Magistratura democratica
Il filo di Arianna

Capovolgere la giustizia?

di Francesco Cascini
sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma
La Costituzione, l’ordinamento penitenziario, le regole penitenziarie europee, perfino le condanne della Cedu non hanno scalfito le fondamenta di una concezione retributiva della giustizia penale erette sul codice Rocco. Nel corso degli anni nel sistema si è strutturato un paradosso per cui convivono un eccesso di carcere ed un eccesso di impunità. Per eliminare questi eccessi va dato corpo allo scopo del diritto penale aprendo a soluzioni sanzionatorie alternative finalizzate alla riparazione del danno prodotto dal reato ed al reinserimento. Solo rendendo efficaci e veloci questi strumenti si potrà fare strada una diversa cultura della repressione penale e del carcere.

Un titolo ambizioso sulla giustizia penale, sia pure in forma interrogativa, implicherebbe una articolata riflessione sul senso della pena e più in generale sul senso del diritto e della repressione penale. Si tratta di un tema proprio della filosofia del diritto che, per la sua ampiezza, è stato affrontato oltre che da filosofi anche da statisti e giuristi di ogni tempo, tanto forti sono le connessioni con la struttura della società e con la più significativa espressione del potere statuale che consiste nell’infliggere una punizione.

In Diritto e ragione, Luigi Ferrajoli propone una classificazione delle teorie sulla pena, sul come e perché punire, che a partire da Platone, passando per Beccaria, Hegel, Kant e Montesquieu, offre un quadro della complessità della questione che attiene all’essenza della convivenza civile e misura la capacità di un sistema di realizzare un equilibrio tra etica, influenze religiose e diritto, tra giustizia sociale e giustizia penale, tra potere punitivo ed equità, tra esigenze di ordine sociale e tipologia delle sanzioni.

Si tratta di un terreno arato da grandi pensatori e pur essendo indispensabile, per affrontare il tema, tener conto della evoluzione del pensiero su questa materia, è evidente che non può essere questo l’approccio della riflessione che propongo. Il tentativo, piuttosto, è quello di provare a dare una lettura di come oggi è strutturata di fatto la repressione penale partendo da una verifica concreta del modo con il quale ad essa si fa ricorso, di come avviene l’accertamento di fatti penalmente rilevanti e di quali conseguenze produce, per poi proporre una possibile prospettiva in chiave moderna del funzionamento del diritto penale.

Questo obiettivo non è meno ambizioso ed è scontata una certa superficialità dell’analisi, sempre possibile quando si discute di questioni tanto complesse e quando è comunque necessario restare dentro spazi inevitabilmente delimitati.

La struttura portante del nostro sistema penale è costituita dal codice di Rocco del 1930. È un codice di 88 anni fa, pensato e costruito in pieno ventennio.

Non c’è studente di diritto che non sia rimasto affascinato dalla logicità e dal rigore scientifico del codice ed è probabile che proprio per effetto di questa solidità e di una intrinseca coerenza che appare in linea (soprattutto dopo gli aggiustamenti legislativi e gli interventi della Corte costituzionale) con la difesa delle garanzie, sia rimasto a distanza di così tanto tempo ancora in vigore. Rocco insieme al codice penale scrisse il regolamento penitenziario del 18 giugno del 1931 (rimasto in vigore fino al 1975) ed il codice di procedura penale (rimasto in vigore fino al 1989).

Il disegno complessivo aveva una sua coerenza e nella relazione di accompagnamento, vengono esposte in modo chiaro le finalità delle previsioni del codice penale. Le sanzioni principali per i delitti sono la reclusione e la pena pecuniaria. La conseguenza, dunque, per le infrazioni più gravi è sempre solo il carcere. La prospettiva di rigore soddisfa la funzione general-preventiva del diritto penale, realizza cioè quella intimidazione che deve costituire il deterrente alla commissione del crimine. È evidente che la misura dell’obiettivo della deterrenza è data dalla capacità di eseguire in concreto la pena con modalità tali da fornire fondatezza alla minaccia. La pena deve infliggere un castigo che produca una riduzione dei rischi di vendetta privata e deve neutralizzare il reo attraverso l’emenda ed il contenimento. Sono le caratteristiche principali di un sistema penale di tipo retributivo che di per sé non si presenta neppure totalmente incompatibile con l’obiettivo di recupero del reo. Anche Rocco ipotizzava che il lavoro, l’istruzione e la religione, dovessero essere elementi obbligatori nella gestione penitenziaria per trasformare il detenuto in un buon fascista”.

Dopo tanti anni di vigenza del codice penale, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, l’introduzione dell’ordinamento penitenziario nel 1975, le regole minime dell’Onu in materia penitenziaria, le regole penitenziarie europee è probabilmente necessario chiedersi se questa prospettiva è oggi cambiata. Si tratta, in realtà, di una domanda che deve trovare risposta nel diritto vivente, nella cultura e nel senso della previsione penale e della pena, maturata dalla politica, dai mezzi di informazione, dai giudici e dalla pubblica opinione.

Da sempre i delitti determinano un forte impatto emotivo, che va spesso oltre le vittime e coinvolge la comunità anche per effetto di una naturale tendenza degli organi di informazione ad enfatizzare i fatti più cruenti o quelli che producono paura nelle persone, poiché essi si traducono in prodotti di comunicazione di comprovato successo. Quanto più forte è il coinvolgimento emotivo tanto più è urgente una reazione. Così la previsione di una nuova fattispecie di reato, l’inasprimento delle pene, la riduzione degli spazi di accesso ai benefici penitenziari, sono percepiti come gli strumenti più rapidi ed efficaci di risposta.

Appagano, in apparenza, il bisogno di contenere la paura e producono un facile consenso. Tanto è forte questa tentazione che talvolta impianti normativi di tipo repressivo sono funzionali ad affrontare profondi problemi sociali ai quali il crimine è strettamente connesso. Si pensi alla tossicodipendenza o all’immigrazione.

Ad influenzare il modo con il quale le persone pensano e si raccontano la giustizia penale e la pena vi sono altri fattori. Tra questi, a mio parere, un ruolo di rilievo è svolto dalla concreta efficacia del sistema penale che, anche nell’ottica della deterrenza e del contenimento, sembra di fatto, ispirare le scelte sulle politiche criminali.

Lo schema fatto-reato tipico e sanzione detentiva (o pecuniaria), il graduale ampliamento dell’area del penalmente rilevante ed il contestuale, corretto, aumento del livello di garanzie processuali, hanno prodotto effetti obiettivamente distorti che minano in modo significativo l’effettività della giustizia penale.

L’eccesso di rigore che caratterizzava il codice penale del ‘30 è stato periodicamente condizionato da controspinte garantiste che hanno prodotto significative attenuazioni dell’impianto originario; con l’introduzione di misure che riducono, rinviano o rendono non effettiva la sanzione (sospensione condizionale, attenuanti generiche, prescrizione…), si è determinata una non del tutto infondata sensazione di impunità per una larga fascia di autori di reato.

L’aspetto più odioso è che il sistema si rivela, alla fine dei conti, forte con le fasce più deboli della popolazione e incapace di dare risposte per reati (come la corruzione, la violazione di norme in materia di ambiente, di territorio, o di sicurezza sul lavoro, evasione fiscale) più tipicamente commessi da persone appartenenti a classi sociali medio-elevate.

La commissione di un reato crea una frattura nella comunità alla quale la giustizia penale dovrebbe porre rimedio. È un sistema che dovrebbe essere funzionale alla tenuta e alla coesione sociale. Se, però, si presenta come poco equo e non distributivo, produce l’effetto opposto e si trasforma in ulteriore elemento di frattura, di sfiducia e di contrapposizione sociale. A questa considerazione si aggiunga un altro fondamentale elemento che è costituito dall’attenzione per la vittima nell’ambito della singola procedura attinente ad un fatto reato.

Qui scontiamo tutto il ritardo rispetto alla concezione retributiva che vede come suo principale elemento quello della sostituzione dello Stato alla vittima con l’obiettivo di contenere il rischio di vendette private. La vittima è dunque fuori dagli scopi del sistema penale e molto spesso vede frustrato, per effetto di quelle misure di attenuazione del codice sopra accennate, anche il risultato puramente retributivo che il sistema sembra promettere, e matura, accanto alla percezione di una sostanziale impunità, la consapevolezza di una assoluta mancanza di attenzione nei suoi confronti.

Con la certezza che il ragionamento proposto contiene un certo grado di approssimazione, credo si possa però ritenere che l’evoluzione normativa sia interna che internazionale non è stata in grado di scalfire una solida concezione di tipo retributivo che tuttora caratterizza, sia pure come si è visto in modo non del tutto equo ed efficace, il sistema penale.

Se, dunque, gli obiettivi principali del sistema sono costituiti, di fatto, dalle descritte connotazioni retributive della pena, appare piuttosto agevole comprendere le ragioni per le quali il sistema della esecuzione penale (e del carcere in particolare) sia così distante dalle previsioni della Carta costituzionale e dell’ordinamento penitenziario.

Il carcere non poteva che svilupparsi in modo speculare rispetto agli obiettivi che dal diritto vivente sono stati affidati al settore penale. Una breve digressione sul punto, può forse rendere più chiaro il senso di questa riflessione.

La Costituzione, se ne dibatte fino allo sfinimento, prevede che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Anche se il termine poco felice utilizzato rimanda ad una concezione di tipo correzionale, è opinione diffusa che la funzione costituzionale delle pene (più d’una dunque, e non solo il carcere) dovrebbe essere quella di dare un contenuto alla esecuzione penale che sia finalizzato al reinserimento sociale ed all’obiettivo di evitare che, una volta espiata la pena, il condannato torni a delinquere nuovamente. Secondo questa ottica la funzione di prevenzione del sistema non sta tanto nella minaccia della sanzione (come invece in concreto avviene) ma nella capacità di quest’ultima di svolgere una reale funzione di riparazione e di contenimento della recidiva.

Dunque, il carcere, che secondo l’impianto del codice è la principale forma di esecuzione della pena, dovrebbe avere caratteristiche strutturali ed organizzative coerenti con gli obiettivi che la Costituzione assegna alla sanzione penale. È evidente che così non è. Certamente non è stato così per moltissimi anni. Dal punto di vista strutturale la stragrande maggioranza degli istituti penitenziari ha caratteristiche architettoniche assolutamente incompatibili con una funzione risocializzante. L’assetto, piuttosto, è quello di luoghi di contenimento (più o meno attenuato dalla buona volontà o dalla capacità di singoli operatori) caratterizzati dalla totale passività degli ospiti. Dal punto di vista organizzativo: come e chi si occupa di dare contenuto costituzionale alla pena? In una pianta organica di un istituto penitenziario per 100 detenuti sono previsti circa 80 poliziotti penitenziari e un educatore. La presenza di psicologi, psichiatri, istruttori per attività sportive, l’organizzazione di attività culturali dipende dal buon cuore dei volontari e dalla eventuale disponibilità degli enti territoriali.

A ben vedere l’organizzazione concreta del mondo del carcere e della esecuzione penale risponde ad una concezione della repressione penale che, alla prova dei fatti, si è dimostrata più forte delle previsioni costituzionali e delle indicazioni europee.

Un ruolo di rilievo nel rafforzamento di una concezione retributiva e di freno allo sviluppo di una idea moderna delle sanzioni penali, l’hanno sicuramente svolto nella nostra storia recente il terrorismo e soprattutto la criminalità organizzata. Paradossalmente proprio nel periodo della riforma penitenziaria del ‘75, l’urgenza di maggiore sicurezza delle carceri e di maggiore rigore nella gestione dei detenuti ha impedito la piena attuazione di quei principi. Accanto a quelle emergenze se ne sono aggiunte altre e il tempo di una riflessione di ampio respiro sul tema si è forse riuscito a trovare solo molto di recente.

Il risultato di una organizzazione di questo tipo è che su 10 detenuti che espiano la pena in carcere 7 tornano a delinquere. Ogni anno escono dal carcere tra le 10 e le 15.000 persone per espiazione pena e sembra non interessare a nessuno questo dato che pesa realmente ed in concreto sulla sicurezza e sulla incapacità del sistema dell’esecuzione penale, nonostante l’impegno e la volontà degli operatori, di svolgere quel ruolo di prevenzione che la Costituzione gli assegna.

Generalmente si contrappone ad un sistema penale di tipo retributivo uno invece cosiddetto ristorativo. Certo, però, che se la fotografia del sistema corrisponde a quella descritta, parlare di giustizia riparativa e di mediazione penale può apparire un fuor d’opera.

Qui è probabilmente necessario un chiarimento di tipo terminologico sul termine riparazione che talvolta rischia di creare confusione. La giustizia riparativa e la mediazione penale sono strumenti che per loro natura si pongono al di fuori del sistema sanzionatorio. Si tratta, difatti, di meccanismi che in tanto possono avere una reale efficacia in quanto siano fondati sul presupposto della volontaria adesione di vittima ed autore verso un percorso di riparazione e di possibile mediazione. È evidente, dunque, che la giustizia ristorativa non può proporsi come interamente alternativa al sistema sanzionatorio (anche se taluni pensano non solo che ciò sia possibile ma che sia anche l’unica soluzione realmente utile).

Cosa diversa è invece quella di immaginare sanzioni diverse dal carcere che abbiano un contenuto di tipo riparatorio ed impongano un comportamento attivo diretto a ridurre o rimediare ai danni prodotti dal reato. In questa scia si colloca l’idea di un ampliamento del ricorso ai lavori di pubblica utilità o l’estensione dei programmi di messa alla prova anche agli adulti e in generale l’ampliamento delle misure alternative al carcere.

A mio parere soltanto con lo sviluppo di una concezione delle sanzioni penali che realizzino un difficile equilibrio tra esigenze di riparazione al danno causato e di sostegno, ove necessario, potrà crescere un moderno sistema di giustizia ristorativa che vada nell’ottica della ricucitura dello strappo prodotto dal reato. È scontato che questo percorso passa per una attenzione molto diversa per la vittima che in tanto può essere parte consapevole di un processo di ricucitura in quanto venga riconosciuta come destinataria di diritti, primo tra tutti quello a ricevere una concreta riparazione per il danno subito. Su questa scia si collocava la direttiva n. 29 del 2012 recepita soltanto nel 2015 con una ottica che ne ha frustrato notevolmente il senso.

È in questa prospettiva che deve essere costruito un moderno sistema di probation che possa ridare equilibrio al sistema sanzionatorio. Come ho provato ad argomentare, oggi il sistema penale appare caratterizzato da un paradosso per cui convivono un eccesso di carcere e un eccesso di impunità. Compito del probation e del sistema delle misure penali di comunità dovrebbe essere quello di riempire quel vuoto che costantemente si registra all’esito dei procedimenti penali che si concludono o con il niente o con il carcere.

Per fare questo è indispensabile ripensare i meccanismi che producono impunità, ridare centralità alla vittima, prevedere l’obbligo di comportamenti attivi che riparino al danno commesso, semplificare le procedure, investire in un modello di carcere finalizzato alla risocializzazione.

Non è obiettivamente cosa da poco. Tuttavia il nostro Paese ha nella giustizia minorile un chiaro esempio di come è possibile capovolgere un sistema penale. Se si guarda la serie storica dei detenuti minorenni e possibile notare come a partire dagli anni cinquanta (i detenuti minorenni erano circa 8.000), passando dalla fondamentale riforma del 1988, fino ad oggi, i numeri si sono progressivamente ridotti fino ad arrivare a presenze che sono sempre inferiori alle 500 unità. In realtà si potrebbe affermare che il carcere per i minori è sostanzialmente superato considerato che solo un centinaio tra i circa cinquecento detenuti non hanno raggiunto i 18 anni.

Il cambiamento vero del sistema sta nell’attribuire principale rilievo al recupero del minore e i programmi di messa alla prova (fermi restando limiti e difficoltà) costituiscono l’essenza di una alternativa che propone un comportamento attivo ed una effettiva volontà di cambiamento che passa anche per le esigenze di sostegno e di riparazione.

È dentro questa logica che anche gli istituti penali per minorenni cambiano volto (qui la percentuale degli educatori è 1 a 10) e diventano luoghi che preparano all’uscita nell’ottica reale del recupero.

Anche il sistema penale minorile soffre però di una generale patologia che riguarda la complessiva strategia sulle politiche criminali. Lo scopo di un sistema virtuoso dovrebbe essere quello di analizzare le cause che possono condurre al crimine e mettere in campo le politiche più efficaci per prevenire la commissione dei reati. Nella stessa ottica i programmi sanzionatori si dovrebbero collocare con le analoghe logiche preventive.

In realtà, anche in campo minorile, si registra un disallineamento tra le politiche giovanili di prevenzione e l’azione dei giudici, quasi che incappare nel processo penale possa costituire una fortuna per un minorenne perché il sistema gli offre delle opportunità che altrimenti non avrebbe mai avuto.

Lo stesso disallineamento, ma in modo opposto, si registra nel mondo degli adulti dove le politiche sociali e quello socio-sanitarie sono autonome e svincolate dall’esecuzione penale. Non è un caso che giustizia e sicurezza sono materie che viaggiano a braccetto e sono competenze dello Stato, mentre le politiche sociali e quelle socio-sanitarie sono frantumate nelle competenze degli enti territoriali.

Va detto, però, che negli ultimi tempi si registra qualche segnale che fa sperare in una possibile inversione di tendenza. La condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti disumani e degradanti dei detenuti, in violazione dell’art. 3 della convenzione (sentenza pilota nel caso Torreggiani ed altri c. Italia), ha obiettivamente dato una scossa alla produzione legislativa ed alla organizzazione amministrativa del sistema penitenziario.

Sul piano normativo, come sopra accennato, sono state introdotte misure che hanno rimosso ingiustificate ragioni ostative all’accesso a misure alternative (in precedenza introdotte dalla cosiddetta legge ex Cirielli), è stata prevista, sia pure per reati minori, la messa alla prova per gli adulti, è stato ampliato il ricorso alla sanzione del lavoro di pubblica utilità, sono stati chiusi (anche se il processo non è ancora ultimato) gli ospedali psichiatrici giudiziari, si sono ampliati i presupposti per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale.

Si tratta di buoni segnali che però, spesso, registrano battute di arresto o addirittura passi indietro, ogni volta che torna a dominare la scena della comunicazione un evento che scuote la comunità e necessita di immediate risposte. Sul piano organizzativo della detenzione per la prima volta, dopo molti anni, si è cominciato a discutere di diversi modelli di vigilanza, di una maggiore apertura delle strutture carcerarie ed è notevolmente aumentato l’impegno per le attività trattamentali e per l’ampliamento delle opportunità di formazione professionale e di lavoro per i detenuti.

Nell’ambito della riorganizzazione del Ministero si è deciso di puntare, anche in modo simbolico, sulle misure alternative al carcere con l’idea, in prospettiva, di costruire un moderno sistema probativo che possa costituire il principale strumento di risposta rispetto alla commissione del crimine lasciando il carcere (che nel frattempo deve necessariamente cambiare i meccanismi di funzionamento) come estrema soluzione. I due sistemi devono puntare sulla massima integrazione mediante uno sforzo comune per assicurare che almeno l’ultima parte della pena venga scontata all’esterno, nella comunità, con l’obiettivo di preparare il condannato al rientro nel tessuto sociale e ridurre il rischio che commetta altri reati.

L’unione tra il sistema della esecuzione penale esterna e la giustizia minorile nell’ambito di un unico dipartimento ha una forte valenza simbolica e spinge verso una opzione culturale che quantomeno pone solide basi di un cambiamento. Certo è indispensabile assicurare risorse tali che possano consentire il rafforzamento della giustizia minorile (impegnata oggi a gestire con le stesse risorse giovani fino ai 25 anni di età quando il reato è stato commesso prima dei 18 anni) e la sostenibilità della crescita della esecuzione penale esterna che ha visto negli ultimi anni aumentare le proprie competenze con una speculare diminuzione delle risorse e del personale.

Il sistema dal punto di vista normativo ed organizzativo si deve evolvere in modo tale da far maturare in tutte le componenti della collettività una diversa concezione della sanzione penale. È evidente che per imboccare questa via le misure di comunità non possono consistere in “benefici” privi di contenuto e di controllo. Si deve trattare di vere e proprie sanzioni anche se dirette a riparare il danno causato dal reato e devono essere organizzati accurati controlli e punite le trasgressioni. Solo così sarà possibile gradualmente modificare una radicata concezione secondo la quale tutti associano il diritto penale al carcere e le misure alternative ad una specie di regalo privo di contenuto e di effetti.

Passi avanti di un certo rilievo si sono fatti con gli Stati generali sulla esecuzione penale e con la scrittura della legge delega per la riforma penitenziaria. Sembra sempre più difficile che i decreti legislativi predisposti dalle commissioni nominate dal Ministro Orlando vengano approvati. Quei testi costituivano un primo indispensabile passo verso il cambiamento per poi affrontare il tema della diversificazione delle sanzioni e delle collegate questioni processuali. Purtroppo la strada sembra, di nuovo, molto in salita.

Tuttavia dobbiamo essere consapevoli del fatto che il futuro del sistema è molto nelle mani degli operatori, dei magistrati, dell’avvocatura che per primi devono favorire quella spinta culturale verso il cambiamento che passa per una nuova e diversa consapevolezza sulla funzione del diritto penale e della pena.

23/04/2018
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