Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Cassazione, il licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore divenuto inabile alle mansioni e i ragionevoli accomodamenti

di Elisabetta Tarquini
consigliera della Corte d’appello di Firenze
La giurisprudenza della Corte suprema tra innovazione e ritorni al passato. Commento alla sentenza n. 27243/2018

In un suo recente saggio [1] Marzia Barbera ha citato la metafora con cui un giuslavorista (rimasto ignoto) ha ritenuto di descrivere la profonda diversità tra le tecniche di tutela dei diritti fondate sulla norma inderogabile e il dispositivo antidiscriminatorio: quella della norma inderogabile sarebbe stata l’era del cavallo, mentre con il diritto antidiscriminatorio si sarebbe entrati nell’era dell’asino.

Il primo e più ovvio ragionamento implicato da questa affermazione (e Barbera lo sottolinea) è all’evidenza quello per cui, secondo l’ignoto studioso (e coloro, forse non pochi, che condividerebbero la metafora) le tutele antidiscriminatorie sarebbero in effetti un «succedaneo di quelle lavoristiche», in quanto opererebbero «alle stesse condizioni (di disparità di potere sociale)» e in confronto degli stessi soggetti (i lavoratori subordinati), solo che funzionerebbero peggio [2].

Questo per varie ragioni: il loro carattere selettivo (si applicano solo a determinate categorie di lavoratori, non a tutti), condizionato e relativo (si fondano su un necessario giudizio di relazione rispetto a un tertium comparationis), la difficoltà del farne uso in giudizio.

La metafora però non rende giustizia all’asino, che è animale forse meno elegante del cavallo, ma caparbio e tenace, capace per questo di superare ostacoli invalicabili per il primo. E non rende giustizia per ciò nemmeno al diritto antidiscriminatorio, alla sua attitudine a tutelare i diritti anche in ambiti in cui le norme inderogabili si sono rivelati assai poco efficaci.

È questo probabilmente il caso del licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore divenuto inabile alle mansioni a lui assegnate, un tema di cui la giurisprudenza di legittimità, nell’anno appena trascorso, si è occupata più volte, con esiti molto diversi.

Così diversi che delle varie ragioni di “minorità” del diritto antidiscriminatorio, di cui dicono i suoi critici, quella più vera (anzi forse l’unica vera) resta l’ultima sopra menzionata: la difficoltà di usarne gli strumenti in giudizio.

Per avere un’idea di questa difficoltà proprio le questioni poste dall’applicazione del principio di non discriminazione nei casi di sopravvenuta inabilità del lavoratore alle sue mansioni costituiscono un utile banco di prova.

Per raccontare di queste questioni è bene allora partire dall’inizio e quindi dalla nozione di disabilità, di cui dice la Direttiva 78/2000.

Si tratta in primo luogo, e come è noto, di una nozione di diritto dell’Unione, ricostruibile cioè solo dalla fonte sovranazionale (nella sua complessità e quindi dalla direttiva e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia) e non dal diritto interno, come ha affermato la stessa Corte di giustizia a partire dalla sentenza 11 luglio 2006, nella causa C-13/05, Chacon Navas – che contiene una prima enunciazione della nozione di «handicap» ai fini dell’applicazione della direttiva.

Una definizione ulteriormente argomentata dalla Corte dopo la ratifica da parte della Unione Europea (con decisione 2010/48) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006, il cui art. 1, comma 2 definisce disabili coloro che «hanno minorazioni fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri».

In esito alla ratifica della Convenzione e richiamandone il contenuto, infatti la Corte di giustizia, nella decisione, 11 aprile 2013, HK Danmark C-335/2011, ha affermato che la nozione di «handicap» debba «essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’Onu risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere “durature”».

E ancora, secondo il Giudice dell’Unione la stessa nozione «dev’essere intesa nel senso che essa si riferisce non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività» (così testualmente Corte di giustizia, 18 dicembre 2014, causa C-354/13, FOA e giurisprudenza ivi citata), e senza che rilevi l’origine dell’handicap, così che «se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della direttiva 2000/78» (così Corte di giustizia, 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C337/11).

Quanto al carattere «duraturo» di una limitazione, il giudice europeo ha precisato che l'importanza accordata dal legislatore dell'Unione alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell'handicap dimostra che esso ha inteso disciplinare ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo (sentenza Chacon Navas, già citata, punto 45; e sentenza 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punto 54).

Così definita la nozione di disabilità, l’art. 5 della direttiva dispone che «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato...».

E ancora il ventesimo considerando della direttiva impone ai datori di lavoro l’introduzione di «misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento», mentre il ventunesimo chiarisce che «per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni».

È noto che l’Italia non ha dato tempestiva attuazione a queste disposizioni e la Corte di giustizia ha accertato la violazione, su ricorso della Commissione Europea, con la sentenza 4 luglio 2013, Commissione/Repubblica Italiana.

In esito con il dl 28 giugno 2013 n. 76, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2013, il legislatore nazionale ha inserito nel d.lgs 216/2003, all’art. 3, un comma 3-bis, a norma del quale: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».

Una piena lettura di queste disposizioni impone allora di ritenere che l’obbligo del datore di lavoro appena descritto (quello di adottare accomodamenti ragionevoli) concorra anche (ed è anzi la conseguenza forse più rilevante) a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recedere dal rapporto in essere per ragioni legate alla disabilità del dipendente, disabilità che tipicamente lo renda non più idoneo allo svolgimento delle mansioni attribuitegli.

Infatti, poiché le mansioni accessibili per i lavoratori disabili devono individuarsi anche in relazione a un tale obbligo (di adottare ragionevoli accomodamenti), ne risulta di conseguenza ridimensionata l’area della impossibilità sopravvenuta della prestazione e, o anche, per converso ampliato il novero delle posizioni professionali utilmente assegnabili al lavoratore disabile, in quanto individuabili solo in esito appunto ai disposti ragionevoli accomodamenti, nel senso sopra precisato.

Si tratta di una conclusione importante in sé e anche sul piano ricostruttivo più generale: le disposizioni della direttiva impongono infatti al datore di lavoro un obbligo di modificare la sua organizzazione di impresa, nei limiti di uno sforzo non sproporzionato, in funzione della realizzazione dell’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto in condizioni di sicurezza.

È certo un mutamento significativo rispetto ai principi affermati in questa materia dalla giurisprudenza con orientamento consolidato, almeno a partire dalla decisione n. 7755/1998 delle Sezioni unite (e quindi nell’era del cavallo, secondo la metafora di cui si diceva in apertura).

In quella pronuncia infatti le Sezioni unite, nel ricercare un punto di equilibrio fra libertà di impresa e diritto del lavoratore al lavoro e alla salute, avevano ritenuto che restasse comunque prerogativa del datore di lavoro «l’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell'azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della medesima» e che l’imprenditore potesse perciò legittimamente rifiutare l’assegnazione del lavoratore divenuto inabile alle mansioni a lui attribuite, se ne fosse derivato un aggravio organizzativo (il riferimento espresso della sentenza è al trasferimento di altri dipendenti ) [3].

In contrario l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, che la direttiva pone a carico del datore di lavoro, nega l’assolutezza del principio di intangibilità dell’organizzazione d’impresa, così che al giudice spetterà verificare l’adempimento dell’obbligo (e quindi l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione. Violazione che, in quanto costituisce infrazione del principio paritario, sarà di necessità sanzionata con la piena tutela reintegratoria, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, dall’epoca del licenziamento e anche dell’assunzione del dipendente (peraltro, per i rapporti di lavoro cui si applichi il regime delle tutele crescenti, il d.lgs 23/2015 all’ultimo comma dell’art. 2 sanziona espressamente con la reintegrazione il licenziamento di cui sia accertato «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68»).

Risponde d’altra parte ai principi che gravi sul datore di lavoro l’onere di provare l'inesistenza, l’inutilità di ragionevoli accomodamenti o la necessità di uno sforzo sproporzionato per realizzarli, per essere gli stessi necessariamente costitutivi del giustificato motivo oggettivo allegato, alla luce dell'obbligo legale di non discriminazione per motivi di disabilità. Resta invece del tutto irrilevante la condizione soggettiva del datore, e quindi l’esistenza di un soggettivo motivo illecito, rilevando solo l’effetto discriminatorio [4].

Al lavoratore spetterà tuttavia l’onere di prospettare l’esistenza di tali ragionevoli accomodamenti con una qualche concretezza, perché a ritenere diversamente la prova gravante sul datore potrebbe essere davvero diabolica oppure per contro risolversi in mere affermazioni di stile (sull’inesistenza per esempio di qualsiasi possibile accomodamento senza specificazioni).

Poiché però il lavoratore interessato è necessariamente a conoscenza delle sue menomazioni e di come esse lo limitino nell’esecuzione della prestazione, ma certo non può esigersi che gli siano note tutte le possibili soluzioni organizzative, il suo onere di allegazione dovrebbe dirsi soddisfatto con l’indicazione della natura degli «accomodamenti» che ritiene indispensabili (per esempio la sottrazione di alcune mansioni, l’adibizione ad altre diverse, gli ostacoli nell’ambiente di lavoro la cui rimozione assume idonea a consentirgli di continuare a svolgere la prestazione etc.).

Una simile ricostruzione del riparto degli oneri assertivi e probatori delle parti appare la più adeguata anche nei casi di discriminazione associata, in cui cioè il lavoratore o la lavoratrice non sia immediatamente portatore del fattore di protezione, ma subisca comunque un trattamento differenziale in ragione della sua relazione con il portatore del fattore, come nel caso dell’handicap avviene tipicamente per il care giver, il soggetto che si prende cura del disabile.

Una condizione, che rientra sicuramente nell’ambito di applicazione delle tutele antidiscriminatorie come ha chiarito la Corte di giustizia nella sentenza Cgue, 17 luglio 2008, C-303/06 Coleman, secondo cui «il divieto di discriminazione diretta [...] non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta».

Anzi forse a maggior ragione, nei casi di discriminazione indiretta sarebbe davvero difficile non far ricadere sul lavoratore o sulla lavoratrice un onere minimo di allegazione in ordine agli accomodamenti che assume utili, visto che essi devono tendere a consentire l’espletamento di compiti di cura il cui contenuto concreto il datore di lavoro può legittimamente ignorare del tutto.

Una volta che il lavoratore abbia prospettato simili accomodamenti sarà però il datore di lavoro, come detto, a dover dimostrare che essi siano inattuabili o richiedano uno sforzo sproporzionato, una sproporzione che andrà valutata in concreto in relazione alla consistenza dell’impresa e alle altre condizioni di cui dice il ventunesimo considerando della direttiva (tra le altre la disponibilità di sussidi o sgravi o sovvenzioni pubbliche).

Anche un esame sommario della disciplina di interesse, come quello che precede, rende allora evidente la complessità dell’accertamento di fatto che attende il giudice che debba verificare l’adempimento dell’obbligo datoriale di adottare soluzioni ragionevoli a fronte della sopravvenuta disabilità del dipendente.

In questo compito, che tuttavia gli spetta, il giudice di merito deve d’altra parte confrontarsi con la grande diversità degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità anche molto recente.

Così solo nel 2018, come si è detto, si sono registrate decisioni della Corte di cassazione di segno opposto.

Con la sentenza n. 6798/2018 infatti il giudice di legittimità ha riconosciuto la specificità della disciplina relativa al licenziamento del lavoratore disabile, in conseguenza della previsione dell’art. 5 della direttiva 78/2000, proprio nei ragionevoli accomodamenti come oggetto di un obbligo datoriale di adattare, appunto entro limiti ragionevoli, la propria organizzazione di impresa al fine di consentire al lavoratore disabile di continuare a svolgere la sua prestazione.

E merita rilevare come, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte, facendo applicazione di tale principio e di quello di interpretazione conforme, abbia ritenuto illegittimo un licenziamento intervenuto prima dell’entrata in vigore, in esito alla sentenza della Corte di giustizia che accertava l’inadempimento dell’Italia all’obbligo di attuazione della direttiva, del comma 3-bis dell’art. 3 del d.lgs 216/2003 [5].

In contrario altre decisioni, sempre recentissime, dello stesso giudice di legittimità ignorano completamente la disciplina portata nella direttiva (così la sentenza n. 20497/2018, che nemmeno la nomina), altre invece come la n. 27243/2018 ne danno un’interpretazione che, almeno a chi scrive, pare in effetti abrogatrice.

Secondo quest’ultima decisione infatti «il diritto del lavoratore disabile all'adozione di accorgimenti che consentano l'espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell'organizzazione interna dell'impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell'impresa stessa (cfr. già Corte Cost. n. 78 del 1958, Corte Cost. n. 316 del 1990, Corte Cost. n. 356 del 1993) nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita».

Ora il riferimento agli equilibri finanziari dell’impresa o vuol dire troppo, se per equilibrio finanziario si intende una situazione di non dissesto dell’azienda: è infatti di una certa evidenza che gli accomodamenti non sarebbero ragionevoli se portassero l’azienda al dissesto o anche solo implicassero un impegno economico tale da metterne in pericolo la sopravvivenza. Oppure, ed è forse questo il caso, a giudicare dal tenore complessivo della motivazione, soprattutto dal riferimento all’«organizzazione interna dell’impresa», vuol dire troppo poco. Se infatti per equilibri finanziari dell’impresa devono intendersi generalmente le scelte di allocazione delle risorse compiute dall’imprenditore, dire che gli accomodamenti ragionevoli trovano un limite necessario in tali scelte significa in concreto affermare che gli accomodamenti non devono avere alcun costo, ciò in contrasto con la chiara previsione del ventunesimo considerando della direttiva, che individua invece il limite delle soluzioni ragionevoli in «oneri finanziari sproporzionati», così esplicitamente imponendo ai datori di lavoro anche adattamenti non a costo zero.

E ancora il riferimento della decisione al «diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate» pone obiettivamente il problema della compatibilità dell’orientamento della Cassazione con la previsione espressa del ventesimo considerando della direttiva, che indica proprio in una diversa ripartizione delle mansioni uno dei possibili accomodamenti ragionevoli.

D’altro canto il successivo richiamo della Corte al diritto degli altri lavoratori all’attribuzione «di mansioni che ne valorizzino l'esperienza e la professionalità acquisita», non sembra confrontarsi affatto con il nuovo testo dell’art. 2103 cc, che non assegna più all’equivalenza delle mansioni la funzione di limite dello jus variandi. Così che non si vede davvero perché il datore di lavoro potrebbe assegnare legittimamente ai suoi dipendenti mansioni non equivalenti, purché di qualifica, per realizzare le finalità da lui ritenute adeguate al buon andamento dell’impresa, ma sarebbe legittimato a non farlo quando l’uso, sempre legittimo, dello jus variandi a norma del nuovo testo dell’art. 2103 cc, fosse finalizzato invece a consentire al lavoratore disabile (o che presti assistenza a un disabile) di continuare a svolgere la sua prestazione.

Ma anche a ritenere l’argomento della decisione come riferito solo al regime previgente il nuovo testo dell’art. 2103 cc, l’affermazione nei termini assoluti in cui è fatta non pare condivisibile. È chiaro infatti che non sarebbe soluzione ragionevole il demansionamento di altri dipendenti (così che il limite dei ragionevoli accomodamenti è rappresentato senz’altro anche dai diritti degli altri lavoratori, nascenti dai rispettivi rapporti di lavoro), ma un diverso riparto delle mansioni (che per esempio ne sottragga alcune ai colleghi del disabile per assegnarle a lui o per contro ripartisca tra i colleghi quelle incompatibili con la disabilità già assegnate al lavoratore portatore di handicap) certo non realizza sempre un demansionamento.

In realtà almeno a chi scrive pare che la pronuncia della Corte nel suo complesso (si veda per esempio il riferimento a quelle che si ritengono le esperienze degli altri Paesi in questa materia, per cui secondo la Corte gli accomodamenti ragionevoli rappresenterebbero «molto spesso» niente più che «delle soluzioni di buon senso, non particolarmente dispendiose, quali la posizioni di strisce luminose nelle vetrate e/o di strisce antiscivolo nei gradini di marmo, l'utilizzo di hardware e/o software specifici, l'applicazione degli aspetti ergonomici della postazione, degli strumenti, degli aspetti psichico sociali») finisca per porre nel nulla lo specifico obbligo portato nell’art. 5 della direttiva (tra l’altro trascurando il fatto che proprio per non avervi dato attuazione l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea), e faccia sostanzialmente coincidere quell’obbligo con quello di repechage, che si dà all’interno dell’organizzazione aziendale come delineata dall’imprenditore.

Si tratta d’altra parte di una soluzione ermeneutica sostenuta da un richiamo all’art. 41 della Cost., che sembra dimenticare che l’iniziativa economica trova il proprio limite, tra l’altro, nella dignità umana, al cui (ultimo) presidio sono posti i divieti di discriminazione. Così che non sono certo quei divieti a essere limitati dalla libertà d’impresa, ma è al contrario quella libertà a trovare nel divieto di discriminare un confine necessario.

Ma che si condivida o meno la soluzione interpretativa da ultimo adottata della suprema Corte resta comunque l’estrema complessità di una materia ancora segnata da orientamenti giurisprudenziali tanto differenti, circostanza che fa ritenere per certo che il cammino del diritto antidiscriminatorio nel nostro ordinamento non sarà (come non è stato finora) facile.

Chissà se allora non torni utile che il diritto antidiscriminatorio sia un asino. Perché forse ci vuole un animale umile e tenace per compiere un cammino, come questo, accidentato, ma necessario.



[1] M. Barbera, Il cavallo e l’asino ovvero dalla tecnica della norma inderogabile alla tecnica antidiscriminatoria, in Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, a cura di Olivia Bonardi, Ediesse, 2017.

[2] M. Barbera, op. cit., p. 17.

[3] Sulla decisione delle Sezioni unite e la successiva giurisprudenza, cfr. O. Bonardi, L’inidoneità sopravvenuta al lavoro e l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli in un’innovativa decisione della Cassazione, in Questione Giustizia trimetrale, fascicolo 3/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/3/l-inidoneita-sopravvenuta-al-lavoro-e-l-obbligo-di_564.php.

[4] Per la nozione oggettiva di discriminazione nella giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. n. 6575/2016.

[5] Sulla pronuncia n. 6798/2018, cfr. ancora Bonardi, op. cit.

13/06/2019
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