Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Danno da nascita indesiderata: dal Tribunale di Reggio Emilia una risposta da rileggere dopo l'intervento delle Sezioni Unite di Natale 2015

di Gianmarco Marinai
Giudice del Tribunale di Livorno
Commento a Tribunale Reggio Emilia 7 ottobre 2015 e Cass. SU 22 dicembre 2015 n. 25767

Il Tribunale di Reggio Emilia affronta, nella sentenza del 7 ottobre 2015, giudice Zompi, lo spinoso problema del risarcimento del danno da nascita indesiderata, da una prospettiva un po' diversa da quella rinvenibile nei casi trattati anche dalla Cassazione.

La fattispecie è riassumibile in modo molto semplice: una donna, premesso di aver concordato con i medici l'esecuzione, in occasione del parto cesareo del suo quinto figlio, di un intervento volto a scongiurare gravidanze indesiderate, lamenta di essere restata nuovamente incinta a distanza di pochi mesi, in quanto, come accertato e confermato dall'istruttoria, il programmato intervento di sterilizzazione tubarica non era stato affatto eseguito dai sanitari operanti.

Richiamando Cass. n. 24109/2013 (che aveva deciso in senso favorevole alla paziente la controversia relativa al risarcimento del danno da mancata informazione della concreta possibilità di insuccesso dell'intervento di legatura delle tube), afferma il Tribunale che "deve trovare anche in questo caso applicazione il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il creditore, ossia il paziente che agisca in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente".

Non controverso il rapporto contrattuale relativo al parto cesareo e la mancata esecuzione della sterilizzazione, l'istruttoria smentisce la difesa dell'Azienda, che aveva sostenuto che non c'era stato alcun contratto relativo alla contestuale sterilizzazione.

Del tutto condivisibile è, poi, la decisione del giudice di Reggio, allorché respinge l'eccezione dell'ASL che, invocando l'art. 1227 c. 2 c.c. ("il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza") lamenta che l'attrice sarebbe potuta ricorrere all'IVG.

Com'è noto, infatti, l'intervento di interruzione della gravidanza costituisce un trattamento medico-chirurgico sul corpo della donna e, nella logica della l. 194/1978, è ammesso a tutela della sua salute fisica o psichica.

Sempre secondo l'impianto della l. 194, l'IVG non costituisce un mezzo di controllo delle nascite (art. 1), o di pianificazione della crescita della famiglia, giustificandosi in quanto necessaria per tutelare la salute fisica e/o psichica della donna.

Corretto è, pertanto, sostenere che "altro è la scelta di non procreare, altro è quella di porre termine ad una gravidanza già in corso, decisione quest’ultima che risulta carica di ripercussioni, fisiche e psicologiche, per la donna" e che, di conseguenza, non può essere ritenuta esigibile, secondo l'ordinaria diligenza richiesta dall'art. 1227 c.c., la sottoposizione ad un intervento chirurgico che mina inevitabilmente la salute psico-fisica della donna e la sua libertà di autodeterminazione.

Risolta la questione dell'inquadramento all'interno della responsabilità contrattuale, in ossequio all'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in punto rapporti medico-paziente, il giudice passa ad affrontare il non meno delicato problema dei danni risarcibili e del quantum del risarcimento, facendo espresso riferimento all'ormai consolidato orientamento della Suprema Corte, consacrato nelle sentenze delle Sezioni Unite dell'11 novembre 2008.

Sotto il profilo del danno non patrimoniale, è esclusa la componente danno biologico (o lesione del diritto alla salute), non risultando provata alcuna patologia fisica (il parto ebbe un decorso regolare) o psichica (la visita psichiatrica ante causam aveva escluso patologie psichiatriche, rilevando, peraltro, che l'attrice aveva sofferto di edema al volto e alle mani e di orticaria, sintomi di uno stato di “elevato stress psicologico”).

Rifacendosi all'insegnamento delle S.U. del 2008, poi, il Tribunale di Reggio Emilia riconosce la risarcibilità di un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del "diritto di autodeterminazione della coppia nella scelta di procreare in modo «cosciente e responsabile» (art. 1 L. n. 194 del 1978) che, se frustrato, costituisce un danno ingiusto meritevole di risarcimento, trattandosi di un diritto di libertà che trova tutela nel testo costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.)", trattandosi della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione ed essendosi in presenza di una grave lesione dell'interesse tutelato e di un danno certamente non futile.

Ancora, ribadendo la natura di danno-conseguenza del danno non patrimoniale (cfr. da ultimo S.U. 22.7.2015 n. 15350), ritiene necessaria la prova dell'esistenza del danno.

E dunque, riconosciuta anche al padre del bambino la legittimazione ad ottenere il risarcimento di tale danno (il riferimento implicito è alla teoria del "contratto con effetti protettivi verso i terzi", correntemente accolta in giurisprudenza), nel concreto, liquida il danno solamente a favore della madre.

Il padre, infatti, non risulta aver neppure allegato "quali siano stati i concreti riflessi della nascita del suo sesto figlio sulle sue abitudini e su i suoi ritmi di vita" essendosi limitato a proporre argomentazioni generiche, non supportate dalla concreta enunciazione dell'asserito danno sofferto.

L'attrice, invece, ha allegato "di aver vissuto un periodo di elevato stress fisico e mentale cagionato dalla difficoltà di accudire tre bambini in tenera età che riposano pochissimo la notte" e ha dimostrato il forte peggioramento della qualità della vita anche mediante la documentazione medica (accessi al Pronto Soccorso con diagnosi di edema e orticaria).

Sul punto, corre l'obbligo di rilevare che, se appare certa l'inesistenza di un danno biologico permanente, le evidenze (edema, orticaria) avrebbero potuto portare a riconoscere (magari dopo idonea CTU medico-legale) l'esistenza di un danno da invalidità temporanea, verosimilmente parziale, direttamente derivante dalla lesione del diritto alla salute, senza la necessità di far riferimento alla lesione del diritto alla libertà di autodeterminazione.

Da una parte, infatti, in presenza di una malattia medicalmente accertata e diagnosticata (e dunque − nel solco dell'insegnamento di S.U. 2008 − in presenza di un danno al diritto alla salute), potrebbe rivelarsi superfluo ricercare la violazione di un altro diritto costituzionalmente garantito.

La questione della delimitazione dei "diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica", peraltro, è assai delicata, tanto da costituire – non solo ad avviso di chi scrive – l'unica vera criticità della ricostruzione delle sentenze di San Martino del 2008, non essendo affatto chiara la portata dell'espressione "diritti inviolabili" e come essa si rapporti alla nozione, ad esempio, di "diritti costituzionalmente garantiti" o "riconosciuti".

Dall'altra parte, in ogni caso, la possibilità di ricorrere alla valutazione equitativa del danno non rendeva necessaria l'applicazione rigida delle tabelle Milanesi di liquidazione del danno da invalidità temporanea, in relazione alla assoluta particolarità del danno oggetto di causa: il riferimento alla lesione della libertà di autodeterminazione poteva, infatti, essere utilizzato al fine di aumentare il quantum del risarcimento, anche fino alle somme concretamente liquidate dal giudice (€ 20.000).

Passando, poi, al risarcimento del danno patrimoniale, il Tribunale aderisce a quell'orientamento (Trib. Cagliari 23 febbraio 1995; Trib. Tolmezzo 7 giugno 2011, ma anche Trib. Genova 28 settembre 2002, Trib. Venezia 10 settembre 2002, Trib. Milano 10 marzo 2014) che ritiene risarcibili le spese necessarie per il mantenimento e l'educazione del figlio fino al raggiungimento della sua indipendenza economica (da farsi coincidere presuntivamente nel compimento del ventitreesimo anno di età), in quanto "conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata", ritenendo equa, allo scopo, la somma di € 300 mensili.

A parte l'arbitrarietà del compimento del ventitreesimo anno, quale età scelta per il raggiungimento dell'indipendenza economica, la questione della risarcibilità del danno da nascita indesiderata non è affatto pacifica, se è vero che Trib. Padova 9.8.1985 (il famoso caso Jod, probabilmente il primo caso di richiesta di risarcimento del danno da nascita indesiderata) ha sostenuto: "La nascita di un bambino non può significare una sterile equazione tra colpa professionale ed onere di mantenimento, in quanto il rapporto genitore-figlio non si esaurisce in ciò, ma si arricchisce di valenze positive per i genitori, di diritti per gli stessi e doveri per il figlio in età adulta che dovrebbero compensare i sacrifici economici sopportati per la sua crescita, di sentimenti ed aspetti che sfuggono alla valutazione civilistica ma costituiscono un patrimonio morale di estrema importanza".

Le sentenze della Suprema Corte che ne erano seguite – prima tra tutte Cass. civ., sez. III, 08-07-1994, n. 6464 – avevano statuito che nel caso di wrongful pregnancy/unplanned birth, il danno risarcibile è solo quello dipendente dal pregiudizio alla salute fisio-psichica della donna (e dunque – secondo la ricostruzione attuale – il danno non patrimoniale), e non quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell’inadempimento del sanitario, quale il costo della nascita del figlio indesiderato o del suo allevamento, che di per sé non sono considerati un fatto ingiustamente dannoso neppure in presenza di precarie condizioni economiche della madre, le quali sono assunte come condizione giustificatrice della interruzione della gravidanza solo per la loro possibile influenza sulle condizioni fisio-psichiche della donna.

Segnalo, in conclusione, che la sentenza non fa nessun accenno alla tematica della liceità della sterilizzazione volontaria (non terapeutica), evidentemente non oggetto di causa.

Mi limito, sul punto a ricordare che coloro che sostengono l'illiceità della condotta ai sensi dell'art. 5 c.c. ("gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume") e del reato di lesioni personali gravissime, non scriminate dal consenso dell'avente diritto (ma il reato è stato escluso dalla nota Cass. 18 giugno 1987, Conciani), devono fare i conti con l'art. 2 Cost. (ormai comunemente interpretato nel senso di ricomprendere tra i diritti inviolabili della persona quello a disporre liberamente del proprio corpo) e anche con la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 471 del 22.10.1990, ha sostenuto che dall’art. 13, 1° comma, Cost. ("la libertà personale è inviolabile") si deve ricavare il valore dell’inviolabilità della persona, costruito come libertà di disporre del proprio corpo, che trova limite nel "rispetto della persona umana", di cui all’art. 32, 2° comma Cost..

La questione del danno da mancata sterilizzazione rientra – a buon diritto – nel più ampio tema del danno da nascita indesiderata, di estrema attualità.

Proprio nei giorni scorsi, infatti, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 22 dicembre 2015 n. 25767) hanno risolto due importanti questioni in tema di danno da omessa diagnosi della malformazione del feto.

Il tema – seppur non sovrapponibile a quello esaminato dal tribunale di Reggio Emilia – presenta aspetti analoghi e le soluzioni adottate dal Supremo Collegio offrono spunti senz'altro spendibili nel caso di danno da mancata sterilizzazione e anche e soprattutto nel caso di danno da malformazione fetale provocata (o non impedita) dal comportamento colposo del medico.

Molto sinteticamente, e senza pretesa di analizzare funditus le profonde implicazioni (sul piano giuridico ma anche economico e sociale) della decisione prenatalizia delle Sezioni Unite, mi limito ad una prima lettura della sentenza.

La fattispecie è così riassumibile: una donna lamenta che l'omesso approfondimento da parte del ginecologo della diagnosi prenatale, in presenza di valori non corretti degli esami ematochimici, non aveva consentito di diagnosticare la malformazione del feto (nato affetto da sindrome di Down), impedendo alla donna di esercitare il diritto di interrompere la gravidanza.

La Corte d'Appello di Firenze aveva respinto la domanda di risarcimento del conseguente danno, evidenziando che l'onere della prova di tutti gli elementi costituitivi del danno di cui si chiedeva il risarcimento spettava all'attrice, che non vi aveva adempiuto (in particolare nulla era stato neppure allegato in ordine alla determinazione della donna di non portare a termine la gravidanza in caso di conoscenza della malformazione) e che non sussisteva alcuna legittimazione ad agire del figlio, non essendo configurabile alcun diritto a non nascere.

Proprio queste due questioni (riparto degli oneri probatori e legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria) sono state rimesse alle Sezioni Unite da Cass. civ., sez. III, 23-02-2015, n. 3569 e decise con la sentenza 25767.

Ancora una volta – come già aveva fatto, sempre nel 2015, con la sentenza Cass. S.U. 22.7.2015, n. 15350 in tema di danno da perdita della vita (un breve commento si può leggere anche in questa rivista) – il Supremo Collegio sceglie l'estrema sinteticità per affermare due principi fondamentali:

1. l'onere della prova di tutti gli elementi costituenti la fattispecie spetta, anche in questo caso, alla donna che invoca il risarcimento, con la precisazione che la prova può essere data anche per presunzioni.

2. non sussiste la legittimazione attiva del nato handicappato, in conseguenza dell'omessa diagnosi della malformazione.

Quanto al primo aspetto, la Corte respinge l'orientamento che aveva ritenuto che corrisponda a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza qualora informata della malformazione del feto.

Ribadisce che gli aspetti da dimostrare al fine di ottenere il risarcimento (il thema probandum) sono molteplici e costituiscono un fatto complesso:

- la rilevante anomalia del nascituro;

- l'omessa informazione da parte del medico;

- il grave pericolo per la salute psicofisica della donna (da provarsi, se del caso, anche mediante CTU);

- il fatto che la donna avrebbe scelto di interrompere la gravidanza.

Con scelta rigorosa, ma di assoluto buon senso, le Sezioni Unite affermano che non c'è alcuna ragione per derogare alle norme in tema di onere probatorio (e dunque spetta alla donna dare dimostrazione dei fatti costitutivi del proprio diritto), ma deve essere lasciato ampio spazio alla prova presuntiva, soprattutto in relazione alla prova del fatto psichico relativo alle determinazioni della donna.

Quanto alla questione del diritto del figlio affetto da malformazione al risarcimento del danno "per l'impossibilità di una esistenza sana e dignitosa", la Corte si rende conto della debolezza dell'argomentazione che escludeva la legittimazione sulla base del fatto che il feto non era ancora soggetto di diritto (ex art. 1 c.c.) al momento della condotta colposa del sanitario e la supera affermando che non è possibile escludere il risarcimento solo in quanto il fatto colposo si sia verificato durante la gestazione, perché "si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell'art. 1 cod. civile" e ciò, tra l'altro, non confligge con la teoria della causalità, visto che è possibile che tra causa ed evento intercorra una "cesura spazio-temporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell'effetto pregiudizievole".

Il problema – insormontabile – è, invero, un altro: se il danno-conseguenza, a norma dell'art.  1223 c.c. è "riassumibile […] nell'avere di meno, a seguito dell'illecito", nella fattispecie che ci occupa il danno sarebbe "legato alla stessa vita del bambino, e l'assenza di danno alla sua morte" e dunque il secondo termine di paragone è costituito da un supposto diritto alla "non-vita" o a non nascere, che, come tale, non è e non può essere riconosciuto dall'ordinamento giuridico.

La Corte, quindi, respinge una serie di suggestioni che potrebbero far concludere diversamente:

• esclude, innanzitutto, che vi possa essere affinità tra il non riconosciuto diritto a non nascere e il cd. "diritto a staccare la spina", situazione per nulla paragonabile alla prima.

• non ritiene possibile invocare il diritto all'autodeterminazione della madre leso dalla mancata corretta informazione: le due situazioni non sono raffrontabili, non foss'altro in quanto il diritto ad interrompere la gravidanza è concesso alla madre (a rigorose condizioni) alla luce del bilanciamento con il proprio diritto alla salute, mentre non vi sarebbe alcun diritto bilanciabile in capo al nato.

• non considera significativo che, per la medesima situazione, sia concessa tutela ai genitori e ai germani, ma non al nato. Facendo ancora leva sulla definizione di danno-conseguenza che ha dato ("riassumibile […] nell'avere di meno, a seguito dell'illecito"), la Corte rileva, infatti, che solo per i parenti del nato (a differenza che per il nato) è possibile comparare due situazioni omogenee e cioè "la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato".

Inoltre, nessuno degli ordinamenti giuridici occidentali (Stati Uniti d'America, Germania, Gran Bretagna) ha mai riconosciuto un diritto a non nascere e laddove (Francia) una pronuncia della Suprema Corte aveva aperto a tale riconoscimento, è intervenuto il legislatore (l. 2002-303) a chiarire che nessuno può far valere un pregiudizio derivante dal solo fatto della nascita e che una persona nata con un handicap dovuto a colpa medica può ottenerne il risarcimento quando l'atto colposo ha provocato direttamente o ha aggravato l'handicap, o non ha permesso di prendere misure in grado di attenuarlo.

Il riconoscimento del diritto a non nascere se non sani, infine, porterebbe all’affermazione (invero paradossale) che, nel caso in cui la madre fosse stata correttamente informata della malformazione del feto e, ciononostante, avesse deciso di portare a termine la gravidanza, ella dovrebbe – “per coerenza” – essere ritenuta responsabile della nascita (e dunque del danno da essa derivato al figlio), con l’improponibile corollario della conseguente necessità di configurare un vero e proprio obbligo della madre di abortire.

In realtà – conclude la Cassazione – il voler configurare un diritto a non nascere se non sani equivale a spostare sulla responsabilità civile diverse esigenze di previdenza e assistenza sociale, così distorcendo la vera funzione del danno civile e aprendo il campo ad una “dimensione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti”.

In conclusione, ancora una volta, le Sezioni unite rimangono correttamente ancorate alla rigorosa interpretazione delle norme in tema di danno, mettendo in guardia l’interprete dal rischio di farsi trascinare, nell’esame del caso concreto, da tentazioni di inseguire la “giustizia sostanziale”.

La decisione contribuisce sicuramente a mettere un primo punto fermo in una materia estremamente sensibile sotto il profilo etico e necessita senz’altro di riflessioni più approfondite, soprattutto al fine di indagare le implicazioni pratiche dei principi affermati su fattispecie simili, come quella affrontata dal Tribunale di Reggio Emilia.

13/01/2016
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