Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Femminicidi di Bologna e Genova: perché quelle sentenze potrebbero sbagliare

di Fabrizio Filice
giudice del Tribunale di Vercelli
Serve spostare il dibattito dal piano mediatico – incentrato sul quantum di pena e su una non condivisibile finalità “esemplare” della sanzione – a quello degli studi giuridici di genere, nel cui ambito tutti gli istituti di diritto sostanziale dovrebbero essere parametrati alla particolarità del bene giuridico protetto, che consiste nella libertà di autodeterminazione della donna

L’avvio di studi sistematici sulla violenza di genere in Italia è storicamente legato all’esperienza dei centri antiviolenza, che nasce all’incirca tra gli anni ‘70 e ‘80: quando, grazie alle analisi sviluppate dal movimento femminista e alla nascita spontanea di una rete autogestita di mutuo soccorso per le donne vittime di violenza – appunto quella della case delle donne –, la violenza maschile contro le donne inizia a emergere come fenomeno massivo e strutturale.

Nel 1991 viene costituita la prima rete informale dei centri antiviolenza attraverso la quale incomincia un’esperienza di condivisione e di scambio delle diverse esperienze, che rende sempre più evidente la dimensione sistemica e sociale del fenomeno e la sua profonda radicalizzazione nella subcultura sociale, compreso il formante giuridico; anzi, proprio il linguaggio giuridico, nascondendosi dietro un formale predicato di neutralità e a-sessualità, si nutriva particolarmente (e tuttora si nutre) di dinamiche nient’affatto neutrali ma, piuttosto, ispirate da una cultura dominante intrinsecamente maschile, bianca ed eterosessuale.

Il trattamento processuale aggressivo e violento riservato alle donne vittime di violenza da parte dei difensori degli imputati, spesso con la tolleranza dei giudici, giustificata dal diritto alla difesa, ne era la prova più evidente e, come tale, fu rivelata all’opinione pubblica dallo storico “processo per stupro” del 1979, in cui l’avvocata Tina Lagostena Bassi aveva scandito, nella sua arringa conclusiva, un formidabile atto d’accusa alla misoginia del sistema giudiziario:

«Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d'oro, l'oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna, La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un'imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l'accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa».

Il 21 gennaio 2006 viene sottoscritta a Roma la Carta dei centri antiviolenza, che riassume i principi, gli obiettivi e le metodologie condivise dalle diverse realtà per il migliore e più efficace contrasto alla violenza di genere: all’articolo 1 della Carta viene sancito il principio che «la violenza maschile sulle donne viene considerato un fenomeno che ha radici nella disparità di potere tra i sessi».

Si inizia a nominare espressamente la violenza di genere – termini come femminicidio, fino ad allora sconosciuti ad eccezione delle/dei cultrici/cultori della materia, vengono veicolati dai media alla narrazione comune – e, soprattutto, si cerca di definirne i contorni in tutta la loro complessità; il che porta anche la cultura accademica ad aprirsi allo straordinario deposito conoscitivo, di carattere multidisciplinare, dei gender o women’s studies: una corrente di pensiero socio-giuridico diffusasi negli anni ’80 e ‘90 in ambito anglosassone, nel cui solco sociologhe e giuriste hanno dato avvio a una nuova cultura con l’obiettivo di portare all’interno del ragionamento giuridico, e quindi della prassi giudiziaria, le tematiche legate alla parità sessuale e all’identità di genere [1].

Il gender, articolazione concettuale “madre” su cui si imperniano i women’s studies, viene così delineato come una categoria socio-bio-psicologica complessa, e comprensiva di almeno tre macroaspetti: l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale.

L’identità di genere indica il modo in cui una persona percepisce ed esprime la propria appartenenza a un sesso, il quale non solo non è necessariamente quello biologico ma nemmeno è per forza esauribile nel binarismo maschio/femmina: essendo riconosciuta una vasta serie di intersessualità, o gender-fluid, che oscillano tra maschile e femminile (si parla, in proposito, di “genere non binario” o gender-queer).

All’identità di genere si affianca il ruolo di genere: vale a dire il tipo di aspettativa sociale che si crea nei confronti di una persona per il solo fatto della sua appartenenza a un genere: e qui, le stratificazioni culturali dei due millenni scorsi, interamente dominati dalla cultura del potere maschile, hanno consolidato l’aspettava sociale che debbano essere comunque le donne a farsi carico in misura prevalente, se non esclusiva, dei compiti familiari; il che, combinato con l’opposta crescente pressione economico-mediatica per la leadership femminile, le rende di fatto “schiacciate” tra compiti professionali sempre più qualificati e incombenze familiari praticamente indelegabili ai loro partner uomini: i quali, anche laddove volessero essi stessi una più equa ripartizione dei compiti di cura della prole (tendenza, anche questa, in crescita nelle ultime generazioni) si troverebbero privi di una tutela sociogiuridica adeguata (a cominciare da un congedo di paternità sufficientemente esteso e non limitato alle ipotesi di surroga della madre per gravi motivi).

Questa situazione comporta, per le donne, un superlavoro da accumulo di compiti professionali e familiari e, di riflesso, si risolve in un’odiosa discriminazione lavorativa di tipo indiretto visto che, in assenza di importanti correttivi in termini di pari opportunità, le donne, mantenendo il primato nell’adempimento dei compiti legati alla gestione domestica e alla cura dei figli, continueranno ad avere minori possibilità di carriera dei colleghi maschi, anche se in molti casi hanno raggiunto (e in alcuni casi, come la magistratura, anche superato) i livelli occupazionali e professionali degli uomini.

Peraltro proprio recentemente si sta assistendo, da parte di importanti masse critiche del Paese, portatrici di una profonda resistenza culturale alla parità di genere, a un forte tentativo di recupero di legittimazione sociale a istanze apertamente antifemministe e regressive nei confronti dei diritti delle donne e delle loro pari opportunità socioeconomiche.

Vengono chiaramente in rilievo, a questo proposito, il Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF), recentemente tenutosi, nella sua XIII edizione, a Verona dal 29 al 31 marzo 2019 [2], e il progetto di (contro?) riforma del diritto di famiglia attualmente in discussione, denominato ddl Pillon, per il quale si rimanda, tra le numerose prese di posizioni in senso fortemente contrario, al documento dell’Associazione Donne Magistrato Italiane (ADMI).

Queste premesse erano necessarie per chiarire che la definizione di violenza di genere è strettamente correlata alla nozione di genere, la quale, definendo “a monte” l’oggetto della violenza, ne costituisce l’imprescindibile contenuto definitorio.

Ne è conferma il recepimento giuridico di tale contenuto nella definizione di violenza di genere che si rinviene in due testi di derivazione sovranazionale: la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77; e la direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212.

La Convenzione contiene, all’articolo 3, le seguenti definizioni:

«a) con l'espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata;

b) l'espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima;

c) con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».

La nozione di genere contenuta al citato articolo 3, lettera c), è pienamente idonea a implementare le categorie di identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale, elaborate, come si è visto, negli studi di genere.

L’articolo 2 della legge di ratifica contiene l’ordine di esecuzione della Convenzione e dispone che «piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in conformità a quanto disposto dall'articolo 75 della Convenzione stessa».

È vero che contestualmente alla firma l'Italia ha depositato una nota verbale con la quale ha dichiarato che «applicherà la Convenzione nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali» e che tale dichiarazione interpretativa – apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 – è stata motivata dal fatto che la definizione di genere contenuta nella Convenzione al citato articolo 3 è stata ritenuta «troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano» (si veda, al proposito, la relazione illustrativa al disegno d legge di autorizzazione alla ratifica – A.S. 3654 – presentato dal Governo Monti l'8 gennaio 2013).

È però un fatto che tale nota verbale, che non è stata inserita nella legge di ratifica – la quale invece è piena ed effettiva anche per quanto attiene alle definizioni contenute nella Convenzione – pare integrare quella che, in diritto internazionale, viene definita una “mera dichiarazione interpretativa”: cioè non più che una “proposta” politica di una determinata interpretazione che, in quanto tale, non può recare alcun effetto limitativo o restrittivo all’attività interpretativa del giudice, soggetto solo alla legge.

E infatti la giurisprudenza civile di legittimità ha dato atto, con la sentenza della Cassazione n. 15138 del 20 luglio 2015, in materia di rettificazione del sesso senza necessità di un intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali, che negli ultimi vent’anni c’è stato un progressivo sviluppo della scienza medica e degli approdi della psicologia e della psichiatria, parallelo alla crescita di una cultura, largamente condivisa a livello europeo, della cultura dei diritti delle persone, particolarmente sensibile alle libertà individuali e relazionali che compongono la vita privata e familiare.

L’esito di questo percorso evolutivo, secondo quanto afferma la Corte, porta oggi a inscrivere l’identità di genere, in tutti i suoi aspetti biologici e sociali, nel nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale; e a integrarla, come tale, nella protezione costituzionale riconosciuta agli articoli 2, 3, 29 e 32 della Costituzione.

Successivamente alla Convenzione di Istanbul, peraltro, la citata direttiva 2012/29/UE ha importato – al considerando (17) delle premesse – la nozione di violenza di genere come «violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere».

La normativa di attuazione non contiene, nemmeno in questo caso, alcuna “riserva interpretativa” sì che il combinato disposto di evoluzione giurisprudenziale (la citata Cassazione n. 15138 del 20/07/2015) e implementazione dei testi sovranazionali consolida oggi la piena immanenza della nozione di identità di genere al nostro ordinamento positivo.

La violenza di genere, e in particolare la violenza maschile contro le donne, sia di carattere fisico che di carattere psicologico, deve quindi essere considerata come una forma di violenza specifica, diversa dalle altre, che colpisce la donna nella sua identità di genere: cioè proprio in quanto donna e all’interno di un discorso di violenza, spesso instaurato nel contesto di una relazione di prossimità con l’autore, uomo, del reato.

Ci si è chiesti, in sociologia, cosa spinga molti uomini a instaurare, magari senza esserne del tutto consapevoli, dinamiche relazionali di questo tipo, che possono esitare, nei casi più gravi, in gesti estremi come il femminicidio.

Una risposta possibile è l’interpretazione della violenza di genere come reazione al progressivo esautorarsi del dominio maschile in ambito pubblico e quindi come un bisogno di restaurare, nella sfera privata, una situazione di dominio persa nella società (quella che viene definita come la crisi del maschio contemporaneo).

Questo spiegherebbe perché al faticoso processo di emancipazione femminile nella sfera pubblica non solo non corrisponda un’adeguata autonomia di genere nella sfera privata, ma anzi corrisponda un aumento esponenziale, registrato proprio negli ultimi decenni, della violenza prossimale contro le donne, soprattutto da parte di coniugi, partner ed ex partner.

C’è un nesso di corrispondenza tra i due fenomeni in senso direttamente, e non inversamente, proporzionale: più cresce l’autonomia femminile nella sfera pubblica più cresce la violenza maschile nella sfera privata.

La dinamica della violenza prossimale contro le donne, tuttavia, non emerge in maniera del tutto consapevole negli uomini che la attuano.

La reazione degli uomini di fronte a casi mediatici di femminicidio è sempre di netta presa di distanza, soprattutto negli uomini con una posizione sociale e un’istruzione più elevate; però le statistiche evidenziano un’indubbia trasversalità – per età, istruzione, estrazione sociale, professione e territorio di provenienza– degli autori di violenza.

Questo indica che il problema è di carattere culturale e sta alle radici dell’educazione maschile.

È come se l’educazione sentimentale del maschio fosse ancora improntata, rispetto alla relazione con la donna, a un’aspettativa da un lato di dominio e dall’altro di fusione con la propria partner; e come se questi due aspetti fossero percepiti dal maschio come essenziali per la propria identità: per sentirsi esistente, vivo e, appunto, uomo.

Ciò che va quindi combattuto, non solo sul piano culturale ma anche sul piano giuridico, è proprio lo stereotipo di genere basato sul dominio del maschio eterosessuale (il cosiddetto maschio alfa) come correlato all’identità maschile, o meglio, virile: in quanto, in caso contrario, l’uomo adulto sentirà il bisogno, per realizzare la propria identità, di creare situazioni di dominio e di sopraffazione sulle donne; magari non ne sarà consapevole perché si costruirà la giustificazione psicologica dell’amore totale e della connessa aspettativa di fusione e di “impensabilità di se stesso senza l’altra”, ma certamente instaurerà un discorso di violenza e, se sentirà quell’equilibrio minacciato nella sfera pubblica (ad esempio per la sempre maggiore autonomia e indipendenza della donna in termini lavorativi), cercherà di recuperarlo nella sfera privata, cominciando con l’attuare sottili meccanismi di violenza psicologica volti a far sentire la propria compagna in colpa e in torto, sino a convincersi egli stesso che lei sia davvero in colpa e in torto, e ad arrivare così al cortocircuito e all’esplosione, a quel punto davvero imprevedibile e incontrollabile, della violenza.

L’uomo deve diventare capace di riconoscere e debellare aspettative di tipo fusionale con le proprie partner, perché queste sono già estremamente affini e a un discorso di violenza e possono degenerare facilmente nella “violenza in atto” di fronte a comportamenti della partner non conformi a queste aspettative: dalla presa di distanza, alla ricerca di spazi per sé ad eventi comunque possibili nella vita di coppia, per quanto dolorosi, come il tradimento e l’abbandono.

L’uomo deve diventare capace di scindere questi eventi della vita dalla propria identità e quindi di pensare che la propria identità non venga meno, non vacilli, nemmeno se posta di fronte alla de-fusione dall’altra, che non è la sua metà; è appunto altra da sé, interamente altra da sé, così come lui è interamente solo lui; perché solo così i maschi riusciranno a liberare in primo luogo loro stessi, e quindi le loro vittime, le donne, dal discorso di violenza.

Qui si snoda l’enorme questione giuridica del ruolo del diritto, e in particolare del diritto penale, di fronte al contrasto della violenza di genere, che non può essere davvero tale se non è, in primis, contrasto dello stereotipo di genere “virilista” che la innesca.

Il problema si è rilevato in tutta la sua importanza con il dibattito sollevato dalle sentenze della Corte d’assise d’appello di Bologna del 14 novembre 2018 (femmincidio di Olga Matei) e del giudice dell’udienza preliminare di Genova del 5 dicembre 2018 (femminicidio di Angela Coello Reyes).

In entrambi i casi le/i giudici hanno ritenuto di riconoscere agli imputati, legati alle vittime da relazioni affettivo-sessuali entrate profondamente in crisi al momento del fatto, le attenuanti generiche: motivandole, anche ma nondimeno, con il riconoscimento di un valore attenuante allo stato emotivo instauratosi nell’autore del reato in reazione a comportamenti relazionali della vittima: il rifiuto nel primo caso, il tradimento nel secondo.

La questione che intendo porre non attiene allo sconto di pena (certamente rilevante nel giudizio abbreviato, scelto in entrambi i procedimenti) seguito al riconoscimento delle attenuanti, e ciò a decisa confutazione di chi intenda ascrivere ogni possibile critica ai due provvedimenti a una lettura strumentale e politica che strizzi l’occhio a chi cavalca, indifferenziatamente e a prescindere, la logica dell’inasprimento sanzionatorio e della pena esemplare.

Non è il quantum di pena il punto della questione.

Il punto è invece, come dicevo, profondamente, drammaticamente giuridico: perché lo stato emotivo di carattere eccezionale in cui hanno agito quegli imputati – determinato dall’abbandono nel caso di Bologna e dai tradimenti nel caso di Genova – e al quale si è deciso di attribuire valore attenuante è esattamente quella spinta identitaria e incontrollabile del maschio che sta, come si è visto, all’origine della violenza di genere e che anzi ne costituisce, dal punto di vista individuale e sociale, il catalizzatore.

Attribuirgli valore attenuante significa quindi attribuirlo proprio all’origine del problema: e così in qualche modo legittimarla, o meglio contribuire a garantirle un’aspettativa di tolleranza sociale, quando invece sarebbe compito del diritto, in tutti i settori, quello di espungerla radicalmente dall’area del socialmente accettabile.

Una prevedibile obiezione è che non sia compito del diritto penale interferire con il mutamento, evolutivo o regressivo che sia, della percezione sociale di valori o disvalori morali: ma per confutare questa presa di distanza, solo fintamente neutrale, del diritto penale è sufficiente considerare che esso si fonda, e legittima, sui principi, ormai di indiscussa derivazione costituzionale, di offensività e materialità: in base ai quali la stessa pretesa punitiva dello Stato è legittima solo in quanto sia necessaria per tutelare un bene giuridico conforme alla scala di valori costituzionali ed europei.

Con ciò si svela la falsa neutralità della professione di indifferenza assiologica del diritto penale: posto che sentenze che in qualche modo abdichino alla missione di espungere dall’area del socialmente accettabile lo stereotipo di genere maschilista, di fatto si risolvono in un attacco, per nulla neutrale, al bene giuridico che dovrebbero invece proteggere: bene giuridico che, nei reati di genere, si identifica non solo con la sopravvivenza e l’incolumità della vittima, ma anche con la sua identità di genere e con la connessa libertà di autodeterminarsi rispetto al genere: la quale, come abbiamo visto, è ormai immanente al nucleo di protezione costituzionale degli articoli 2, 3, 29 e 32 della Costituzione e costituisce certamente un bene giuridico di derivazione costituzionale ed europea.

È per questo che non ritengo scientificamente corretta l’applicazione, nei casi di reati di genere, dell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale gli stati emotivi o passionali, pur non escludendo né diminuendo l'imputabilità, possono essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche (tra le sentenze più recenti in questo senso, Cassazione, Sez. 1, n. 7272 del 5 aprile 2013, Rv. 259160).

Questo orientamento – a prescindere dalla sua condivisibilità, che comunque non è scontata – si è formato in casi in cui è stato particolarmente valorizzato, nell’agente, il dolo d’impeto: cioè un finalismo immediato verso l’azione omicidiaria, il cui proposito e la cui realizzazione si siano susseguiti a strettissimo giro proprio perché l’autore agiva sotto l’effetto della spinta emotiva del momento.

Applicare questo modo di ragionare al femmincidio e, più in generale, alla violenza di genere, significa ridurre il tutto all’atto finale, all’accesso emotivo conclusivo; e significa quindi occultare tutto il prima; significa tralasciare il previo consolidarsi, nell’agente, di una dinamica di genere intrinsecamente viziata da complessi identitari di dominio/fusione maschile di/con il femminile: dinamica a cui fa necessariamente da pendant una visione sociale della donna comunque su un piano di disparità di potere all’interno della coppia, e quindi all’interno della famiglia e nella società.

Inoltre (anzi, proprio per questo) questi stati emotivi eccezionali sono, come i provvedimenti in oggetto (ne vedremo a breve alcuni passi) espressamente riconoscono, inevitabilmente di tipo reattivo: cioè vengono determinati, nell’uomo autore di violenza, da comportamenti della donna vittima: la quale, ad esempio, non corrisponde il suo sentimento o la sua attrazione, lo vuole lasciare oppure lo tradisce.

Ed è quindi a questi comportamenti della vittima che si finisce così per attribuire rilievo penale con il meccanismo tipico del “concorso di colpa”: perché in tanto si diminuisce la pena all’autore del femminicidio in quanto lo si riconosce affetto da uno stato emotivo determinato da ciò che gli ha fatto la vittima, o meglio da ciò che è stata la vittima.

È questo che emerge apertamente nei passi più rilevanti delle due sentenze in oggetto.

Dalla sentenza di Bologna:

«Secondo il perito l'imputato non presentava patologie psichiatriche strutturali né chiari segni di disturbo della personalità. Le esperienze di vita potevano aver amplificato il tratto della personalità relativo alla gelosia e alla diffidenza verso le donne e aver rinforzato, nella sua percezione, la paura di un possibile imminente abbandono o tradimento, al punto da doversi far rassicurare da una figura come quella della cartomante; tuttavia non vi erano segni di alcuna patologia, il gesto omicida era scaturito da una crescente sensazione di impotenza e dall'incapacità di accettare la fine del rapporto, ma non si coglievano segnali di malattia mentale tale da inficiare la capacità di autodeterminazione.

In buona sostanza, l'omicidio era frutto di uno stato d'animo turbato, tormentato dal dubbio, provato dalle precedenti esperienze di vita (poco prima la sentenza spiega che l'imputato era stato tradito dalla moglie e successivamente anche da una seconda compagna, con la quale aveva anche convissuto, ndr) e sfociato in una reazione rabbiosa di fronte all'atteggiamento di chiusura della donna».

E da quella di Genova:

«È Angela (la vittima, ndr) la donna che nel mese di novembre intrattiene la relazione con Luis, tanto da indurre il marito a tornare in Ecuador, ma nel contempo denuncia l'amante per gravi condotte a suo carico, che durante l'assenza del marito prosegue la relazione con Luis che si trasferisce pure in casa sua, ma nel contempo fa di tutto perché il marito torni in Italia, che il giorno prima dell'arrivo di P. fa cambiare la serratura di casa a Luis che nella notte dorme ancora con lei, ma dopo poche ore scrive all'amante messaggi pieni di risentimento e disprezzo e lo accusa di essersi impossessato di un cellulare. E anche credibile che Angela sia la persona che, come descritto dall'imputato, in quelle poche ore che sono rimasti insieme dopo lo sbarco dall'aereo, gli ha detto di amarlo e, subito dopo che gli faceva schifo, dichiarando di essere pronta a cambiare ma nello stesso tempo ubriacandosi a dismisura e dimostrando di non essere in grado di troncare la relazione con Luis e questo, nonostante portasse evidenti i segni delle botte, recenti, ricevute dall'amante.

(…)

P. (l’imputato, marito della vittima, ndr) non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, per l'incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l'ha illuso e disilluso nello stesso tempo, l'ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano».

In entrambi i casi risuonano nelle argomentazioni delle sentenze le voci degli imputati, uomini, che spiegano come le loro vittime – che li hanno rifiutati, illusi, traditi – li abbiano esasperati sino a fargli perdere la lucidità; e danno così la conferma – che nel caso di Bologna è anche di tipo scientifico, tramite l’attestazione peritale – che all’origine del femminicidio sta proprio il consolidarsi, in loro come di molti uomini, di un’identità di genere connotata da spinte identitarie e viriliste, che li ha resi del tutto incapaci di accettare dalle proprie partner eventi – si ripete, comunque possibili anche se dolorosi – come tradimenti, illusioni e abbandoni; eventi con i quali, nella coppia uomo/donna traslata nel concetto di famiglia tradizionale (oggi così in via di riscoperta), le donne convivono da sempre, senza aver per questo sviluppato spinte reattive esitanti, come nel caso contrario, in una violenza esponenziale e massiva nei confronti dell’altro genere.

Sentire l’altra come parte necessaria della propria identità significa già cercare di possederla e può significare, di fronte a una sua sottrazione, non vedere altra via di uscita che riprenderla fisicamente e, se non ciò non è più possibile, anche eliminarla, se è più tollerabile un’assenza definitiva del proprio oggetto, sia pure al prezzo di lunghi anni di carcerazione, piuttosto che una presenza che si sottrae liberamente, rivendicando semplicemente il proprio diritto – per dirla con Tina Lagostena Bassi – «a essere, come donna, quello che vuole».

Questa è a tutti gli effetti l’origine del problema: e non può quindi essere confusa con una “circostanza”, cioè con un elemento accessorio o di contorno, perché è invece l’essenza della violenza di genere; ed è profondamente sbagliata, pericolosa e contraria ai diritti umani.

È per questo che si impone, a mio avviso, una risposta penale netta che affermi, senza incertezze né ambiguità, l’appartenenza di un tale sentire, basato sullo stereotipo di genere maschilista, tutta e solo all’area dell’abiezione morale e del disvalore sociale: senza alcuno spazio, quindi, per l’applicazione di istituti di carattere esimente o anche solo attenuante.

Perché la loro chiamata in causa implica – senza possibilità, come abbiamo visto, di sollevare il falso quanto fragile scudo della pretesa neutralità del diritto – un riconoscimento, quantomeno parziale, di tolleranza sociale.

Invece, quell’incancellabile e meraviglioso “diritto di essere quello che si vuole”, inscritto prima di tutto nella natura umana, richiede, fra le tante altre cose ancora oggi negate (non solo) alle donne, anche la certezza che non si riconosca alcun rilievo esimente o attenuante a stati emotivi che gli altri si costruiscano semplicemente perché non si è state/i quello che loro si aspettavano.


[1] Alcuni testi chiave: C. Gilligan, In a different voice, 1982; C. Mackinnon, Feminism unmodified: discourses on life and law, 1987.

[2] Cfr. S. Celentano, Verona e il Medioevo delle famiglie, in questa Rivista on-line, 28 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/verona-e-il-medioevo-delle-famiglie_28-03-2019.php

15/04/2019
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