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Fecondazione post mortem: il figlio nato a seguito del ricorso a tecniche di pma dopo la morte del padre ha diritto al cognome paterno

di Federica Panno
avvocato del Foro di Messina
Nota a Cassazione Civile, I Sezione, 15 marzo 2019 (dep. 15 maggio 2019), n. 13000, Pres. M. Acierno, Rel. E. Campese

Con la sentenza 15 maggio 2019, n. 13000, la Corte di cassazione ha affermato l’applicabilità dell’art. 8 della Legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante lo status giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di pma, anche all’ipotesi di fecondazione post mortem, realizzata mediante l’utilizzo del seme crioconservato del padre che, dopo aver prestato il proprio consenso all’accesso alla procedura, era deceduto prima della formazione dell’embrione. Spetterà, quindi, al giudice del rinvio, in applicazione di tale principio, verificare, sulla base delle risorse istruttorie fornite dalla madre, la corrispondenza dell’atto di nascita alla situazione reale, alla stregua della quale l’atto doveva essere formato, ordinando all’Ufficiale dello Stato civile di provvedere alla relativa rettifica. La suprema Corte ha così deciso su ricorso di una donna che aveva dato alla luce una bambina trascorsi trecento giorni dalla morte del marito e aveva chiesto al proprio Comune di residenza di riconoscerla quale figlia legittima di quest’ultimo con la conseguente attribuzione del cognome paterno.

1. Introduzione

La quaestio iuris sottesa al caso di specie, inerente l’attribuzione della paternità post mortem mediante il ricorso al procedimento di rettifica degli atti di Stato civile, si connota per l’assoluta novità nell’ambito della giurisdizione di legittimità e per le importanti conseguenze destinate a produrre sull’intero sistema del diritto di famiglia.

L’emersione di nuovi rapporti familiari ed il mutamento dei paradigmi scientifici e culturali hanno innegabilmente determinato l’insorgenza, negli ultimi anni, accanto alla filiazione biologica ed adottiva, di un vero e proprio tertium genus, in cui non i dati biologici ma il principio del consenso, dell’auto-responsabilità e dell’interesse preminente del minore divengono canoni unici ed inderogabili per la determinazione della genitorialità legalmente riconosciuta [1].

Nelle recenti vicende si riscontra, infatti, l’abbandono del principio di discendenza biologica a favore del concetto di responsabilità genitoriale emergente, in positivo, dall’art. 8 della Legge n. 40/2004, a mente del quale, «i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime» e, in negativo, dall’art. 9 della medesima legge che sancisce il divieto di disconoscimento da parte di colui che ha prestato il proprio consenso all’accesso alle tecniche di pma e di anonimato materno.

Ne discende che, come autorevolmente osservato [2], il rapporto di filiazione non si identifica più nel principio della mera derivazione biologica, denotando due diversi sistemi: la filiazione genetica nella procreazione naturale disciplinata dal Codice civile e la filiazione della consapevole assunzione di genitorialità, manifestata al momento del concepimento, nella procreazione artificiale.

L’applicazione della disciplina generale alla generazione attraverso tecniche medicali, omologhe ed eterologhe, efficacemente definita quale «filiazione per scelta» [3], si rivelerebbe, pertanto, inadeguata a tutelare efficacemente i diritti di tutti i soggetti coinvolti.

Il diritto allo status filiationis del nato mediante il ricorso a tali pratiche non appare, del resto, sufficientemente garantito dall’operatività della presunzione codicistica di paternità di cui all’art. 232 cc, che presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non siano trascorsi più di trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, attesa, da un lato, l’impossibilità di applicare a tali situazioni la disciplina dettata per la procreazione biologica e, dall’altro, l’assenza di un regolamentazione ad hoc.

È, tuttavia, in costante crescita il numero di bambini nati in Italia da donne che si sono recate all’estero [4] per sottoporsi, nel rispetto della legislazione straniera, a tecniche di fecondazione assistita non disciplinate, se non addirittura vietate, dalla legge n. 40/2004.

In un tale contesto si pone la sentenza in commento, destinata a rappresentare una pietra miliare in materia, con la quale la suprema Corte di cassazione recepisce la necessità di colmare quel vulnus che altrimenti subirebbe il diritto alla vita, alla dignità personale e all’identità genetica del nato in seguito al ricorso a tali pratiche [5].

Alla luce dei principi generali dell’ordinamento, interno ed internazionale, infatti, l’interesse del minore all’acquisizione dello status di figlio e del cognome paterno assume valore di assoluta preminenza, rispetto al quale il limite dell’ordine pubblico deve ritenersi recessivo e circoscritto in più stretti confini.

2. La vicenda processuale

La questione sottoposta al vaglio della suprema Corte trae origine dal ricorso ex art. 95 del dPR n. 396/2000 promosso da una donna marchigiana al fine di ottenere l’ordine all’Ufficiale di Stato civile del comune di residenza di provvedere alla rettifica dell’atto di nascita della propria figlia, nata due anni prima mediante il ricorso a tecniche di fecondazione medicalmente assistita post mortem, con l’attribuzione della paternità al defunto marito.

La bambina era nata in Italia a seguito di tecniche di pma cui si era sottoposta la madre all’estero dopo il decesso del marito il quale, dovendo, a causa di una grave malattia, far ricorso a farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva prestato il proprio consenso, autorizzando la moglie all’utilizzo post mortem del proprio seme crioconservato al fine di ottenere una gravidanza. Per realizzare il comune desiderio procreativo, la ricorrente dopo la morte del marito si sottoponeva, pertanto, al trattamento in Spagna, entro un anno dal decesso di quest’ultimo, così come consentito dalla normativa straniera [6], dando alla luce la piccola.

Dopo la nascita, la madre provvedeva a rendere la corrispondente dichiarazione all’Ufficiale di Stato civile del proprio comune che, tuttavia, si rifiutava di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto marito e, conseguentemente, attribuire alla piccola il cognome paterno, ritenendo tale dichiarazione contraria all’ordine giuridico vigente.

La donna proponeva, pertanto, ricorso innanzi al Tribunale di Ancona per la rettifica dell’atto di nascita, sostenendo l’illegittimità del rifiuto dell’Ufficiale di Stato civile per contrasto con l’art. 8 della Legge n. 40/2004 e degli artt. 3, 28, 31 e 117 Cost. Argomentava le proprie domande invocando i fondamentali principi del favor veritatis, del favor minoris, della responsabilità genitoriale e di protezione della prole, alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza internazionale ed eurounitaria in materia, avuto riguardo per l’effettività della tutela del diritto della persona all’identificazione del proprio status di figlio.

Di diverso avviso il Tribunale dorico, il quale respingeva il ricorso, ritenendo che correttamente l’Ufficiale di Stato civile avesse applicato, ai fini della formazione dell’atto di nascita, le disposizioni generali dettate dal codice civile che escludono l’operatività della presunzione di concepimento oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo matrimoniale e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre. Secondo il giudice di merito, infatti, all’Ufficiale di Stato civile erano precluse indagini ed accertamenti in merito sia al contenuto ed alla rilevanza probatoria della documentazione esibita a sostegno della richiesta di formazione dell’atto sia all’interpretazione delle disposizioni della predetta legge, trattandosi di attività di valutazione dello status esulante i propri compiti istituzionali. Non ravvisando alcuna violazione della legge n. 40/2004 e della giurisprudenza comunitaria ed internazionale in materia, il Tribunale rilevava, inoltre, che la diversa impostazione presentata dalla ricorrente non fosse coerente con l’art. 241 cc che ammette la prova della filiazione con ogni mezzo solo nell’ambito di un giudizio e che i diritti della minore fossero, comunque, garantiti dalla possibilità di utilizzare gli altri rimedi processuali diretti a far constatare la paternità e ottenere l’attribuzione del cognome ex art 269 cc.

Avverso tale provvedimento, la madre proponeva reclamo ex art. 739 cpc deducendo l’erroneità del provvedimento impugnato per violazione dell’art. 8 della legge n. 40/2004 nella parte in cui il Tribunale, nonostante il consenso del padre al ricorso alle tecniche di fecondazione post mortem, non aveva ritenuto sufficiente la dichiarazione resa dalla madre all’Ufficiale di Stato civile, la quale, sulla scorta del fondamentale principio della responsabilità procreativa, non necessitava, invero, di ulteriore prova per l’attribuzione della paternità nella formazione dell’atto di nascita. Contestava, quindi, l’illegittimità del rifiuto espresso dall’Ufficiale di Stato civile non essendo ipotizzabile alcun contrasto tra il riconoscimento dello status, derivante dal ricorso a tecniche di fecondazione omologa post mortem, e l’ordinamento giuridico vigente.

Anche la Corte d’appello di Ancona, tuttavia, disattendeva l’assunto difensivo della reclamante ritenendo tutelato l’interesse ed i diritti della minore sia mediante la formazione dell’atto di nascita sia tramite gli altri strumenti processuali forniti dall’ordinamento con conseguente insussistenza di qualsivoglia contrasto con la disciplina codicistica e la giurisprudenza europea. In particolare, in conformità a quanto statuito in primo grado, ad avviso della Corte distrettuale, il rifiuto dell’Ufficiale di Stato civile di iscrivere nell’atto di nascita la paternità della bambina sulla base delle dichiarazioni della sola madre era da ritenersi «legittimo sia perché non è consentita al medesimo un’indagine sulla rilevanza probatoria della documentazione relativa alla procreazione medicalmente assistita allegata alla richiesta di formazione dell’atto di nascita sia perché, nel silenzio del legislatore con riferimento allo specifico caso della fecondazione post mortem, trovano applicazione le regole generali del Codice civile (artt. 231-232 c.c.) che escludono l’operatività della presunzione oltre trecento giorni dalla cessazione del vincolo […] e precludono l’iscrizione della paternità sulla base delle sole dichiarazioni della madre» [7].

Contro tale decisione, la madre ricorreva per Cassazione, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore, sulla scorta di quattro motivi:

1) Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e 360, comma 4, cpc, con riferimento al n. 3, in relazione agli artt. 29 e 30 del dPR n. 396/2000 per avere la Corte d’appello erroneamente qualificato la domanda di rettifica dell’atto di nascita e riconosciuto all’Ufficiale di Stato civile un potere discrezionale e/o valutativo in ordine alla veridicità delle dichiarazioni di paternità rese dalla madre;

2) Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e 360, comma 4, cpc, con riferimento al n. 3, in relazione agli artt. 8, 5 e 12 della Legge 19 febbraio 2004 n. 40 nella parte in cui la Corte distrettuale aveva ritenuto inapplicabile la disciplina che attribuisce lo status di figlio legittimo a quello nato a seguito del ricorso a tecniche di fecondazione medicalmente assistita, ravvisando il contrasto con l’ordine pubblico interno;

3) Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e 360, comma 4, cpc, con riferimento al n. 3, in relazione all’art. 232 cc per aver il decreto impugnato considerato erroneamente applicabile, nella specie, la disciplina prevista in tema di procreazione naturale biologica integrando un’evidente disparità di trattamento;

4. Violazione e falsa applicazione di legge ex art. 111 Cost. e 360, comma 4, cpc, con riferimento al n. 3, in relazione agli artt. 3, 30 e 31 Cost, 10 e 117 Cost., 8 e 14 Cedu, 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 3 della Legge n. 176/91 di ratifica della Convenzione di New York, posto che la decisione impugnata si rivelava contraria ai principi costituzionali, eurounitari ed internazionali in materia di interesse del minore e di responsabilità procreativa.

In via subordinata, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 232 cc, nella parte in cui non prevede la presunzione di concepimento durante il matrimonio anche per i figli nati con ricorso a tecniche di pma, degli artt. 5 e 12 della legge n. 40/2004 laddove non prevedono, per un tempo ragionevole di almeno un anno dal decesso, la possibilità di ricorrere alla fecondazione post mortem nonché dell’art. 8 della medesima legge nella parte in cui non riconosce lo status di figlio nato nel matrimonio e riconosciuto dalla coppia che ha espresso il consenso per le tecniche di procreazione medicalmente assistita per violazione degli artt. 3, 30, 31 Cost., 8 e 14 Cedu, 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 3 della Convenzione di New York per interposizione dell’art. 117, comma 1, Cost.

3. Il dibattito giurisprudenziale

Il tema dello status giuridico del figlio, nato mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita vietate dall’ordinamento giuridico, ha, negli ultimi anni, costituito l’oggetto di acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Nel silenzio del legislatore ed in mancanza di precedenti della giurisprudenza di legittimità in argomento, si è, infatti, posta la necessità di procedere ad un accertamento dei diritti spettanti ai figli nati mediante il ricorso a tali pratiche a prescindere da qualsivoglia valutazione, in termini di illiceità, in Italia, delle suddette tecniche, non potendo il ricorso all’estero ad una pratica non disciplinata o non consentita nell’ordinamento italiano escludere, a priori, l’applicazione delle disposizioni inerenti lo status filiationis al bambino nato all’esito di tale percorso.

Secondo una prima posizione, l’attribuzione di tale status nell’ambito della procreazione medicalmente assistita seguirebbe una disciplina del tutto alternativa rispetto a quella codicistica. La condizione di figlio del bambino nato da tecniche di pma non deriverebbe, quindi, dalle regole applicabili alla filiazione biologica naturale, diverse a seconda che il bambino sia nato nel matrimonio o fuori di esso, ma tale status verrebbe, invece, attribuito direttamente dalla legge nei confronti del figlio della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche ed indipendentemente dal fatto che i genitori siano o meno sposati, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.

La disciplina generale non costituirebbe, pertanto, un ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione post mortem dello status di figlio del marito deceduto anche nel caso in cui la nascita fosse avvenuta dopo il termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio, conseguente alla morte di quest’ultimo, qualora vi sia il consenso di entrambi i coniugi, reso anche solo mediante atti concludenti.

Seguendo tale impostazione, troverebbe, quindi, applicazione l’art. 8 della legge n. 40/2004 posto che il legislatore non sembra aver limitato, espressamente, l’applicabilità della norma in esame alle sole ipotesi di procreazione medicalmente assistita consentite dall’ordinamento ma ha, invero, espressamente contemplato la sua applicabilità anche alle ipotesi di procreazione assistita di tipo eterologo [8], in relazione alla quale l’impossibilità di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità di cui all’art. 9 e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità presuppongono che, anche in casi simili, il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sia sufficiente per l’attribuzione dello status di figlio. Ne consegue che, qualora si sia proceduto, dopo la morte del marito e previo suo consenso, alla formazione di embrioni con il seme crioconservato dello stesso ed al loro impianto, debba prevalere la tutela legislativa del nato da fecondazione omologa, posto che il sicuro legame genetico consentirebbe l’instaurazione del rapporto di filiazione nei confronti di entrambi i genitori [9].

Altro orientamento riteneva, invece, che al nato in seguito a tecniche di pma si applicassero i medesimi principi previsti in tema di filiazione naturale con la conseguenza che il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull’attribuzione dello status filiationis ma avrebbe solo la funzione di consentire a quest’ultimo di identificare il proprio genitore grazie all’assenso da lui prestato.

Secondo i fautori di tale tesi, la nascita del figlio da fecondazione post mortem, avvenuta in un periodo che non consente più l’operatività della presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, poteva, pertanto, solo giustificare la proposizione di una domanda di dichiarazione giudiziale di paternità mentre non sarebbe stato consentito un eventuale riconoscimento preventivo quando il marito era ancora in vita.

In particolare, considerando che il consenso espresso nella fase di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell’art. 6 integrava un riconoscimento anteriore alla nascita, si obiettava la mancanza della forma prescritta dall’art. 254 cc e la sua anteriorità al concepimento, richiedendo come necessaria l’azione per la dichiarazione della paternità fondata sulla prova genetica.

Ulteriore posizione sosteneva, invece, che la suddetta situazione non avrebbe costituito un ostacolo all’operatività della presunzione di paternità tutte le volte in cui potesse essere provato, ai sensi dell’art. 234 cc, il concepimento durante il matrimonio, dimostrando che la fecondazione dell’ovulo e la creazione dell’embrione fossero avvenute prima dello scioglimento del vincolo. Invero, sul punto deve rilevarsi come quest’ultima tesi sia stata, da molti, criticata poiché, oltre a fondarsi su un’interpretazione del concepimento distante rispetto alla sua accezione tradizionale, che lo identifica con il momento nel quale l’ovulo fecondato attecchisce nell’utero materno, distingue immotivatamente la condizione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione effettuata, attesa la possibilità di congelare e conservare a lungo non solo l’embrione ma anche il liquido seminale e potendosi, pertanto, ipotizzare che la stessa fecondazione dell’ovulo avvenga solo dopo la morte del marito.

4. La decisione della suprema Corte

Ripercorsi analiticamente i termini della questione, la suprema Corte ha ritenuto opportuno anteporre all’esame dei motivi di ricorso alcune brevi considerazioni circa la natura e l’ambito del procedimento regolato dagli artt. 95 e 96 del dPR n 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello Stato civile a norma dell’art. 2, comma 12, della Legge 15 maggio 1997 n. 127), enunciando un primo fondamentale principio di diritto.

A norma del predetto art. 95, «chi intende proporre la rettificazione di un atto dello Stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato o intende opporsi ad un rifiuto dell’Ufficiale dello Stato civile di ricevere, in tutto o in parte, una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, un’annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al Tribunale nel cui circondario si trova l’Ufficio dello Stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento…».

Il seguente art. 96 sancisce, invece, che «il Tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’Ufficiale dello Stato civile...».

Richiamando i propri precedenti in materia [10], i giudici di legittimità hanno, sul punto, precisato che l’azione di rettificazione «non investe in sé il fatto contemplato nell’atto dello Stato civile, ma la corrispondenza tra la realtà del fatto e la sua riproduzione nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, qual è nella realtà o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge e quale risulta dall’atto dello stato civile. […] Non interessa, cioè, ai fini dell'ammissibilità del procedimento di rettificazione, la causa che ha determinato la difformità tra la realtà del fatto e la riproduzione che ne è contenuta nell’atto, non essendo dubitabile che registri dello Stato civile, quali fonte delle certificazioni anagrafiche, devono contenere atti esattamente corrispondenti alla situazione qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione della legge…» [11].

Ne consegue che, essendo il procedimento in esame volto a eliminare una difformità tra la situazione di fatto e ciò che, invece, risulta dall’atto dello Stato civile, rileverà, non la tipologia di sindacato spettante all’Ufficiale dello stato civile, bensì, l’ambito della cognizione del giudice che si trovi ad affrontare il ricorso contro il diniego di rettificazione opposto dal predetto Ufficiale. Al giudice, investito della dedotta illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita, viene, infatti, riconosciuta una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore, in ordine alla completezza dell’atto di nascita con la realtà genetica e la discendenza biologica di quest’ultimo, con la possibilità, a tale scopo, di avvalersi di tutti i mezzi istruttori forniti dalla parte, in conformità a quanto disposto dal citato art. 96 del dPR n. 396/2000.

Sulla scorta di tale principio, è stato, pertanto, ritenuto infondato il primo motivo di ricorso volto a negare la sussistenza in capo all’Ufficiale di Stato civile di un potere discrezionale e/o valutativo in ordine alla veridicità della dichiarazione di paternità resa dalla madre. La suprema Corte ha, infatti, sul punto osservato che, per quanto riguarda le dichiarazioni volte a dare pubblica notizia di eventi, come la nascita e la morte, grava sull’Ufficiale di Stato civile l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante, senza che a lui competa stabilire la compatibilità degli eventi riportati con l’ordinamento italiano né la loro rilevanza o idoneità a produrre diritti e doveri. Diversamente, le altre dichiarazioni, pure rese davanti allo stesso Ufficiale, produttive di effetti giuridici diretti riguardo lo status della persona cui si riferiscono [12], consentono al medesimo di poter rifiutare di riceverle se ritenute in contrasto con l’ordinamento e l’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 7 del dPR n. 396/2000.

Ciò posto, nel caso di specie, occorre rilevare che, quando la donna ha dichiarato la nascita della figlia presso il comune marchigiano di residenza, chiedendo che nella redazione del corrispondente atto ne fosse indicata la paternità del defunto marito con attribuzione del cognome paterno, la stessa ha reso sostanzialmente due diverse dichiarazioni: una riguardante la nascita e l’altra inerente l’indicazione della paternità della neonata.

Alla stregua del suesposto principio, solo, quindi, relativamente alla prima di tali dichiarazioni l’Ufficiale di Stato civile nulla avrebbe potuto obiettare alla dichiarante, non avendo a riguardo alcun potere discrezionale e/o valutativo. In ordine, invece, alla seconda, idonea a produrre effetti giuridici riguardo lo status della persona cui è riferita, l’Ufficiale aveva il potere/dovere di rifiutare di riceverla ove la avesse ritenuta in contrasto con l’ordinamento giuridico.

Escludendo per tali ragioni la violazione degli artt. 29 e 30 del dPR n. 396/2000 prospettata dalla ricorrente, la suprema Corte ha, invece, ritenuto fondati il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso, sottoposti ad esame congiunto.

In particolare, dopo aver ribadito l’irrilevanza, nel caso di specie, del tema della liceità, secondo la legislazione italiana, delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita post mortem [13], i giudici di Piazza Cavour hanno, preliminarmente, circoscritto l’oggetto del giudizio alla corrispondenza tra la realtà fattuale e la sua riproduzione nell’atto di nascita in relazione al riconoscimento dei diritti dei figli nati in seguito al ricorso a tali tecniche all’estero.

I limiti posti dalla legge n. 40/2004 [14] dovevano, infatti, necessariamente retrocedere di fronte alla nascita del bambino, rispetto la quale, ad avviso del Collegio, appariva, invero, necessario stabilire se dovessero trovare esclusiva applicazione le presunzioni di cui agli artt. 231 e 232 cc in relazione alla prova della paternità o fosse necessario anche tener conto della disciplina in materia di procreazione medicalmente assistita in ordine al rilievo del consenso della coppia al processo generativo.

A tal riguardo, l’art. 8 della legge n. 40/2004 sancisce che «i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’art. 6».

Ai sensi dell’art. 9, invece, qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo il coniuge o il convivente, il cui consenso è ricavabile da atti concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi previsti dall’art. 235, comma 1, cc né l’impugnazione di cui all’art. 263 dello stesso codice mentre la madre non può dichiarare la volontà di non essere nominata.

Diversamente, l’art. 5 della medesima legge, nel riservare l’accesso alla pma a coppie i cui membri sono entrambi viventi sembrerebbe escludere che possa ricorrervi una donna vedova, a pena di sanzioni amministrative. La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del procedimento sia richiesta la presenza in vita di entrambi i genitori, spettando all’interprete stabilire quali tra le diverse ipotesi procreative [15] debbano considerarsi illecite, fermo restando il consenso di entrambe le parti alla procedura, in conformità a quanto sancito dall’art. 6, comma 1 [16].

Tanto premesso, deve rilevarsi che, in relazione ai nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, le predette norme sottolineano l’assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità stante la chiara preminenza della tutela del nascituro sotto il profilo della certezza dello status filiationis rispetto all’interesse di regolare l’accesso a tale diversa modalità procreativa [17].

Il problema interpretativo posto all’attenzione del supremo Collegio riguardava, pertanto, la necessità di verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configurasse un sistema alternativo rispetto a quello codicistico in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua ovvero si inserisse in quest’ultimo attraverso la previsione di specifiche eccezioni. Dalla soluzione della suesposta questione discendevano, infatti, le regole da seguire nella formazione dell’atto di nascita al fine di verificare, se nel caso in esame, vi fosse corrispondenza tra la realtà del fatto dichiarato dalla madre all’Ufficiale di Stato civile e la sua riproduzione nell’atto di nascita come da quest’ultimo redatto.

Orbene, dopo aver richiamato i principali orientamenti giurisprudenziali in materia, la suprema Corte ha ritenuto preferibile aderire alla tesi di chi sosteneva l’applicabilità dell’art. 8 della legge n. 40/2004 anche alla specifica ipotesi della fecondazione post mortem, apparendo ragionevole la conclusione che il nato successivamente alla morte del marito che aveva prestato e reiterato il suo consenso alle tecniche di pma a norma dell’art. 6 della medesima legge, anche trascorsi più di trecento giorni, dovesse considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale.

In tale ipotesi, infatti, «benché manchi il requisito dell’esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell’ovulo, deve ritenersi che una volta avvenuta la nascita, il figlio possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità» [18].

La rilevanza che assume la discendenza biologica tra il marito che ha reso il proprio consenso, autorizzando l’utilizzo del proprio seme crioconservato, ed il nato prescinde, pertanto, da ogni considerazione circa il tempo in cui sono avvenuti il concepimento e la nascita.

E proprio perché le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, risultano inapplicabili, in materia, i meccanismi di prova presuntivi previsti dal codice civile in materia di generazione biologica naturale.

Sotto tale profilo, non pertinenti sono stati ritenuti i richiami effettuati dalla Corte territoriale ai divieti previsti dagli artt. 9 e 12 della legge n. 40/2004. Ed infatti, il comma 2 dell’art. 9, che pone il divieto dell’anonimato materno, lungi dal presupporre l’operatività dei principi generali, ben può costituire espressione delle differenze esistenti tra procreazione naturale e medicalmente assistita in ordine alla determinazione dello status del nato, poiché in quest’ultimo caso il consenso dato alla pratica di pma determinerebbe una particolare responsabilità genitoriale, idonea ad escludere la facoltà per la donna di non essere nominata.

L’importanza del consenso [19] all’accesso alle tecniche di pma emerge, quindi, chiaramente, nelle ipotesi di fecondazione post mortem in cui, non essendo ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, coincidendo quest’ultimo col diritto del minore alla propria identità, preminente rilievo viene attribuito al consenso prestato dalla coppia al ricorso alle tecniche in oggetto, quale elemento qualificante la disciplina in materia di accertamento della filiazione in funzione di un’effettiva tutela della personalità e dell’identità del minore, comprendente anche il diritto all’identificazione del proprio status di figlio di determinati i genitori [20].

Invero, proprio riguardo la procreazione post mortem, le regole generali non risulterebbero adeguate, stante la certezza del compimento della fecondazione dopo la morte del soggetto che ha espresso il consenso e dell’esistenza in capo a quest’ultimo del rapporto di consanguineità posto a fondamento del sistema generale della filiazione.

Alla stregua di tali considerazioni, la suprema Corte ha, pertanto, statuito l’applicazione nel caso in esame della disciplina contenuta nel menzionato art. 8, escludendo quella prevista dall’art. 232 cc, non idonea a costituire un ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla morte.

Lo status filiationis dovrà, quindi, in ipotesi analoghe, essere determinato verificando se effettivamente il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, anche solo mediante atti concludenti, unitamente al consenso all’utilizzo del proprio seme crioconservato.

Ne consegue che, disponendo il giudice, investito dell’illegittimità del rifiuto di rettifica di un atto di nascita, di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa, spetterà alla Corte di merito verificare, sulla base delle risorse istruttorie fornite dalla madre, la necessità di procedere alla rettifica di un atto compilato non correttamente, così da renderlo corrispondente alla situazione reale.

In virtù delle superiori considerazioni, in accoglimento del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, la suprema Corte ha, così, annullato il decreto impugnato, rinviando ad altra composizione della Corte d’appello per un nuovo esame della questione alla stregua dei seguenti principi di diritto:

1) «Le dichiarazioni rese all’Ufficiale dello Stato civile, se dirette, esclusivamente a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello Stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato Ufficiale di riceverle e formare nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per sé stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’Ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico».

2) «Il procedimento di rettificazione degli atti dello Stato civile, disciplinato dall’art. 96 del D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello Stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’Autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornite le dalla parte».

3) «L’art. 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante lo status giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui, che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i 300 giorni dalla morte del padre».

Alla luce di tali principi, il giudice del rinvio sarà, quindi, tenuto ad applicare, al caso di specie, la disciplina di cui all’art. 8 della legge n. 40/2004 e, verificata, in ossequio a quanto previsto dall’art. 6 della medesima legge, la sussistenza del consenso dei coniugi all’accesso alle tecniche di pma, riconoscere in capo alla piccola lo status di figlia legittima del defunto padre, ordinando la rettifica dell’atto di nascita con l’attribuzione del cognome paterno.

5. Osservazioni conclusive

Il concetto di status filiationis ha, nell’ultimo ventennio, subito un’evoluzione particolarmente significativa nell’ambito di un cambiamento di portata più ampia che ha investito l’intera materia del diritto di famiglia.

Esso, infatti, non si acquista più automaticamente, al momento della nascita, ma necessità di accertamento secondo le diverse modalità previste dall’ordinamento giuridico, come efficacemente evidenziato da autorevole dottrina [21].

Il punto focale del mutamento è, certamente, rappresentato dall’evolversi della famiglia tradizionale, delineata dagli artt. 29 e ss. Cost., oggi vista sempre più come centro di affetti e di solidarietà reciproca e sempre meno dotata del carattere istituzionale che la caratterizzava in passato.

Il fenomeno procreativo nell’era della globalizzazione deve, infatti, necessariamente fare i conti con un innegabile dinamismo, subordinato agli interessi concreti che mira a soddisfare, che, mediante l’applicazione di nuove tecniche di fecondazione medicalmente assistita, ha determinato il superamento del confine del concetto di unità coniugale senza, tuttavia, prescindere dal fondamentale ruolo della responsabilità genitoriale.

Rispetto alla disciplina codicistica, infatti, la legge n. 40/2004 rappresenta la regolamentazione di situazioni giuridiche sorte in seguito al progresso della scienza medica, configurandosi come un sistema alternativo di attribuzione dello status in ragione delle peculiarità della tecnica basata sul consenso e sul principio di responsabilità procreativa [22], anche contro la verità genetica.

Invero, nel caso di fecondazione post mortem non è, neppure, ipotizzabile un contrasto tra favor veritatis e favor minoris, essendo il consenso prestato dai coniugi l’elemento qualificante della disciplina in materia di accertamento della filiazione [23].

Non si può, quindi, prescindere dal rilievo attribuito dalla società odierna a bisogni che un tempo erano ignoti, non prevedibili né regolamentati dal legislatore nazionale ed europeo.

In un tale contesto, in cui la genitorialità può scindersi dal nesso matrimoniale e familiare, declinandosi in molteplici situazioni prima ritenute inedite, è apparso necessario valutare se i divieti presenti nel nostro ordinamento giuridico potessero rappresentare un limite alla tutela dei diritti del nato oppure se risultasse opportuno superare i confini tradizionali a favore di nuovi percorsi genitoriali.

I confini una volta ritenuti invalicabili della legittimità della filiazione sono, invero, ormai ampiamente in discussione.

In seguito al ricorso a tali pratiche, d’altronde, è figlio non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche chi viene al mondo a seguito di tecniche di fecondazione assistita, omologa od eterologa, o colui che sia tale per effetto di adozione, il quale, in base agli articoli 2 e 30 Cost., ha diritto, oltre che a crescere nella propria famiglia, di avere anche certezza della propria provenienza biologica ed identità personale [24].

Né può rappresentare un ostacolo a tale conclusione l’assunto, secondo il quale, l’ordinamento giuridico deve proteggere l’infanzia, garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali.

Come, peraltro, ribadito dal supremo consesso nella sentenza in epigrafe, il divieto di ricorrere a tecniche di fecondazione assistita post mortem non può ritenersi funzionale a far prevalere l’interesse del nascituro a venire al mondo in una famiglia che possa garantirne l’esistenza e l’educazione, risultando l’unica alternativa possibile il «non nascere affatto». L’interesse a nascere e crescere in un nucleo familiare bigenitoriale non sembra, infatti, potersi accentuare al punto tale da preferire la non vita, essendo, invece, di primaria importanza, nella costruzione della propria identità personale, che il bambino acquisisca rapidamente certezza della propria discendenza genitoriale [25].

Tuttavia, in assenza di regole certe o nel dubbio delle lacune legislative ancora presenti nella legge n. 40/2004, la soluzione delle criticità riscontrate deve, necessariamente, ad oggi, aver luogo nelle aule dei tribunali che dovranno operare, caso per caso, una complessa operazione di bilanciamento dei diritti coinvolti, nel rispetto del principio di auto-responsabilità e del prevalente interesse del minore [26].

Appare, pertanto, evidente l’esigenza di prendere consapevolezza dell’affermazione di una diversa dimensione in cui i rapporti familiari non assumono più carattere convenzionale, risultando auspicabile nonché necessario un preciso intervento legislativo in materia.

La crescente emersione di nuovi rapporti intersoggettivi nelle relazioni affettive impone, infatti, l’applicazione, in prospettiva de iure condendo, di una tutela sistematica e non solo occasionale di fenomeni prima sconosciuti, attraverso soluzioni capaci di emanciparsi dai modelli tradizionali che rischiano ormai di rivelarsi inadeguati.



[1] Per una puntuale disamina, G. Casaburi, Le nuove forme di genitorialità: alla ricerca di fondamenta normative differenziate (Nota Trib. Pisa, ord. 15 marzo 2018 e Trib. Milano, ord. 18 aprile 2017), in Foro Italiano, Vol. 143, n. 5, 2018.

[2] In tal senso, V. Baldini, La procreazione medicalmente assistita, in Riflessioni di biodiritto, Padova, 2012, e A. Sassi, Accertamento e titolarità nel sistema della filiazione, in Trattato di diritto civile, Torino, 2015.

[3] L’acuta espressione è di E. Del Prato, La scelta come strumento giuridico di filiazione?, in Familia, 2001.

[4] Fra le mete più visitate si segnalano la Spagna, la Grecia e la Gran Bretagna.

[5] Secondo V. Scalisi (La famiglia e le famiglie, in Studi sul diritto di famiglia, Padova, 2014) è possibile distinguere, in materia, tre principi ispiratori, fondamentali e di pari dignità: il principio vita, nelle sue specificazioni di integrità e benessere psico-fisico; il principio persona nelle sue varie articolazioni, dal rispetto dell’identità anche genetica alla tutela della dignità come valore irrinunciabile; il principio famiglia, funzionalmente inteso nel suo concreto e storico divenire quale spazio ideale sociale di piena espressione e realizzazione della personalità umana.

[6] Così, la legge spagnola LEY 14/2006, de 26 de mayo, sobre técnicas de reproducción humana asistida all’art. 9 ammette la fecondazione assistita post mortem in presenza del consenso del padre, fino a dodici mesi dopo il decesso.

[7] Così, Corte d’appello di Ancona, decreto del 7 febbraio 2018 (dep. 12 marzo 2018), p. 10.

[8] A tal riguardo, di particolare rilievo è la decisione della Corte costituzionale n. 162/14 che dichiara l’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa e contribuisce a dare un definitivo assetto alle questioni relative allo status del figlio nato con tecniche di pma sottolineando la necessità di applicare «le pertinenti norme della Legge n. 40/2004» in materia di costituzione dello status filiationis.

[9] In tal senso, Tribunale di Messina, I Sez. Civ., decreto del 10 novembre 2015, n. 21899, Pres. C. Mangano, Rel. C. Bonanzinga, secondo il quale una diversa soluzione determinerebbe una grave ed irreparabile lesione dei diritti fondamentali del minore, conducendo a risultati aberranti come quello di distinguere in modo immotivato la situazione giuridica del nato a seconda del tipo di tecnica di procreazione medicalmente assistita effettuata. In senso conforme anche Tribunale di Messina, I Sez. Civ., decreto del 28 settembre 2017 n. 17032.

[10] Cfr., ex multis, Cass. Civ., 16 dicembre 1986, n. 7530; Cass. Civ., 27 marzo 1996, n. 2776; Cass. Civ., 02 ottobre 2009, n. 21094 secondo la quale in tema di rettificazione degli atti dello stato civile, il relativo procedimento è volto a rimuovere una difformità tra la situazione di fatto e quella risultante dall’atto dello stato civile, per un vizio originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso, e può quindi essere promosso anche per la cancellazione di atti dello stato civile incompatibili con il contenuto di provvedimenti giurisdizionali definitivi.

[11] § 5.2.1.

[12] Rientrano in tale categoria le dichiarazioni di riconoscimento di filiazione nata fuori dal matrimonio o di cittadinanza.

[13] È evidente che qualsiasi considerazione sulla legittimità, in Italia, delle tecniche di pma post mortem non potrebbe produrre effetti negativi sul nato e sui diritti ad esso spettanti come chiarito, ancor prima dell’introduzione della legge n. 40/2004, anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 347/98), la quale sottolineava la necessità di distinguere tra la disciplina che regola l’accesso alla pma e la preminente tutela giuridica del minore e della sua dignità. In argomento, A. Martini, Profili giuridici della procreazione medicalmente assistita, Napoli, 2006.

[14] Come attualmente risultante dopo gli interventi della Corte costituzionale con le sentenze n. 151/2009, n. 162/2014, n. 96/2015, n. 229/2015.

[15] Nell’ambito della fecondazione post mortem occorre, infatti, distinguere tra ipotesi molto diverse tra loro, come il prelievo del seme dal cadavere dell’uomo; l’inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato prima del decesso; l’impianto nel corpo della donna dell’embrione formatosi quando entrambi i partner erano in vita.

[16] A norma dell’art. 6, comma 1, «il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all'articolo 5 sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro. […] Le informazioni di cui al presente comma e quelle concernenti il grado di invasività delle tecniche nei confronti della donna e dell'uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa; mentre il comma 3 dispone che la volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura […] La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell'ovulo».

[17] Nel medesimo senso si era già pronunciata, in analoga fattispecie, la suprema Corte, secondo la quale «le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia non possono ricadere su chi è nato» (Cass. Civ., 30 settembre 2016, n. 19599; Cass. Civ., 15 giugno 2017, n. 14878).

[18] § 7.8.6.

[19] Ciò emerge, in maniera ancor più evidente, in tema di fecondazione eterologa (vietata nel disegno originario della legge n. 40/2004 ma alla quale è, invece oggi possibile accedere per effetto della sentenza n. 162/2014 della Corte costituzionale) ove l’interesse preminente del minore costituisce un vero e proprio limite al principio della verità biologica.

[20] Così anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, nelle sentenze “gemelle” Menesson c. Francia, 26.06.2014, n. 65192/11, e Labassee c. Francia, 26.06.2014, n. 65941/11, secondo la quale nella nozione di vita familiare rientra anche il diritto del bambino concepito mediante fecondazione assistita alla propria identità personale ed il diritto al riconoscimento ed alla continuità delle relazioni affettive. Sul punto anche Corte Edu, 27 gennaio 2015, P. e C. c. Italia; Corte Edu, 22 aprile 1997, n. 21830, X,Y e Z c. Regno Unito.

[21] Il riferimento è a V. Scalisi (La famiglia e le famiglie, in Studi sul diritto di famiglia, Padova, 2014) che definisce la transizione della famiglia dalla «famiglia fondata sul patrimonio» alla famiglia «fondata sul matrimonio» a quella «non fondata sul matrimonio» e da ultimo alla «famiglia convenzionale». Per una disamina approfondita: S. Rodotà, Manifesto per la libertà di procreare, 1998; Cecchini, Accertamento e attribuzione della paternità. Padova 2012.; Natale, I diritti del soggetto procreato post mortem, in Fam. pers., n. 6/2009; Zatti, Tradizione e innovazione del diritto di famiglia, in Trattato I, 2011.

[22] A conferma, anche il d.lgs n. 154/2013 di revisione delle disposizioni in materia di filiazione ha ribadito che la tutela del diritto allo status e all’identità personale del figlio può comportare il riconoscimento di rapporti familiari anche diversi da quelli genetici, fondati sul consenso, nel solco del fondamentale principio della tutela del prevalente interesse del minore.

[23] La filiazione derivante da procreazione artificiale trova, quindi, sempre fondamento nel consenso, da intendere quale atto concreto e univoco con cui si manifesta la volontà di assumere la piena responsabilità genitoriale del minore che nascerà con la tecnica prescelta.

[24] Cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. I, 21 luglio 2016 n. 15024; Cass. Civ., Sez. unite, 25 gennaio 2017 n. 1946; Cass. Civ., Sez. I, 20 marzo 2018 n. 6963.

[25] Principio affermato, recentemente, anche dalla CorteEdu (parere consultivo del 10 aprile 2019, n. 132) che, nell’ambito del giudizio Menesson relativo ad un caso di gestazione per altri, ha ribadito la necessità per gli Stati membri di garantire adeguato riconoscimento giuridico al rapporto di filiazione tra il nato in seguito al ricorso alla pratica di maternità surrogata e la madre non biologica mediante la trascrizione immediata all’anagrafe oppure con adozione, a tutela del diritto del minore al rispetto della propria vita privata e familiare sancito dall’art. 8 Cedu.

[26] Il best interest of the child rappresenta, infatti, anche in tema di fecondazione post mortem, il principio informatore della normativa a tutela del fanciullo, garantendo che in tutte le decisioni che lo riguardano deve tenersi in considerazione il suo superiore interesse. In tal senso, l’art. 3 della legge 27 maggio 1991 n. 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York del 1989, prevede che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» mentre l’art. 24 par. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dispone che «in tutti gli atti relativi ai bambini (...) l’interesse superiore deve essere considerato preminente».

13/09/2019
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