Anna, David, Jennifer e Rae, quattro dei 21 milioni di americani (o forse più) sotto la metà della soglia di povertà federale, privi di casa, alla ricerca affannosa di un lavoro (comunque sempre insufficiente a consentire un livello decoroso di esistenza), di una sistemazione per sé e per i propri figli, di una sicurezza che a loro non è più data, sbalzano il lettore nella realtà angosciosa e insopportabile, ma vera, di una società che forse è in qualche misura il preannuncio di quello che potrebbe aspettare anche noi.

Perché l’indagine, che esplora attentamente le cause di quel che è successo nel Paese più ricco del mondo, racconta una storia che presenta più di una analogia con la parabola delle legislazioni degli stati occidentali, tra cui il nostro.

Se negli anni ’70 la politica si faceva vanto di perseguire lo scopo di “condividere la prosperità”, attraverso l’adozione di meccanismi redistributivi che poi rispondono sempre allo stesso schema (tutele di minimo garantito sul lavoro, assicurate anche dal forte potere contrattuale del sindacato, meccanismi di progressività nella tassazione dei redditi, un efficace sistema di welfare), negli anni seguenti quell’impianto viene abbandonato. Non regge più, si dice, alla spinta della globalizzazione, al passaggio dall’economia dell’industria manifatturiera a quella dei servizi: e si rinuncia così a governare quell’epocale processo, lasciandolo guidare dalla “saggezza dei mercati”, che in realtà conducono solo al risultato della universale “competizione al ribasso che produce peggiori condizioni di lavoro per tutte le persone più vulnerabili, del nord come del sud del mondo”.

Tra i meriti di questo prezioso saggio vi è quello di non cercare alibi nella descrizione dei processi che hanno dato corso a questa degenerazione. Proliferano in questi anni le ricostruzioni che imputano l’evoluzione del processo al sopravvento delle ragioni dell’economia su quelle della politica. Elisabetta Grande ha (tra gli altri) il merito di svelare la realtà che si presenta a chiunque la voglia veramente osservare: sono state le precise politiche del diritto di questi anni adottate negli Stati Uniti d’America a determinare l’esponenziale aumento delle diseguaglianze, sino a privare una massa di reietti (tra cui milioni di bambini) dei diritti essenziali della persona, alla salute, alla casa, insomma ad un’esistenza libera e dignitosa.

Mentre la delocalizzazione industriale gioca un ruolo determinante nel traino al ribasso del costo della manodopera, soprattutto se poco o nulla qualificata, la decisa riduzione delle coperture del sistema di welfare è guidata in quella fase storica da un atteggiamento collettivo di disapprovazione verso lo status di povertà: perché, in fondo, per smettere di essere povero basta veramente volerlo. “E’ molto più difficile eliminare la cultura della povertà che la povertà stessa”, afferma con veemenza l’antropologo Oscar Lewis. E su quella confortante convinzione si adagiano comodamente le politiche di riduzione delle protezioni sociali poste in essere prima da Reagan, e poi da Clinton.

La questione abitativa assume il ruolo di uno snodo decisivo: la totale rinuncia ad interventi che mirino a fornire un sistematico sostegno economico pubblico agli affittuari poveri si giustifica sempre in base all’obbiettivo della less elegibility, per cui il sostegno del welfare deve risultare comunque meno appetibile rispetto alla condizione di autosufficienza. Nei confronti dei poveri monta infatti una diffusa ostilità che si basa sulla convinzione di una loro personale responsabilità nel non saper reagire allo stato di indigenza: e su questa trova fertile terreno ogni disegno che mira a ridurre, se non ad eliminare, ogni forma di sussidio. La convinzione è tanto radicata, da occultare ogni risalto al fatto che nel primo decennio del millennio il sussidio federale agli inquilini poveri rappresenta meno di un quarto di quello che è il beneficio fiscale accordato ai proprietari di case, di qualsiasi livello di reddito: l’analogia con la eliminazione dell’imposta sulla prima casa ai proprietari indipendentemente dal reddito, operata in questi più recenti anni in Italia, non ha bisogno di sottolineature.

Le politiche fiscali inaugurate dalla presidenza reaganiana, di indubbio favore al ceto dei ricchi e super ricchi, con la riduzione delle aliquote di tassazione, unite alla sostanziale irrilevanza delle imposte di successione, si tengono con il progressivo abbattimento del salario minimo orario garantito, che determina la produzione di una massa di working poors che in condizione di estrema precarietà fatica per garantirsi salari insufficienti ad una sopravvivenza decorosa. Il sistema italiano dei voucher, la cui introduzione è valsa essenzialmente a fissare, per legge, il valore della merce/lavoro, si ispira d’altronde a questo collaudato modello. Così si allarga sempre più drammaticamente la forbice. La metafora usata da John Fitzgerald Kennedy, per cui “l’alta marea solleva in alto tutte le barche” si rivela clamorosamente fallace, perché l’effetto è riuscito solo per gli yachts, mentre sono state affondate tutte le barche piccole.

Il diritto però, dopo aver creato il povero, deve completare la sua opera, e quindi dar corso ad una gigantesca opera di persecuzione e di criminalizzazione, alimentando l’illusione di poter così vanificare l’incubo. Si apre la caccia all’homeless, visto come la più pericolosa delle minacce, quando invece ormai è elemento strutturale della società americana, indipendentemente dalla fase economica in corso: un imbarazzante, al limite della sopportabilità, “arredo urbano”, alla cui dilagante presenza le amministrazioni rispondono con una serie incalzante di divieti e proibizioni. Non solo non è consentito mendicare, ma nemmeno stare seduti o sdraiati sui marciapiedi, accamparsi sul suolo pubblico, posarvi cartoni o costruire ripari di fortuna, posarvi i propri poveri beni, fare rumore e gettare rifiuti, esercitare l’attività di lavavetri. Il parossismo si spinge in alcuni casi fino al divieto nei confronti del privato di concedere al senzatetto il proprio spazio per campeggiare, o anche per parcheggiare la propria automobile diventata abitazione.

In tutto questo, l’orientamento delle corti e dei giudici finisce per assumere un ruolo strategico e assolutamente funzionale al disegno. Dopo una iniziale, breve stagione di protagonismo nella difesa dei diritti degli ultimi, la magistratura si allinea alla scelta repressiva e si fa esecutrice perlopiù acritica della volontà proibizionista e punitiva. Non si limita a dare attuazione alle norme che reprimono “reati contro la qualità della vita” (degli altri, ovviamente, di quelli che il sistema considera “normali”) e che in realtà sanzionano le condotte necessitate dall’indigenza e dall’emarginazione. Va oltre: conferma nella gran parte la legittimità delle ordinanze locali, addirittura laddove proibiscono in nome della difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza ad associazioni caritatevoli di distribuire cibo. Don’t feed the homeless rappresenta l’ultima frontiera della ferocia istituzionale che arriva a punire chi cerca di applicare la prima delle opere di misericordia. Dalla teoria della broken window in avanti, una volta introiettato il dogma della responsabilità del povero per il suo stato, e della necessità di partire dalla lotta al disordine sociale per combattere le illegalità più gravi, il nemico è stato costruito. Basta non dargli più scampo.

L’ultimo capitolo di Guai ai poveri!, va detto, non è ancora stato scritto. Perché si sta svolgendo in queste settimane, in questi mesi, dopo l’insediamento di un presidente miliardario, populista e fascistoide che rappresenta la prevedibile conclusione della parabola. Trump è il prodotto dell’escalation dell’odio e della rabbia rivolti verso il più povero, il meno garantito, il più esposto. Le prime misure – l’attacco all’Obamacare, l’espulsione dei migranti – confermano la bontà dell’analisi di Elisabetta Grande e soprattutto, interrogano noi tutti a proposito della possibilità che il modello si replichi, con alcuni marginali adattamenti, ma nella condivisione delle premesse e dei passaggi di avvicinamento.

18/02/2017
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