Magistratura democratica
Cronache fuori dal Consiglio

Articolo 2. Perché SÌ nell’interesse della giustizia e quindi di tutti i magistrati

di Edmondo Bruti Liberati
già procuratore della Repubblica del Tribunale di Milano
Il trasferimento d’ufficio ex articolo 2 legge sulle Guarentigie della magistratura è un istituto controverso e da disciplinare con cura. Ma è uno strumento essenziale in mano al Csm per rimuovere d’urgenza situazioni che minano la fiducia dei cittadini nella giustizia

«Il rigore dei comportamenti richiesti ai magistrati e la verifica delle situazioni locali ove incidono le attività giudiziarie degli stessi sono più severi che per qualunque altra categoria di soggetti titolari di pubbliche funzioni. Ciò costituisce il riflesso simmetrico dello status di indipendenza garantita e rafforzata loro riconosciuto dalla Costituzione; senza questo equilibrio tra tutela dei magistrati e tutela della giurisdizione in senso oggettivo, le stesse garanzie oggettive perdono significato e sfumano in privilegi inammissibili in un ordinamento democratico. Ai magistrati si chiede di più che a tutti gli altri soggetti investiti di funzioni o cariche pubbliche, burocratiche o elettive, perché essi sono svincolati da ogni forma di eterocontrollo, a salvaguardia dell’indipendenza del loro operare»[1].

Il trasferimento d’ufficio ex articolo 2 legge sulle Guarentigie è sempre stato istituto controverso, sia nella disciplina originaria che in quella risultante dalle modifiche introdotte con la “riforma Castelli” del 2006. Il dibattito si è ravvivato a seguito della proposta elaborata dalla “Commissione Vietti”.

Un passo indietro. Nel primo periodo di attività del Csm fu prevalente un’ostilità verso l’utilizzo dell’art. 2 che vedeva uniti, per ragioni molto diverse, settori della magistratura conservatrice e di quella progressista. I primi, anche a seguito di alcune iniziative di inchieste sull’operato di capi di ufficio promosse nella consiliatura 1968-1972, legati ad una rigida concezione gerarchica temevano che le iniziative del Csm (e in quello del 1968 a dispetto del sistema elettorale, per la prima volta erano rappresentate tutte le correnti) limitasse il potere dei capi di ufficio. I secondi (in particolare dopo la esperienza del consiglio eletto del 1972 che videro il sistema maggioritario funzionare appieno assicurando alla corrente conservatrice con il 40% dei voti tredici seggi su quattordici) temevano che lo strumento potesse essere usato come controllo del dissenso.

Dopo due decenni di sostanziale inapplicazione, nella consiliatura 1981-1986, a seguito di un ampio e approfondito dibattito interno, il Csm rivitalizzò la procedura ex articolo 2 approvando con larga maggioranza decisioni di trasferimento in vicende che avevano avuto grande risonanza pubblica (basti citare i casi del procuratore di Roma De Matteo e dei magistrati iscritti alla loggia P2). É interessante segnalare che la maggioranza delle procedure aperte in quella consiliatura riguardava magistrati che ricoprivano incarichi direttivi o semidirettivi ed in particolare la funzione di procuratore della Repubblica[2].

Del dibattito che si svolse in quel Csm sull’articolo 2 è testimone il parere espresso il 19 settembre 1984 al ddl governativo in tema di «Responsabilità disciplinare ed incompatibilità ambientale»[3]. Nel parere, con riferimento ai due principali rilievi critici, si richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale che della nozione di «prestigio dell’ordine giudiziario» aveva offerto una lettura aggiornata come «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa» (sentenza n. 100/1981) e le garanzie di contraddittorio introdotte già nella consiliatura 1976/1981 e ulteriormente sviluppate[4].

La successiva evoluzione ha visto il Csm affinare progressivamente la procedura (vedi la delibera 17 luglio 1991) con comunicazione dell’apertura del procedimento, audizione con assistenza di altro magistrato, deposito degli atti con un complesso di garanzie procedurali ormai del tutto sovrapponibili a quelle del procedimento disciplinare.

Agli inizi degli anni ’90 l’attenzione sull’articolo 2 è riproposta dal presidente Cossiga al culmine del conflitto con il Csm. Il Messaggio alle Camere del 26 luglio 1990 dedica l’intero punto II all’art. 2 giungendo a prospettarne la soppressione. Con dPR nella stessa data Cossiga istituisce la «Commissione di studio sul Csm», presieduta dal prof. Paladin, in una prospettiva fortemente critica verso il Csm: basti riportare il comma 2 dell’articolo 2 (Compiti) «La Commissione, attraverso l’analisi dell’attività compiuta dal Consiglio superiore della magistratura, accerta quali attribuzioni e attività il Consiglio abbia esercitato, individuando sulla base di quali norme e principi generali, consuetudinari o prassi interpretative o modificative». Il tono più che da “Commissione di Studio” è da “Commissione di Inchiesta”[5]. Le proposte di riforma contenute nella Relazione Paladin, che tendevano a ricondurre il trasferimento d’ufficio nell’ambito del sistema disciplinare, non ebbero alcun seguito.

Per un intervento di modifica dell’articolo 2 occorrerà arrivare alla “riforma Castelli”, che peraltro, occorre ricordarlo, si muove non con intenti garantistici, ma nella linea di un depotenziamento del Csm a favore di ministro e procuratore generale della Cassazione; esattamente la stessa linea che aveva ispirato gli interventi del presidente Cossiga.

A seguito della modifica introdotta con l’articolo 26 del d.lgs n. 109/2006 il presupposto per il trasferimento è così stabilito: «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le loro funzioni con piena indipendenza e imparzialità».

Il nuovo articolo 2 opera dunque solo con riferimento a fatti “incolpevoli” ed inoltre la nozione di «prestigio dell’ordine giudiziario» è stata sostituita da quella di «piena indipendenza ed imparzialità».

L’esperienza applicativa ha mostrato la estrema difficoltà di definire cosa si deve intendere per “colpa” in questa procedura amministrativa[6].

In un sistema disciplinare caratterizzato da una rigida tipizzazione (e dalla mancanza di clausole di chiusura) vi sono casi di evidente incompatibilità ambientale, determinata dal concorrere di situazioni non ascrivibili al magistrato e di condotte (colpose o dolose) del magistrato, che non rientrano in fattispecie disciplinari.

Già prima della “riforma Castelli”, Silvestri aveva nitidamente posto la questione: «Dai fatti che vengono all’esame del Consiglio superiore in occasione di un procedimento ex art. 2 legge guarentigie, si può dedurre una incompatibilità senza colpa, una incompatibilità ed una colpa, una colpa senza incompatibilità. Nel primo e nel secondo caso rileva soltanto la incompatibilità, mentre la eventuale colpa disciplinare sarà accertata separatamente; nel terzo caso nessun effetto sulla permanenza nella sede spiega l’esistenza di una responsabilità disciplinare accertata, a meno che il giudice disciplinare non ritenga di adottare il trasferimento come sanzione accessoria, nei casi consentiti dalla legge. […] Poiché si tratta di rimuovere una situazione oggettiva di malessere della giurisdizione, indipendente da una colpa accertata del magistrato coinvolto, la rigorosa tipizzazione (necessaria invece in sede disciplinare) non è indispensabile e neppure utile, per la infinita varietà dei casi che si possono presentare, nei quali si intrecciano elementi riconducibili a comportamenti del magistrato ed elementi esterni da lui non dipendenti»[7].

Sul filo di queste ultime riserve sulla tipizzazione dei casi di incompatibilità ambientale vi è da riconsiderare se il riferimento alla «piena indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle funzioni» sia preferibile al «prestigio dell’ordine giudiziario», ovviamente declinato, secondo la lettura della Corte costituzionale, come «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

È stato osservato che «La valutazione della deficienza del requisito della indipendenza ed imparzialità va dunque colto secondo un comune apprezzamento esterno in relazione al quale il magistrato non fornisca più garanzie in termini di una resa di giustizia che possa anche solo apparire indipendente e/o imparziale e che possa essere riferita o a condizioni di sede (ufficio giudiziario o circondario da valutare caso per caso a seconda delle situazioni che hanno determinato la crisi) o di funzione»[8]. Ma vi è da chiedersi se non vi siano casi, non inquadrabili neppure in questa lettura “estensiva” della nozione di «piena indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle funzioni», ma che pur sempre integrano il venir meno della «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

Quanto poi alla pratica applicazione dell’istituto nel corso degli anni, si deve rilevare, da un lato, che i casi veramente controversi sono stati pochissimi (senz’altro di più i casi in cui il Csm è stato criticato per non avere attivato la procedura ex articolo 2) e, dall’altro, che il numero complessivo di procedure aperte per articolo 2 è stato piuttosto ridotto. Il confronto con la più “garantita” procedura disciplinare, anche nella versione della tipizzazione post 2006, non credo si risolva a favore di quest’ultima. Penso alle ben fondate critiche sulle iniziative disciplinari e anche sulla giurisprudenza in tema di ritardi nel deposito di provvedimenti. Penso alla superfetazione della iniziativa disciplinare della Procura generale, che vede un insuccesso in giudizio delle ipotesi di accusa con percentuali che se riguardassero l’esercizio della azione penale di una Procura condurrebbero a giudizi severi sulla gestione di quell’ufficio.

È significativo che, a fronte delle gravi difficoltà operative riscontrate dal Csm nella applicazione del nuovo articolo 2, la Commissione Vietti, dopo approfondito dibattito, sia giunta alla conclusione di proporre una modifica, che sostanzialmente conduce al ripristino del testo originario.

Si riporta di seguito la motivazione (p. 25 della Relazione conclusiva):

«Trasferimento d’ufficio

L’esperienza di questi anni ha evidenziato come la ripartizione adottata nel 2006 tra procedura amministrativa di incompatibilità ambientale, sostanzialmente incolpevole e il procedimento disciplinare cautelare, evidentemente colpevole, non abbia funzionato. Tale separazione per i tempi della procedura cautelare, pienamente garantita, ha fatto sì che in troppi casi il C.S.M. non dispone di strumenti di intervento urgente a tutela degli uffici giudiziari e della stessa immagine e credibilità della giurisdizione. Da ciò la necessità di fornirlo. Viene pertanto eliminata la restrizione ai casi incolpevoli. Viene garantito il pieno contradditorio e, oltre al trasferimento, viene prevista la possibilità di una applicazione di ufficio, come tale temporanea, per tutti i casi in cui la situazione di incompatibilità si possa prevedere come limitata nel tempo. Viene previsto un termine perentorio di tre mesi dall’apertura della procedura entro cui il C.S.M. deve pronunciarsi. Ciò a conferma della natura urgente e cautelare dell’intervento. Viene previsto esplicitamente che l’apertura di un procedimento disciplinare con richiesta cautelare sospenda la procedura, che potrà riprendere il suo corso in caso di definizione dello stesso».

Nel testo di modifica proposto la situazione che può condurre al trasferimento di ufficio è indicata nei termini che seguono:

«quando, per qualsiasi causa (...), non possono nella sede che occupano, amministrare la giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell'ordine giudiziario.».

Si noti la riproposizione della nozione di prestigio dell’ordine giudiziario in luogo del riferimento alla «piena indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle funzioni». Per le ragioni sopra accennate mi sembra da condividere l’abbandono del riferimento alla “indipendenza ed imparzialità”, in favore peraltro, non della ambigua nozione di “prestigio dell’ordine” giudiziario, ma della rilettura che ne ebbe a dare la Corte costituzionale come «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

Il Csm, nella seduta del 13 settembre 2016, ha adottato la «Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per il progetto di riforma dell’Ordinamento giudiziario». Si riporta di seguito la parte relativa al trasferimento di ufficio:

«2.12 Trasferimento d'ufficio

2.12.1 In ordine alla materia del conferimento del trasferimento d’ufficio dei magistrati disciplinato dall’art. 2 R.D. n. 511 del 1946 propone alcune rilevanti innovazioni. 

La principale, in un tema da anni oggetto di approfondite riflessioni e di dibattito articolato, è l’eliminazione della limitazione dell’intervento del C.S.M. ai casi in cui la causa che impedisca al magistrato di svolgere le sue funzioni con piena indipendenza ed imparzialità sia indipendente da colpa.

La proposta prevede la necessità dell’audizione dell’interessato, la possibilità del C.S.M. di utilizzare lo strumento dell’applicazione del magistrato ad altro ufficio per rimediare a situazioni solo transitorie di incompatibilità. Stabilisce il termine di tre mesi per la definizione della procedura, pena l’estinzione, e la sua sospensione nel caso in cui penda procedimento disciplinare cautelare per gli stessi fatti.

2.12.2 La materia costituisce un tema di estremo rilievo, con riferimento all’ambito ed all’estensione dei poteri del Consiglio superiore della magistratura, interpellando da un lato l’effettività delle prerogative amministrative di governo autonomo della magistratura sancite dall’art. 105 della Costituzione a tutela della funzionalità degli uffici giudiziari – sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza della loro azione –, e, dall’altro, il principio di inamovibilità dei magistrati codificato nella Carta costituzionale all’art. 107. 

Sinteticamente, deve darsi atto che la disciplina in questione è già stata oggetto di interventi modificativi di normativa primaria e di numerose prese di posizione interpretative del Consiglio superiore. Tali vicende sono ricostruite in maniera completa nel parere reso ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195, sul testo del disegno di legge in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati e di trasferimento di ufficio – (n. 112) Senato della Repubblica XVII legislatura), approvato con delibera del 6 marzo 2014. Detto parere si pronunciava su un disegno di legge di segno opposto, teso cioè a limitare l’intervento officioso del Consiglio superiore ai sensi dell’art. 2 r.d. 511 del 1946 ai soli casi in cui potesse escludersi la ricorrenza di comportamenti volontari. In quella sede il Consiglio aveva denunciato che L’esclusione dal novero delle evenienze che giustificano l’intervento del Consiglio superiore di tutte le situazioni riconducibili a comportamenti volontari dei magistrati realizzerebbe una formidabile limitazione dell’istituto, in quanto non consentirebbe di considerare gli effetti, sulla concreta funzionalità degli uffici giudiziari, anche solo con esclusivo riferimento al profilo obbiettivo della complessiva immagine di indipendenza ed imparzialità, di evenienze ricollegabili a condotte di magistrati che siano provviste del mero coefficiente della coscienza e volontà

Tale ridimensionamento dei poteri di ufficio del Consiglio priva, di fatto, l'autogoverno di strumenti incisivi di intervento proprio nelle situazioni più delicate e nelle “zone grigie” (caratterizzate dalla compresenza di comportamenti di diversa rilevanza), il cui permanere mina (o rischia di minare) la credibilità della giurisdizione… riguardando tutte le ipotesi non comprese nel catalogo delle fattispecie disciplinari e che, in quanto ascrivibili a condotta cosciente e volontaria del magistrato, non consentirebbero un intervento amministrativo, rimanendo prive di qualunque rimedio, pur a fronte di una concreta lesione dei valori dell’indipendenza ed imparzialità nello svolgimento della funzione giudiziaria».

La modifica proposta dalla Commissione ministeriale, al contrario, si muove nella direzione conforme alle istanze ed alle attese manifestate dal Consiglio superiore.

Sia consentito riproporre quanto scrivevamo nel 1998 sull’articolo 2. Dopo una rassegna delle prassi applicative, degli aspetti problematici e degli argomenti pro e contro, si concludeva: «Ma sarebbe pericoloso e, alla lunga controproducente privare il Consiglio dello strumento che maggiormente gli consente un controllo penetrante sui comportamenti dei magistrati e sulle situazioni locali ove incidono le attività giudiziarie degli stessi»[9]. Seguiva la citazione del passo di Gaetano Silvestri qui riportato in apertura.

Ed ancora oggi è questo il nodo ineludibile: «Ai magistrati si chiede di più che a tutti gli altri soggetti investiti di funzioni o cariche pubbliche, burocratiche o elettive, perché essi sono svincolati da ogni forma di eterocontrollo, a salvaguardia dell’indipendenza del loro operare»[10].



[1] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 157-158.

[2] Per una ampia documentazione al riguardo vedi Magistratura democratica, Cronache dal Csm, in Notiziario bimestrale di Md, n. 23-24, 1986, pp. 142 ss.

[3] Pubblicato come «I Quaderno della Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia», vedi in particolare pp. 55-68.

[4] Ivi p. 59.

[5] Sulla vicenda vedi in questa Rivista trimestrale (ed. F. Angeli), n. 2/1990 con il testo dei documenti citati, nonché E. Bruti Liberati. Il presidente della Repubblica, presidente del Csm da Pertini a Cossiga. Materiali per una riflessione, ivi pp. 434 ss. ed inoltre G. Borrè, Csm e Presidente, Il messaggio alle Camere del 26 luglio 1990, in questa Rivista trimestrale (ed. F. Angeli), n. 3, 1990 pp. 548 ss.

[6] Rinvio sul punto alla approfondita analisi di S. Erbani, Trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale e sistema disciplinare, in questa Rivista trimestrale (ed. F. Angeli), n. 2/2010, pp. 113 ss.).

[7] G. Silvestri, Giustizia e giudici, cit., pp. 156 e 157.

[8] S. Erbani, Trasferimento di ufficio, cit., p. 116.

[9] E. Bruti Liberati e L. Pepino, Autogoverno o controllo della magistratura? Il modello italiano di Consiglio superiore, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 159.

[10] G. Silvestri, Giustizia e giudici, cit., p. 158.

18/05/2017
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