Magistratura democratica
Magistratura e società

Attualità delle lezioni tenute in Messico da Piero Calamandrei nel febbraio 1952*

di Giuliano Scarselli
ordinario di diritto processuale civile, Università di Siena<br> avvocato
I temi affrontati nelle sei conferenze messicane hanno ad oggetto questioni ancora vive e affatto risolte. È un piacere per me riproporle, e prender spunto da esse per valutare pecche e stalli del nostro vigente processo civile, e suggerire (perché no?) qualche piccolo rimedio. A ciò è dedicato questo scritto, diviso in paragrafi, uno per ogni conferenza.

Nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l’interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata il lui, la propria dignità

P. Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, p. 141

*** 

1. Premessa: l’attualità delle conferenze messicane di Piero Calamandrei pubblicate nel volume Processo e democrazia

Nel 1952 Piero Calamandrei era all’apice della carriera: terminato il periodo postbellico e promulgata la Costituzione della nuova Italia repubblicana e democratica, Piero Calamandrei, già rettore dell’Università di Firenze, si trovava ad essere parlamentare, presidente del Consiglio nazionale forense, nonché fondatore e direttore della rivista Il Ponte.

In quell’anno amici sudamericani, ed in particolar modo il prof. Niceto Alcalá Zamora y Castillo, titolare della cattedra di diritto processuale civile nella facoltà messicana, lo invitavano a tenere alcune conferenze presso l’Università di Città del Messico.

Piero Calamandrei accettava l’invito con gratitudine e preparava per l’occasione sei conferenze.

Poiché le conferenze erano rivolte ad un pubblico straniero, Piero Calamandrei decideva di rendere oggetto delle stesse solo temi generali, e di richiamare con esse concetti e pensieri che in altre sedi aveva più approfonditamente studiato.

Le conferenze ebbero successo, tanto che Piero Calamandrei, al rientro in Italia, decideva di pubblicarle in un piccolo volume, che avrebbe preso il titolo di Processo e democrazia.

Ciò avveniva due anni dopo, nel 1954.

Sotto un certo profilo, così, il volume può essere considerato una sintesi del pensiero di Calamandrei sui temi a lui più cari.

Chi legga il volume, avverte subito un dato: ogni argomento è trattato mettendo in primo piano l’aspetto umano della disamina giuridica; più della logica, più della tecnica, più dell’esegesi rigorosa delle norme, conta il sentire dell’uomo per Piero Calamandrei.

Credo che questa sia stata la sua grandezza, che fa sì che ancor oggi Egli, a differenza dei giuristi del suo medesimo periodo storico, sia ricordato e citato non solo dalla dottrina, ma da tutti gli operatori del diritto, dai giudici, dagli avvocati, dai pubblici funzionari, dai politici, dagli insegnanti delle scuole, dagli stessi studenti.

Processo e democrazia ha per questo, a mio parere, una vitalità che non può invecchiare, una attualità che non può venir meno.

E condivido il pensiero di Franco Cipriani, il quale, premesso che non amava le classifiche, asseriva però che «sono arrivato alla conclusione di dire apertis verbis che Calamandrei è stato sicuramente lo studioso che ha più di tutti influito sulla nostra storia e sul processo civile italiano» [1].

I temi affrontati nelle sei conferenze messicane hanno ad oggetto questioni ancora vive e affatto risolte.

È un piacere per me riproporle, e prender spunto da esse per valutare pecche e stalli del nostro vigente processo civile, e suggerire (perché no?) qualche piccolo rimedio.

A ciò è dedicato questo scritto, diviso in paragrafi, uno per ogni conferenza.

2. Prima conferenza: la predeterminazione legale del processo e il rito sommario

Nella prima conferenza Piero Calamandrei sostiene che, seppur le regole del processo non siano altro che «massime di logica e di buon senso», è tuttavia coessenziale ad un sistema democratico che queste vengano espressamente codificate, e che l’intero procedimento sia, in ogni suo aspetto e momento, regolato dalla legge.

La ragione è evidente: così come il diritto sostanziale deve essere eguale per tutti, allo stesso modo deve essere il diritto processuale; e il diritto processuale riesce ad essere effettivamente e concretamente eguale per tutti solo se il processo non è rimesso alla libertà delle parti o alla discrezionalità del giudice.

Dice espressamente Calamandrei che: «Se uguale per tutti deve essere il diritto sostanziale, non è concepibile che il procedimento tecnico che serve ad applicare la legge ai concreti casi controversi si plasmi in maniera diversa secondo i diversi accorgimenti delle parti in contesa e che l’equilibrio del contraddittorio sia turbato, secondo i casi, dalla prepotenza del più forte o dalla abilità del più scaltro».

Ed ancora aggiunge Calamandrei: «Tutta la storia del processo, dalle formulae del diritto romano, alle positiones del diritto comune, dagli statuti italiani alle coutumes francesi, è, in sostanza, fino a giungere alle codificazioni, la storia della trasformazione della pratica giudiziaria in diritto processuale…Allora, se si vuol dar credito alla sentenza dei giudici, si cominciano a cercare nei meccanismi sempre più precisi della procedura le garanzie per assicurare che essa sia in ogni caso il prodotto, non dell’arbitrio, ma della ragione» [2].

Sono riflessioni attualissime, che meritano di essere ricordate.

Per Calamandrei, come si vede, la predeterminazione precisa del processo soddisfa due esigenze insopprimibili, che sono quelle di assicurare il principio di eguaglianza tra i litiganti e di poter dar credito e valore alla decisione del giudice.

Senza la predeterminazione delle regole processuali viene meno il principio di eguaglianza, e viene meno la credibilità della decisione, e quindi della stessa funzione giurisdizionale.

L’attualità del tema è dato dalla circostanza che è di questi tempi l’idea di fare del processo sommario ex art. 702-bis e ss. cpc la regola “normale” della cognizione dei diritti in primo grado.

V’è infatti un progetto di riforma in forza del quale tutte le controversie ove il tribunale giudica in composizione monocratica devono essere accertate e decise con una cognizione nella quale il giudice «procede nel modo che ritiene più opportuno».

È una riforma grave, se solo si pensa che un processo senza norme non c’è stato nemmeno nei regimi del ‘900.

Il cittadino che entra in un tribunale ha diritto di sapere quali sono le regole con le quali viene giudicato, e questo è quello che prevede la stessa nostra carta costituzionale, laddove sancisce che il processo deve essere regolato dalla legge, e che tutti devono essere trattati allo stesso modo, con garanzie di contraddittorio e difesa predeterminate e non riconosciute fattispecie per fattispecie, e se del caso, dal giudice (artt. 3, 24 e 111 Cost.).

È una riforma che non può, pertanto, essere approvata.

La sua approvazione, così come già sosteneva Calamandrei, potrebbe comportare la «abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e di eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà» [3].

Sarebbe infine una riforma inutile, e basta guardare alla storia del processo sommario per convincersi di ciò.

Annotava ancora Calamandrei: «Ogni volta che contro le stagnanti solennità del processo ordinario il legislatore ha creduto di porre rimedio col creare per le cause più urgenti uno speciale procedimento abbreviato e concentrato, detto perciò sommario, il costume giudiziario è riuscito in pochi anni a render pigro e solenne questo procedimento nato per esser celere e semplice. È questo un curioso fenomeno che si ripete periodicamente nella storia: il processo sommario, messo a contatto colla pratica, tende a diventare formale, e ad appropriarsi di tutte le lentezze e le complicazioni del processo ordinario» [4].

Duole, dunque, dover ricordare cose che si darebbero per acquisite, e battersi per garanzie che non dovrebbero essere messe in discussione da alcuno.

3. Seconda conferenza: la libertà del giudice e la prevedibilità delle decisioni

La seconda conferenza è titolata: Giustizia e politica: sentenza e sentimento.

Con essa Piero Calamandrei sottolinea come il giudice non possa più ricondursi alla celebre frase del Montesquieu per la quale: «Les juges ne sont que la bouch qui pronunce le paroles de la loi»; né i magistrati possono e/o devono considerarsi «Essere inanimati, macchine, macchine sillogizzanti» [5].

Chiede Calamandrei: «Vi sembra davvero che questa concezione puramente intellettualistica e sillogistica del giudice sia soddisfacente, e soprattutto che corrisponda a verità?».

La risposta di Calamandrei è scontata.

Ricorda l’antico detto habent sua sidera lites, e aggiunge: «La verità è che il giudice non è un meccanismo, non è una macchina calcolatrice. È un uomo vivo: e quella funzione di applicare la legge, è in realtà una operazione di sintesi che si compie a caldo, misteriosamente, nel crogiuolo sigillato dello spirito, ove la saldatura tra la legge astratta e il fatto concreto ha bisogno, per compiersi, della intuizione e del sentimento acceso in una coscienza operosa». Infine conclude: «Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla. La giustizia è qualcosa di meglio: è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana. È proprio questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di vigile responsabilità che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice» [6].

Anche questa lezione è di forte attualità se solo si pensa al tema, recentemente assai dibattuto, della vincolatività del precedente e del principio cd. di stare decisis.

Dobbiamo rilevare che le tendenze recenti sono infatti quelle di immaginare anche per noi una forma temperata di stare decisis, da una parte valorizzando al massimo la funzione di nomofilachia, che viene normalmente considerata un principio costituzionale, e dall’altra conseguentemente pretendendo che tutti i giudici si uniformino agli orientamenti esistenti, in ossequio al valore della prevedibilità delle decisioni e del principio di eguaglianza; e in questa logica è stato aggiunto un 3° comma all’art. 374 cpc, che oggi prevede che le sezioni semplici non possano pronunciare in modo difforme dalle Sezioni unite.

In verità, a mio parere, questa tendenza costituisce un po’ una forzatura.

Il principio di nomofilachia lo si trova infatti per la prima volta solo nell’art. 65 del Rd 12/1941, perché le precedenti leggi italiane di ordinamento giudiziario affidavano alla Corte di cassazione il solo compito della «esatta osservanza della legge», e così disponeva infatti tanto l’art. 122 del Rd 2626/1865 (prima legge di ordinamento giudiziario italiana), quanto l’art. 61 della legge n. 2786/1923 (seconda legge di ordinamento giudiziario italiana).

Solo l’art. 65 del Rd 12/1941 avrebbe previsto che la Corte di cassazione «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale»; ma credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola «osservanza della legge» degli anni 1865 e 1923, alla «uniforme interpretazione» e alla «unità del diritto oggettivo nazionale» del 1941, costituiva lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici manifestatesi nel ventennio.

Né la nomofilachia può dirsi fatta propria dalla nostra carta costituzionale, perché anzi, al riguardo, è vero il contrario.

Fu sempre Piero Calamandrei a chiedere che la costituzione accogliesse un principio non diverso da quello dell’art. 65 Rd 12/1941; ma l’idea fu bocciata già nella seconda sottocommissione, trovando la netta opposizione di componenti quali Targetti, Bozzi, Ambrosini, Di Giovanni, Castiglia, ed altri, tanto che Calamandrei, nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946, a verbale, dichiarava «di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame» [7].

Direi, dunque, che eccetto la nuova regola stabilita dall’art. 374, 3° comma cpc, non v’è alcuna norma, né alcun principio, che obbliga il giudice a stare a orientamenti giurisprudenziali già formatisi, o ad interpretare le norme nel modo in cui altri le hanno interpretate, rimanendo, lo stare decisis, un principio della common law, sostanzialmente estraneo al nostro sistema.

Il nostro sistema, infatti, si basa sulla legge, e riconosce solo nelle norme giuridiche, e non negli orientamenti della giurisprudenza, la fonte del diritto.

Ed ancora, la nomofilachia non appartiene più solo alla Cassazione, bensì anche alla Corte di Strasburgo, alla Corte costituzionale e financo al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti, con un complesso di pronunce di fatto in grado di relativizzare lo stesso concetto di nomofilachia, e la nostra carta costituzionale ha stabilito che il giudice è soggetto soltanto alla legge, e quindi che il giudice deve avere quella indipendenza che è anche libertà di giudizio.

Ovviamente non si intende qui mettere in ombra il valore della prevedibilità delle decisioni; si sta solo ricordando che non è l’unico valore da tenere in considerazione, poiché al principio di eguaglianza e di prevedibilità delle decisioni (art. 3 Cost.), sta il principio della libertà del giudice soggetto solo alla legge (art. 101, 2° comma Cost.).

E perché, in ogni caso, come diceva Calamandrei, i magistrati non possono considerarsi «Essere inanimati, macchine, macchine sillogizzanti».

4. Terza conferenza: l’indipendenza della magistratura, il collegio e la camera di consiglio

La terza conferenza è dedicata al tema dell’indipendenza della magistratura.  

Calamandrei ricorda in primo luogo che «In tutte le costituzioni democratiche la indipendenza dei giudici e della magistratura è proclamata come essenziale garanzia di giustizia» mentre «Nei regimi totalitari il giudice non è indipendente, e un organo politico, e uno strumentum regni» [8].

Soffermandosi poi sugli aspetti del processo civile che potrebbero interferire e/o compromettere l’indipendenza del giudice, Calamandrei affronta le questioni relative alla collegialità delle decisioni e alla segretezza della camera di consiglio.

Il tema della collegialità della decisione è posto in stretta correlazione con quello della indipendenza della magistratura, e Calamandrei asserisce che «La collegialità può diventare in certi casi una salvaguardia della indipendenza, perché, in certe controversie politicamente difficili in cui si tratta di andare contro il potere esecutivo o contro gli interessi dominanti, l’organo giudicante ha bisogno di un certo coraggio: e questo coraggio è più facile che l’abbia un collegio piuttosto che un giudice solo».

E circa il tema della camera di consiglio Calamandrei si chiede «se questa tradizionale segretezza della camera di consiglio giovi alla giustizia, e se sia preferibile, in un ordinamento democratico, il sistema della segretezza o quello della pubblicità».

Ricorda che in Messico ogni decisione è pubblica, e aggiunge che: «Anche questo sistema può avere i suoi inconvenienti, ma al confronto io ho l’impressione che non meno gravi siano i pericoli del sistema dell’assoluta segretezza vigente in Italia… In un paese come il nostro in cui anche nella psicologia dei giudici bisogna soprattutto cercar di combattere la pigrizia mentale e il conformismo, la segretezza della camera di consiglio rischia di servire proprio ad aggravare i difetti che si dovrebbero vincere... Tutto questo è in contrasto coi principi moderni del processo orale, il quale vuol soprattutto fondarsi sulla collaborazione diretta tra il giudice e gli avvocati, sulla confidenza e naturalezza delle loro relazioni, sul dialogo semplificatore di chi nel chiedere e nel dare spiegazioni cerca di chiarire la verità» [9].

Collegialità e camera di consiglio quali momenti regolatrici del processo civile in stretta correlazione con il principio di indipendenza della magistratura.

Anche qui balza evidente l’attualità dei temi.

Ed infatti, la collegialità non esiste praticamente più nei giudizi in primo grado, e la camera di consiglio è diventata la regola delle decisioni dinanzi alla suprema Corte di cassazione.

Non so se tutto questo sia in grado di minare l’indipendenza del giudice; certamente però compromette la qualità del giudizio, che dell’indipendenza del giudice ne è il prodotto.

Quanto alla camera di consiglio ricordo Gabriel Honoré Mirabeau che nel 1775 diceva: «Datemi il giudice che volete, parziale, corrotto, anche mio nemico, purché non possa procedere ad alcun atto fuori che dinanzi al pubblico».

L’udienza pubblica era pertanto un valore risalente all’illuminismo, che noi avevamo già nello Statuto Albertino con l’art. 72, che prevedeva che «le udienze dei tribunali saranno pubbliche conformemente alle leggi».

Non so, dunque, se valeva la pena sopprimere un valore illuminista, durato oltre 200 anni, presente nella nostra carta costituzionale con l’art. 101, e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) all’art. 6, e già giudicato dalla nostra Corte costituzionale «espressione di civiltà giuridica» (Corte cost., 24 luglio 1986 n. 212) per risparmiare tre ore a settimana, tanto impegnavano i giudici della Cassazione nelle udienze pubbliche.

E non so cosa di queste riforme penserebbe oggi Piero Calamandrei.

5. Quarta conferenza: la crisi della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali

Nella quarta conferenza Piero Calamandrei si occupa della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, e sente di titolare la conferenza La crisi della motivazione.

Avverte che «In tutti i codici processuali moderni la motivazione è prescritta come uno dei requisiti essenziali della sentenza»; e avverta altresì che: «Motivazione e impugnazione sono, nelle legislazioni processuali, istituti in certo senso paralleli: di solito, dove non è prescritta la motivazione, la impugnazione non è ammessa».

Dunque, finché il sistema garantisce i mezzi di impugnazione, lì la motivazione deve costituire momento fondamentale e insopprimibile dei diritti processuali della parte «perché ogni impugnazione presuppone una critica e una censura dell’atto che si impugna, il che non è praticamente possibile quando non si possa conoscere le ragioni su cui l’atto si fonda e si giustifica» [10].

Dopo di che Calamandrei affronta i vari aspetti della crisi della motivazione, ed in particolare tratta delle motivazioni che invece di costituire l’antecedente logico del provvedimento costituiscono un posterius per giustificare in qualche modo la decisione presa («sentenza facile a decidersi, ma difficile a motivarsi»), e soprattutto tratta dei casi nei quali tra la legge da applicare e la morale del giudice v’è un conflitto, fenomeno che si era frequentemente presentato nel ventennio fascista; e conclude con un epigramma, in base al quale la bambina non deve piangere per il tramonto del sole, poiché ad ogni tramonto segue un’alba [11].

Questa alba della “crisi della motivazione”, però, non mi sembra né iniziata né, tanto meno, compiuta.

Se nel 1952 Calamandrei vedeva la crisi della motivazione soprattutto guardando al passato, e sperava in una nuova stagione che assicurasse questo fondamentale momento processuale, noi oggi possiamo al contrario dire che quella speranza non si è concretizzata, la crisi della motivazione non è stata superata, ma anzi deve dirsi che, nei nostri tempi, al fine di ridurre il carico di lavoro dei giudici, o anche solo di assicurare un certo equilibrio tra i flussi delle controversie in entrata rispetto a quelle in uscita, la motivazione è stata ulteriormente svalorizzata, e da molti considerata solo un orpello fastidioso e in gran parte inutile.

Non è secondario ricordare questi momenti di svalutazione della motivazione, che abbiamo avuto con le riforme degli ultimi anni:

a) in primo luogo si è provveduto a riscrivere l’art. 132 cpc. La sentenza, in origine, doveva contenere «la coincisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto della decisione»; oggi invece la sentenza non deve più contenere l’esposizione dello svolgimento del processo e la motivazione basta sia «coincisa» (vds. nuovo art. 132 a seguito riforma del 2009).

b) In secondo luogo la motivazione è stata svalutata con la svalutazione della sentenza; un tempo la decisione normale di chiusura del processo era la sentenza, oggi invece si prevede che la chiusura del processo avvenga in prevalenza con ordinanza. In primo grado ciò è vero in tutti i casi di cui all’art. 702 bis cpc; in appello in tutti i casi di cui all’art. 348 bis cpc; in Cassazione in tutti i casi nei quali la Corte decida in camera di consiglio, e ciò sia nelle ipotesi di inammissibilità del ricorso ex art. 380 bis cpc ad opera della VI sezione, sia nei casi di camera di consiglio ex art. 380-bis 1 cpc, ad opera delle sezioni semplici.

c) Infine la svalutazione della motivazione si è avuta nel 2012 con la riscrittura dell’art. 360 n. 5 cpc, che ha sottratto alla Corte di cassazione il controllo della motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria.

Trovo grave mettere in discussione il valore della motivazione, né il carico di lavoro può costituire valida scusa.

La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali sta all’indipendenza del giudice: il giudice è indipendente da ogni altro potere dello Stato e soggetto soltanto alla legge (art. 101, 2° comma Cost.), ma proprio per questo deve motivare le decisioni che assume, di fronte alle parti e di fronte al popolo, nel nome del quale la giustizia è amministrata (art. 101, 1° comma Cost.).

Ridurre il valore della motivazione è porsi in contrasto con lo stesso art. 111 Cost. per il quale «Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».

Che dire allora?

Solo questo: che, nell’epigramma, aveva ragione la bambina a piangere, perché al tramonto della motivazione non è seguita alcuna alba.

6. Quinta conferenza: il liberalismo processuale e le riforme autoritarie

Nella quinta conferenza Piero Calamandrei affronta il tema del liberalismo processuale.

È una dimensione che abbiamo smarrito, e per questo preziosa.

Calamandrei avverte che «È agevole cogliere un certo parallelismo tra la disciplina del processo e il regime costituzionale in cui il processo si svolge».

Se lo Stato è autoritario, anche il processo è autoritario; al contrario, se lo Stato è liberale e democratico, anche il processo si connoterà in tal modo.

Calamandrei ricorda di aver sviluppato queste riflessioni già nel suo studio su La relatività del concetto di azione [12], e ricorda parimenti il giurista tedesco James Goldschmidt, il quale studiò «il riavvicinamento acutissimo tra la dialettica del processo, quale noi oggi lo consideriamo, e la dottrina politica del liberalismo... Nella sua opera fondamentale, Der Prozess als Rechtslage si legge che il diritto processuale può fiorire soltanto sul terreno del liberalismo: e proprio per questo, in uno scritto dedicato ad onorar la sua memoria, lo chiamai maestro di liberalismo processuale» [13]. E poi ancora va valorizzato: «Quel principio di iniziativa e di responsabilità delle parti che va sotto il nome di principio dispositivo, in forza del quale nel processo civile ciascuna parte, colla bontà delle sue ragioni e colla abilità con cui sa farle intendere, può essere l’artefice della propria vittoria (faber est suae quisque fortunae [14].

Non posso, allora, non riproporre qui il tema del liberalismo processuale, che investe i rapporti non solo tra parti e giudice nel processo civile, ma anche, in una più ampia visione, quelli tra cittadino e Stato, o tra privato e pubblico.

L’idea che il processo civile debba esser regolato sulla base di principi liberali non sembra più sostenuto ad alcuno, salve rare eccezioni; che le parti debbano avere la disponibilità del processo e lo Stato sia tenuto a rendere giustizia entro i limiti tracciati dalle parti, e nel rispetto dei classici principi della domanda, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e dispositivo, sembra ormai teoria relegata sullo sfondo.

Al contrario, si ritiene oggi che tutto debba passare attraverso il potere discrezionale del giudice, si ritiene debba essere il giudice l’artefice delle norme processuali, e si ritiene altresì che oggetto del processo, in massima parte, non siano i diritti soggettivi dei litiganti ma la volontà oggettiva delle leggi.

In una logica di sbilanciamento dei rapporti che sempre si erano invece dati nella giustizia civile, le riforme degli ultimi venti anni hanno trasformato la natura del processo civile.

Già la riforma del ’90 (legge 353/1990), superando la novella del ’50 (legge 581/1950), reintroduceva le preclusioni, riscrivendo gli artt. 183 e 167 cpc per il primo grado, e l’art. 345 cpc per il grado di appello. Ulteriori restrizioni sono state quelle della soppressione del reclamo avverso le ordinanze istruttorie prima previsto dall’art. 178 cpc, l’istituzione del giudice monocratico in primo grado, con la soppressione delle garanzie del collegio, una nuova riscrittura dell’art. 167 cpc con la riforma del 2005, le restrizioni in punto di eccezione di incompetenza ex art. 38 a seguito della riforma del 2009, la riforma degli artt. 91 e 92 in punto di spese processuali, con l’introduzione del 3° comma dell’art. 96 cpc volto a sanzionare l’abuso del processo.

Nel 1999 viene introdotto nel codice di procedura civile il capo terzo bis, ovvero gli artt. 281 bis e ss., ed in particolare l’art. 281 sexies cpc. Quest’ultima disposizione, come è noto, consente la chiusura del processo in forma semplificata, senza che gli avvocati possano redigere le consuete comparse conclusionali e di replica.

Si è provveduto poi a ridurre tutti i termini processuali, con modifiche degli artt. 50, 305, 307, 327 cpc, come se la riduzione dei termini processuali potesse essere momento di riduzione dei tempi del processo, o di riduzione del lavoro del giudice.

In particolare è stato ridotto il termine lungo per impugnare, e addirittura oggi si pensa ad una riforma che annulli del tutto i termini lunghi, e lasci solo quelli brevi dopo la comunicazione integrale del provvedimento da parte della cancelleria via Pec.

Nel 2009 si è introdotto per la prima volta il processo sommario di cui all’art. 702 bis e ss. cpc, nel quale il giudice «procede nel modo che ritiene più opportuno» e chiude il procedimento con ordinanza.

Nel 2010 è stato approvato il decreto legislativo sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, che oggi, in forza dell’art. 5, 2° comma d.lgs 28/2010, consente al giudice di mandare in mediazione le parti contro la loro volontà in ogni controversia, con uno strumento che può essere utilizzato anche solo per rinviare la discussione di merito e/o la decisione della controversia.

Nel 2012 è stato riformato il giudizio di appello, con la riscrittura dell’art. 342 cpc e l’introduzione degli artt. 348 bis e ter cpc, e sempre nel 2012 è stato escluso il controllo in cassazione sulla motivazione con la riscrittura dell’art. 360 n. 5 cpc; infine nel 2016 si è (sostanzialmente) proceduto all’abolizione dell’udienza pubblica in cassazione.

Ho già detto che, a questo punto, forse vi è una sola riforma da fare, ed è quella di tornare indietro, tornare al passato.

In ogni caso va riaffermato che il processo civile serve per l’attuazione dei diritti soggettivi delle parti, non altro, e che tutto ciò deve avvenire sì con regole predeterminate, ma in seno a principi di libertà.

7. Sesta conferenza: gratuito patrocinio e patrocinio a spese dello Stato, meccanismi da rimeditare

Nella sesta ed ultima conferenza Piero Calamandrei avverte l’uditorio su un punto: che non può esservi nel processo perfetta eguaglianza tra le parti se il sistema non si preoccupa di assicurare anche ai meno abbienti i mezzi economici di cui dispongono gli abbienti.

Calamandrei, in questa lezione, si occupa «dell’eguaglianza economica delle parti nel processo» del «diritto ad avere un difensore» del «problema della difesa del povero» ed infine del «patrocinio gratuito».

Sostiene che bisogna «studiare un sistema di difesa gratuita che permetta al litigante povero di scegliersi senza sua spesa un patrocinatore di fiducia tra gli avvocati migliori, così come può fare a sue spese il litigante più ricco» [15].

All’epoca era ancora in vigore il vecchio regio decreto sul patrocinio gratuito, che assicurava al povero la difesa senza alcuna retribuzione del difensore. Calamandrei anticipa i tempi, e già in quella conferenza propone un sistema di patrocinio a spese dello Stato: «Io penso che, fino a quando l’avvocatura rimarrà regolata come una libera professione, il sistema ideale per provvedere alla difesa dei poveri è quello di garantire al povero la possibilità di scegliersi l’avvocato che vuole, colla differenza che la retribuzione al professionista di fiducia, invece di esser pagata dal cliente, viene corrisposta dallo Stato».

Questo l’ideale da perseguire, però Calamandrei aggiunge: «Ma questo sistema potrebbe dar frutti soddisfacenti solo dove l’avvocatura non fosse afflitta da un inquietante eccesso numerico di professionisti disoccupati, da una specie di proletariato forense in cerca di cause, per il quale questo sistema diventerebbe una istigazione all’accaparramento di clienti poveri ed una speculazione alimentatrice di litigi» [16].   

Dunque, bene che i poveri possano avere un difensore a spese dello Stato, a condizione però che l’avvocatura non sia afflitta da un numero eccessivo di professionisti, poiché altrimenti il meccanismo è in grado di moltiplicare contenzioso inutile e bagatellare, e comportare spese eccessive e ingiustificate allo Stato.

Non v’è bisogno di sottolineare come anche queste riflessioni siano di fortissima attualità.

Quando il nostro legislatore decise di passare dal gratuito patrocinio al patrocinio a spese dello Stato, tutta la dottrina, ed io compreso, salutò con ampio favore il passaggio, sottolineando come lo stesso fosse perfettamente coerente con l’art. 3, 2° comma Cost., oltre che con l’art. 24, 3° comma Cost., visto che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli economici e sociali che di fatto impediscono la piena eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Oggi, però, non riesco a fare a meno di rimarcare il difetto che un tale sistema ha, così come già ebbe a sottolineare lo stesso Piero Calamandrei nel lontano 1952.

È un sistema che non può funzionare ove si sia in presenza di un numero eccessivo di avvocati.

È infatti inevitabile che il patrocinio a spese dello Stato faccia aumentare a dismisura il contenzioso in un contesto del genere, poiché par evidente che gli avvocati che non abbiano clientela abbiente tendono a lavorare con clienti non abbienti quali unici soggetti che possono assicurare loro un reddito.

Se si abolisse il patrocinio a spese dello Stato, e si ripristinasse il gratuito patrocinio esistente fino al 2003, il sistema avrebbe il doppio vantaggio di ridurre fortemente il contenzioso e di ridurre fortemente le spese di giustizia.   

Nel contemperamento di più interessi, il ritorno al gratuito patrocinio non potrebbe considerarsi in contrasto con la Costituzione, fermo il dovere di assicurare ai non abbienti, come in precedenza, l’assistenza legale per ogni pratica.

L’assistenza tornerebbe ad essere prestata dall’avvocato in modo gratuito e obbligatorio; stante l’alto numero di avvocati in Italia, e facendo una rotazione delle controversie, questo meccanismo non graverebbe eccessivamente il singolo avvocato, e attribuirebbe all’avvocatura un ruolo sociale al quale gli avvocati non possono non tenere.

Tutto il sistema giustizia avrebbe il vantaggio di una riduzione del contenzioso, poiché, a questo punto, non vi sarebbe più quella che Calamandrei definiva «una istigazione all’accaparramento di clienti poveri ed una speculazione alimentatrice di litigi», e avremmo il vantaggio di un forte risparmio di denari, che lo Stato avrebbe però il dovere, in egual misura, di investire nella giustizia.

Potrebbe lo Stato, in questo modo, aver nuove risorse per fare, forse per la prima volta dopo tanti anni, reali e concreti investimenti sulla giustizia, a vantaggio di tutti.

* Relazione tenuta all’Università di Siena il 5 ottobre 2017 in seno ad un convegno dal titolo: “Processo e democrazia. Le lezioni messicane di Piero Calamandrei”.

 


[1] F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile, ESI, 2009, nella prefazione, pag. 13.

[2] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., pp. 24, 26, 28.

[3] P. Calamandrei, Abolizione del processo civile?, Riv. dir. proc.,1938, p. 336.

[4] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 133.

[5] P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, Riv. dir. proc. 1939, p. 105

[6] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., pp. 58, 61, 63.

[7] Vds. infatti La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, p. 1958.

[8] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 70.

[9] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., pp. 83, 84, 89.

[10] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., pp. 95, 98.

[11] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 118.

[12] P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, Riv. dir. proc., 1939, p. 22.

[13] P. Calamandrei, Un maestro di liberalismo processuale, Riv. dir. proc., 1951, I, pp. 1 ss.

[14] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 127.

[15] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 157.

[16] P. Calamandrei, Processo e democrazia, cit., p. 159.

26/01/2018
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