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Art. 3 CEDU e risarcimento da inumana detenzione

di Pierpaolo Gori
giudice Tribunale di Milano
Se si interpreta il rimedio demandando al giudice civile un modesto risarcimento per equivalente ogni qual volta la condizione inumana di detenzione non è più attuale, verosimilmente si assisterà ad una limitata conversione degli oltre 3000 ricorsi oggi pendenti a Strasburgo
Art. 3 CEDU e risarcimento da inumana detenzione

"Il fine dunque, non è altro che d'impedire

il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini,

 e di rimuovere gli altri dal farne uguali"' 

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764 

 

1. La recente giurisprudenza della CEDU sull'Articolo 3 della Convenzione – 2. La sentenza Sulejmanovic - 3. La sentenza Torreggiani – 4. Il rimedio risarcitorio del decreto legge n.92/2014 – 5. La legittimazione attiva e l'autorità giudiziaria adita – 6. Forma e contenuto dell'istanza – 7. La duplice tutela accordata e questioni di diritto intertemporale – 8. Dubbi interpretativi: la prescrizione – 9. Criticità: la mancata concentrazione della tutela… – 10. …e la misura del ristoro per equivalente – 11. Conclusioni provvisorie.

 

1. La Corte EDU ha da sempre svolto un funzione di presidio dei diritti dei detenuti, ed anzi questo costituisce uno dei filoni più articolati della giurisprudenza di Strasburgo. Infatti, è un principio fermo nella giurisprudenza della Corte che, in linea di principio, la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla CEDU[1]. In questo contesto, di recente nei confronti dell'Italia ha svolto un ruolo del tutto eccezionale la giurisprudenza della Corte EDU in applicazione dell'Articolo 3 della Convenzione, per il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Si tratta di diritti umani che fondano la nostra società, non a caso l'Articolo è rubricato “proibizione della tortura” e, come ha scritto Cesare Beccaria già 250 anni fa, questo principio vale in primo luogo per i detenuti[2]. Per evitare la violazione dell'Articolo 3 che, con il diritto alla vita protetto dall'Articolo 2, è un diritto assoluto e non ammette eccezioni, secondo la Corte EDU non è sufficiente il divieto negativo di tortura o di trattamento inumano o degradante, dal momento che la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione, e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. 

In questo contesto, l’Articolo 3 pone a carico delle autorità delle precise obbligazioni positive, che consistono nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto, né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente[3].

Il sovraffollamento grave nelle celle, è da tempo una delle doglianze più frequentemente sollevate dai detenuti in molti degli Stati membri del Consiglio d'Europa, che determinano consistenti dichiarazioni di violazione dell’Articolo 3 della Convenzione. Lo spazio ritenuto auspicabile secondo il Committee for Prevention of Torture del Consiglio d'Europa, come sottolineato nei suoi periodici rapporti generali, per le celle individuali (di P.G.) è di 7 mq per persona e per quelle collettive di 4 mq per persona, ma la Corte ha ritenuto la violazione normalmente in casi di sovraffollamento in cui lo spazio personale concesso ad un detenuto in cella collettiva è inferiore a 3 mq, seppure di regola non in modo automatico. In particolare, i Giudici di Strasburgo hanno preso in considerazione altri elementi concorrenti all'assenza di spazi adeguati, per valutare se il trattamento è in concreto inumano o degradante. Ad esempio, parametri concorrenti sono un accesso insufficiente alla luce e all’aria naturali, le condizioni igieniche precarie, il calore eccessivo associato a mancanza di ventilazione, il rischio concreto di propagazione di malattie, l’assenza di acqua potabile o corrente, la condivisione dei letti da parte dei detenuti, la passeggiata di brevissima durata – una o due ore al giorno –, il fatto che i servizi igienici si trovano nella cella e sono visibili, l’assenza di cure adeguate per le patologie di un ricorrente[4].

2.  E' tuttavia con la sentenza del 16 luglio 2009 Sulejmanovic che la Corte afferma nettamente nei confronti dell'Italia che l'assenza di un seppur ridottissimo spazio personale è considerato, di per sé, un trattamento inumano o degradante. La pronuncia trae nome da un detenuto originario della Bosnia Erzegovina ristretto nel 2003 presso il carcere di Rebibbia. Nel luglio di quell'anno sono risultate recluse nella struttura 1.560 persone a fronte di una capienza prevista di 1.188 posti, ed il ricorrente è stato assegnato a diverse celle della superficie di 16,20 mq ciascuna, con incorporato un servizio igienico di 5,04 mq. Benché queste celle siano state predisposte per due detenuti, il ricorrente ha diviso le celle, dapprima con altre cinque persone, disponendo quindi di una superficie media di 2,70 mq per circa 2 mesi e mezzo, e poi per circa 6 mesi con  fino a quattro persone, per una superficie media di 3,40 mq a persona. Inoltre, ha dedotto di essere rimasto chiuso in cella diciotto ore e mezza al giorno, oltre all’ora destinata al consumo dei pasti e, quindi, di aver potuto lasciare la cella per quattro ore e mezza al giorno. Infine, per due volte ha domandato, invano, di lavorare in carcere e, secondo statistiche ufficiali, soltanto il 24,20% dei detenuti è stato autorizzato nel periodo a lavorare in carcere[5].

La violazione dell'Articolo 3, sotto il profilo del trattamento inumano e degradante è stata dichiarata per il primo profilo lamentato, ossia la superficie media disponibile nella cella inferiore a 3 mq protrattasi per un periodo di circa 2 mesi e mezzo, e la soddisfazione equitativa accordata dalla Corte ai sensi dell'Articolo 41 della Convenzione per tale violazione è stata pari ad euro 1.000,00.

L'importanza della sentenza per la giurisprudenza interna può essere colta nell’ordinanza del 9 giugno 2011 con cui il Magistrato di Sorveglianza di Lecce ha accolto il reclamo di un detenuto per condizioni detentive inumane a causa dell’elevato sovraffollamento nel carcere di Lecce[6] e, su richiesta dell'interessato, pur in assenza di specifica disposizione di legge, ha indennizzato il danno non patrimoniale, definito “danno esistenziale” derivante dalla detenzione, in complessivi euro 220,00. L’importo è stato calcolato commisurando la situazione concreta e la durata della lesione con quella, più grave, decisa dalla Corte EDU nella sentenza Sulejmanovic[7]. Nondimeno la S.C. si è assestata in seguito su di una posizione più prudente, affermando che il Magistrato di Sorveglianza, adito in sede di reclamo giurisdizionalizzato ex artt. 14-ter, 35 e 69 O.P. ha solo il potere di impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei detenuti, ma non anche quello di condannare l’Amministrazione Penitenziaria al risarcimento del danno da inumana detenzione per violazione dell’Articolo 3 della Convenzione, trattandosi di domanda devoluta al giudice civile[8].

3. Quando, l'8.1.2013  i giudici di Strasburgo dichiarano nella sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Italia[9] la lesione dell'Articolo 3 della Convenzione, accertano che la situazione del sovraffollamento carcerario nell’arco temporale 2010-12 è ormai un problema sistematico, con un numero di detenuti di 70.000,00 presenze ed un tasso nazionale di sovraffollamento superiore al 151%[10]. La nota pronuncia, originata dal ricorso di 7 detenuti presso le carceri di Piacenza e Busto Arsizio, condanna l'Italia alla soddisfazione equitativa, ossia ad indennizzare i ricorrenti per non aver assicurato a ciascuno dei ricorrenti neppure uno spazio minimo medio nelle celle di 3 mq, inferiore allo standard previsto dal CPT[11]. In precedenza, la lesione della Convenzione era già stata ritenuta attuale dal Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia cui si erano rivolti nel 2010 con successo quattro dei sette ricorrenti prima di adire la CEDU, sulla base dei parametri della sentenza Sulejmanovic c. Italia. Il magistrato aveva accolto i reclami ritenendo lo stato di detenzione in quelle condizioni  trattamento inumano ai sensi dell’Articolo 3 della Convenzione, e trasmesso gli atti al Ministero della Giustizia perché provvedesse  a risolvere il problema[12].

 Il pilot judgment Torreggiani è importante perché ha posto le condizioni per tentare di trovare una soluzione al problema ormai divenuto sistematico in Italia. Da un lato ha sospeso i processi analoghi pendenti avanti alla Corte[13] e, dall'altro, ha assegnato termine all'Italia di 12 mesi per provvedere ad “adottare un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, in conformità con i principi della Convenzione come interpretati dalla giurisprudenza della Corte”. La sentenza è divenuta definitiva il 27 maggio 2013 dopo il rigetto della richiesta del Governo italiano di impugnazione straordinaria e, da allora, è decorso il termine di 12 mesi assegnato.

Il Governo in questo lasso di tempo ha adottato rimedi ad efficacia immediata per evitare di ricorrere all'amnistia/indulto e, ad agosto 2014, i detenuti sono complessivamente scesi a 54.252 persone, rispetto ad una capienza regolamentare di 49.397[14]. Sotto questo aspetto, importanti effetti sono stati raggiunti, tra l’altro, con l’introduzione all’art. 35-bis O.P. di una forma di tutela “preventiva” contro la violazione dell’Articolo 3[15].

4. Poco dopo la scadenza dei termini assegnati con la sentenza pilota Torreggiani, è stato infine adottato il d.l. 26 giugno 2014 n.92. Il decreto, per la parte che qui interessa, ossia gli Articoli 1 e 2, non ha subito modifiche in sede di legge di conversione, la n. 117/2014 pubblicata nella G.U. Serie Generale n.192 del 20 agosto 2014,  entrata in vigore il giorno successivo alla pubblicazione, 21.8.2014.

In particolare, l'art. 1, recando modifiche alla legge sull'O.P., legge 26 luglio 1975, n. 354 ha introdotto, dopo l’art. 35-bis rubricato “Reclamo giurisdizionale”, l'art. 35-ter, così rubricato: “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’Articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”. La previsione di cui al primo comma contiene alcuni primi elementi importanti che connotano l’istituto[16].

5.  Innanzitutto, ai fini della legittimazione attiva a proporre la domanda risarcitoria, la legge parla esplicitamente di detenuti e, dunque, è estesa sia a quanti sono in esecuzione penale presso una casa di reclusione (c.d. definitivi) sia a coloro cui è stata applicata una misura cautelare personale detentiva. E' evidente che il riferimento in questo secondo caso è circoscritto alle persone che sono in stato di custodia cautelare in carcere presso una casa circondariale (c.d. non definitivi), essendo indifferenti al rimedio i detenuti agli arresti domiciliari. Per espressa previsione di legge, il reclamo può essere proposto anche dagli internati sottoposti all'esecuzione di misure di sicurezza detentive (colonia agricola, casa di lavoro, casa di cura e custodia, ospedale psichiatrico giudiziario).

L'autorità giudiziaria cui presentare l'istanza è poi individuata dalla legge alternativamente nel Magistrato di Sorveglianza competente in relazione alla struttura detentiva, oppure nel Tribunale civile competente in relazione alla residenza del detenuto, come specifica il 3 comma dell'art.35-ter O.P.[17]. Le prime applicazioni di questa disposizione hanno interpretato l’espressione “coloro che hanno subito il pregiudizio”, individuando il criterio distributivo nella esistenza di un pregiudizio “attuale e grave” della posizione soggettiva del detenuto od internato ai fini dell’art.69 comma 6° lettera b) O.P.[18], e non nel fatto che sia in corso o meno l’esecuzione della detenzione, o del titolo detentivo in costanza del quale è intervenuta l’inosservanza dell’Articolo 3 da parte dell’Amministrazione.  Secondo questa interpretazione dunque, solo se il detenuto sta attualmente subendo un trattamento inumano e degradante può utilmente ottenere tutela attraverso il reclamo.

6.  La forma dell'istanza è il reclamo giurisdizionalizzato se proposta davanti al Tribunale di Sorveglianza, e quella del ricorso con instaurazione del procedimento camerale ex art.737 cod. proc. civ. nel caso in cui sia venga avanzata davanti al giudice civile. In ogni caso, l'istanza non dev'essere necessariamente presentata da un difensore procuratore speciale, ma può essere presentata anche personalmente dal detenuto. 

Passando al contenuto dell'istanza, a pena di ammissibilità, devono essere dedotti, fin dall'atto iniziale del procedimento, tutti gli elementi di fatto posti a fondamento della pretesa, in quanto gli elementi per l'accoglimento della domanda nel merito sono requisiti di ammissibilità[19]. Nella disamina delle prime decisioni successive all'entrata in vigore del d.l., il Magistrato di Sorveglianza di Novara[20] ha condivisibilmente ritenuto non sufficienti generiche indicazioni, come ad es. l'inizio della detenzione e del passaggio da una struttura detentiva all'altra. Sono infatti necessari dettagli in merito alle specifiche condizioni di detenzione, che consentano l’eventuale applicazione del principio di non contestazione da parte dell’Amministrazione, che trova applicazione nella presente fattispecie civilistica e, comunque, una loro valutazione e verifica alla stregua dei parametri fissati nell'Articolo 3 della Convenzione come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU[21].

Quale diretta conseguenza dell’aver posto l’”attualità e gravità” della lesione a base della propria competenza in merito alla richiesta risarcitoria, il Magistrato di Sorveglianza di Vercelli[22] ha anche evidenziato che per l'accoglimento del reclamo, alla luce stessa dello strumento processuale scelto dal legislatore, l’interesse concreto ad agire dell’interessato ex art. 69 comma 6 lett. b) O.P.[23]deve sussistere tanto al momento del deposito dell'istanza quanto a quello della decisione, pena l'inammissibilità. Se il pregiudizio venisse meno nelle more della decisione, o per la fine della condizione detentiva o per una migliore organizzazione dell'Amministrazione Penitenziaria, in questa interpretazione il reclamo diverrebbe così inammissibile.

7. La tutela accordata dall’art. 35-ter O.P. al detenuto nei cui confronti sussista la violazione dell'Articolo 3 CEDU è un risarcimento di duplice natura, in forma specifica o per equivalente. La prima scelta del legislatore, sia per ragioni di equità condivise dalla giurisprudenza della Corte EDU[24] e sia per evidenti ragioni di risparmio, è quella del risarcimento in forma specifica. Se la lesione del diritto umano si è protratta per il periodo minimo di 15 giorni, il comma primo prevede che il Magistrato di Sorveglianza disponga la riduzione della pena ancora non scontata di un giorno per ogni dieci trascorsi in condizioni inumane o degradanti, e non ha luogo il risarcimento per equivalente.

Se però il periodo di pregiudizio è stato inferiore o se il periodo di pena residua non consente interamente la detrazione, il secondo comma prevede che il Magistrato di Sorveglianza  disponga per il residuo periodo il risarcimento per equivalente, pari ad 8,00 euro per ogni giorno trascorso subendo il pregiudizio accertato[25]

Il risarcimento per equivalente è invece l'unico rimedio esperibile avanti al giudice civile.

All'Articolo 2 1° comma del d.l. sono poi dettate specifiche previsioni di diritto intertemporale, ove è previsto che anche coloro che all'entrata in vigore del decreto hanno cessato di espiare la pena detentiva o non sono più in stato di custodia cautelare possono proporre  avanti al giudice civile, entro il termine di decadenza di 6 mesi, l’azione per il risarcimento del danno, a prescindere dal fatto che abbiano o meno già proposto ricorso alla Corte EDU[26].

8.  Notevoli sono i problemi interpretativi, ancora insoluti. E’ indubbio che il rimedio scelto dal legislatore sia di natura risarcitoria, e non semplicemente indennitaria, come si evince dalla specifica terminologia usata dal legislatore sin nel rubricare il nuovo Articolo 35-ter O.P., come pure dall'analisi sistematica. Ad esempio, secondo i principi generali in materia di responsabilità civile, il decreto prevede che il risarcimento avvenga ove possibile in forma specifica e non per equivalente. Non sembra si possa inoltre dubitare che si tratti di danno non patrimoniale, anche quando il risarcimento viene disposto dal Magistrato di Sorveglianza ai sensi del comma 2, non mutando la natura della fattispecie per effetto del giudice che accorda la tutela, né per il fatto che la fonte normativa dell’istituto è la legge penitenziaria.

Da questa qualificazione della tutela, discendono conseguenze importanti in termini di onere della prova e di prescrizione del diritto.  Sotto il profilo dell'esistenza stessa del diritto al risarcimento del danno, se la domanda risarcitoria civilistica si considera come di responsabilità extracontrattuale ex artt.2043 e 2059 cod. civ., allora la natura di illecito permanente della lesione, in cui l'illiceità del comportamento lesivo non si esaurisce in un unico atto[27], comporterebbe secondo logica che sarebbe prescritto il diritto al risarcimento del danno esistenziale maturato  per quelle giornate in cui la lesione è occorsa anteriormente ai 5 anni ex art.2947 cod. civ., a far data dalla proposizione della domanda avanti al giudice civile.

Più difficile è ricostruire la responsabilità come da “contatto sociale”, con conseguente  applicazione delle disposizioni della responsabilità contrattuale degli artt.1218 e 1173 cod. civ. ai fini dell'onere della prova e della prescrizione ordinaria decennale ex art.2946 cod. civ..

La costruzione non si discosta su di un piano logico dall’istituto delle “obbligazioni positive” regolarmente utilizzato dalla Corte EDU in riferimento all’Articolo 3. Tuttavia, applicando i principi giurisprudenziali in materia affermati dalla S.C., si deve ritenere che la responsabilità da “contatto sociale” non è configurabile in ogni ipotesi in cui taluno, in questo caso l'Amministrazione Penitenziaria, nell'eseguire un incarico conferitole da terzi, l'Autorità Giudiziaria Ordinaria, nuoccia al detenuto come conseguenza riflessa dell'attività così espletata, di organizzare ed eseguire l'espiazione della pena. Ciò sarebbe possibile soltanto quando il danno sia derivato da una precisa regola di condotta, imposta dalla legge allo specifico fine di tutelare i detenuti potenzialmente esposti ai rischi dell'attività svolta dal danneggiante[28]. Ci si deve quindi chiedere se e in che misura è possibile affermare che questa regola di condotta sia desumibile in modo sufficientemente preciso, non essendo possibile ricorrere direttamente all'Articolo 3 CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo stesso, non immediatamente applicabile secondo la Corte Costituzionale[29]. Inoltre, né l'Articolo 27 della Costituzione italiana come interpretato dalla Consulta, né una fonte primaria penitenziaria più dettagliata prevedono spazi minimi per la detenzione in linea con i parametri CEDU.

Una soluzione più solida è evidenziata dallo stesso parere tecnico del C.S.M. sul d.d.l. di conversione[30], che propone in alternativa l'applicazione dell’orientamento espresso da Cass. SS.UU. 2 ottobre 2012 n. 16783, in tema di irragionevole durata del processo, secondo il quale il termine di prescrizione inizierebbe a decorrere solo da quando è impedita la fattispecie decadenziale. Identiche ragioni valgono per il caso di specie, ad avviso di chi scrive, sia per la natura chiaramente di “legge speciale” della previsione dell'art.35-ter O.P., sia “per la lettura dell'art.2967 cod. civ. coerente con la rubrica dell'art.2964 cod. civ., che postula la decorrenza del termine di prescrizione solo allorché il compimento dell'atto o il riconoscimento del diritto disponibile abbia impedito il maturarsi della decadenza; inoltre, in tal senso  depone oltre all'incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto (…), nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l'operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte (…)”[31].

Gli auspicati chiarimenti in relazione alla prescrittibilità del diritto al risarcimento non sono pervenuti da parte del legislatore in sede di legge n.117/2014 e, dunque, la questione non potrà che essere risolta in sede di applicazione giurisdizionale delle nuove previsioni.

9.  Un rilevante problema applicativo è poi dato dai rischi derivanti dalla mancata concentrazione della tutela risarcitoria. Se l’applicazione giurisprudenziale del nuovo art. 35-ter O.P., pure fondata su importanti ragioni di interpretazione sistematica e di coordinamento del rimedio con l’art.69 6°comma lettera b) O.P. e discendenti anche dalla natura stessa del reclamo, individuerà in modo consistente nella “attualità” della lesione e non del titolo detentivo il criterio distributivo della competenza tra Magistrato di Sorveglianza e Tribunale civile, è probabile che venga fortemente circoscritta la vera innovazione normativa, costituita dall’introduzione del rimedio della riduzione della pena e dall’aver fornito per la prima volta al Magistrato di Sorveglianza un fondamento per risarcire il danno non patrimoniale da inumana detenzione. Solo nei limitati casi in cui non solo il titolo detentivo è ancora in esecuzione, ma anche l’inumana detenzione è ancora attuale, verrà decurtata proporzionalmente la pena.

In questo caso, per evitare la moltiplicazione dei ricorsi ed evitare aggravi eccessivi ai ricorrenti, che il legislatore ha voluto favorire consentendo loro di presentare la domanda risarcitoria personalmente, si potrebbe anche pensare a delle formule in sede di declaratoria di inammissibilità di traslatio iudicii in favore del giudice civile ritenuto competente, almeno nei casi in cui sia stata chiesta anche la tutela risarcitoria per equivalente. La Corte di Strasburgo ha infatti mostrato di essere particolarmente attenta all’accessibilità alla effettiva tutela giurisdizionale da parte dei detenuti, intesa non solo come possibilità di reclamare una decisione afflittiva dell’Amministrazione penitenziaria in conformità all’Articolo 6 CEDU[32], ma anche di ottenere un’effettiva tutela risarcitoria per gli inumani trattamenti subiti in sede di esecuzione della pena, in applicazione dell’Articolo 13 letto in connessione con l’Articolo 3 CEDU[33].

10. Spinosa, e connessa alla concentrazione della tutela, è anche la questione della misura del risarcimento del danno per equivalente. Una qualificazione residuale porta a ritenere che la fattispecie sia una sorta di “danno esistenziale”. Sicuramente non si tratta di un detrimento patrimoniale e, tra le voci di danno non patrimoniale espressamente previste dalla legge, non pare sia una fattispecie di danno biologico alla salute. E' un danno alla persona e alla sua capacità di relazionarsi e di essere trattato con dignità ed umanità, sia pure nell'ambito delle strutture detentive e dei vincoli che ne discendono. Se questo è però un “danno esistenziale”, e comunque quantomeno un danno non patrimoniale[34], fa riflettere la misura modesta del risarcimento.

Il legislatore ha previsto di risarcire il danno per un giorno di inumana detenzione con un valore rigidamente quantificato in 8,00 euro, molto più basso del primo punto di invalidità previsto per le micro-permanenti, ed aggiornato al 5 luglio 2014 in euro 795,91[35]. Non solo, come evidenziato già dai primi commentatori del d.l.[36], è un valore anche molto inferiore al tasso di conversione delle pene pecuniarie in sanzioni sostitutive  ex art. 102 l. 24 novembre 1981 n. 689, come interpretato dalla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 2012 n. 1, pari a 250,00 euro, ed è pure inferiore alla stessa liquidazione dell'indennizzo – e non risarcimento – operata dalla Corte EDU nel caso Torreggiani sulla base di un valore superiore a 20,00 euro al giorno. Sono tutti parametri che inducono ad interrogarsi sulla ragionevolezza della quantificazione operata dal legislatore, considerato anche che si tratta di danno alla persona in casi di accertata violazione dei diritti dell'uomo protetti dalla CEDU. Inoltre, per consolidato insegnamento giurisprudenziale, sia di quella parte della giurisprudenza che non ammette l'istituto del “danno esistenziale”[37] sia di quella che prescinde dalla denominazione della singola voce di danno alla persona[38], il risarcimento del danno non patrimoniale dev'essere oggetto di liquidazione non parziale, ma unitaria ed onnicomprensiva anche per evitare successive duplicazioni.

11.  In sede di conclusioni così provvisorie, data l’ancora incerta applicazione del rimedio dell’art.35-ter O.P., ci si limita ad evidenziare il rischio di lasciare insoluta una parte non trascurabile dei problemi[39] che hanno portato alla condanna Torreggiani. Se si interpreta il rimedio demandando al giudice civile un modesto risarcimento per equivalente ogni qual volta la condizione inumana di detenzione non è più attuale, verosimilmente si assisterà ad una limitata conversione degli oltre 3000 ricorsi oggi pendenti a Strasburgo per violazione dell’Articolo 3 CEDU e sospesi per effetto del pilot judgment della Corte dell’8.1.2013. In fondo, la risarcibilità del danno per equivalente da parte del giudice civile è già stata ammessa in passato dalla S.C.[40] e, paradossalmente, la quantificazione del danno non patrimoniale da risarcire prima della novella normativa che ha introdotto l’art.35-ter O.P. sarebbe stato ben più congruo. In effetti, si rischia che alla declaratoria di inammissibilità da parte del Magistrato di Sorveglianza segua, non tanto o non solo una massiccia riproposizione della domanda risarcitoria avanti al giudice civile, quanto il moltiplicarsi dei ricorsi a Strasburgo per ottenere un’effettiva tutela risarcitoria[41], e ciò potrebbe avere un peso considerevole quando nel giugno 2015 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dovrà esaminare l’effettiva esecuzione della Torreggiani. Di fatto, in assenza della concorrente - e prevalente - applicazione del rimedio del risarcimento in forma specifica attraverso la riduzione di pena ex art.35-ter O.P., la risposta potrebbe essere insufficiente a fronteggiare la potente domanda di giustizia liberata dalla Corte EDU, a meno di non voler fornire un ulteriore incentivo a non ricorrere a Strasburgo e ad accettare i tempi della giustizia civile, attraverso una più congrua quantificazione del risarcimento del danno per equivalente.



[1]   Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, sottoscritta a Roma, il 4 novembre 1950.

[2]   C. Beccaria, Dei Delitti e delle Pene, 1764.

[3]   Norbert Sikorski c. Polonia, No.17599/05, [C]  22 ottobre 2009, § 131.

[4]   Cfr. Aleksandr Makarov c. Russia, No. 15217/07, [C] 12 marzo 2009, § 94 e ss.. Interessante è poi l'opinione dissenziente del Giudice Zagrebelsky, annessa alla sentenza Sulejmanovic c. Italia, No.22635/03, [C] 16 luglio 2009, in cui il Giudice non condivide la posizione della maggioranza proprio perché l’assenza di spazio nella cella non può essere un criterio esclusivo per affermare la lesione dell’Articolo 3.

[5]   Cfr. §§ 9-13 sent. ult. cit.

[6]   L'ordinanza è stata pubblicata da diverse riviste ed è ancora reperibile on line sul sito http://www.ristretti.it. Il contenuto dell'ordinanza è, tra l'altro, riassunto nella sentenza Torreggiani al § 20 nei seguenti  termini: “Il giudice constatò che il ricorrente aveva condiviso con altre due persone una cella mal riscaldata e priva di acqua calda, che misurava 11,5 m² compreso il servizio igienico. Inoltre il letto occupato da A.S. era ad appena 50 cm dal soffitto. Il ricorrente era obbligato a trascorrere diciannove ore e mezza al giorno sul suo letto a causa della mancanza di uno spazio destinato alle attività sociali all’esterno della cella”.

[7]  Il Ministero della Giustizia ha impugnato per Cassazione l'ordinanza, lamentando l'incompetenza del Magistrato di Sorveglianza in materia di indennizzo dei detenuti, ma il ricorso è stato dichiarato inammissibile in quanto tardivo.

[8]   Cass. pen. 15 gennaio 2013 (dep. 30 gennaio 2013) n.4772.

[9]   Torreggiani ed altri c. Italia, No. 43517/09, [C] 8 gennaio 2013.

[10]  Cfr. § 23 sent. ult. cit..

[11]  Tre dei ricorrenti sono stati detenuti nel carcere di Busto Arsizio, e ognuno di loro ha occupato una cella di 9 m² con altre due persone, disponendo quindi di uno spazio personale di 3 m². I ricorrenti hanno sostenuto inoltre che l’accesso alla doccia nel carcere era limitato a causa della penuria di acqua calda nell’istituto penitenziario. Gli altri quattro ricorrenti sono stati ristretti nel carcere di Piacenza, e ciascuno ha occupato delle celle di 9 m² con altri due detenuti. Ha inoltre denunciato che nell’istituto penitenziario sarebbe loro mancata l’acqua calda, il che per svariati mesi avrebbe impedito loro di far regolarmente uso della doccia, e che nelle celle non vi sarebbe stata luce sufficiente a causa delle sbarre metalliche apposte alle finestre. Cfr. §§ 8, 10 e 13 della sent. ult. cit..

[12]   Il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha accolto i reclami con ordinanze del 16, 20 e 24 agosto 2010, osservando che gli interessati avevano occupato delle celle che erano state concepite per un solo detenuto e che, a causa della situazione di sovraffollamento nel carcere di Piacenza, ciascuna cella aveva accolto tre persone. Il magistrato ha constatato che la quasi totalità delle celle dell’istituto penitenziario ha una superficie di 9 m² e che nel corso dell’anno 2010, l’istituto ha ospitato tra le 411 e le 415 persone, mentre è previsto che possa accogliere 178 detenuti, per una capienza tollerabile di 376 persone. cfr. §§ 13-15 sent. ult. cit..

[13] Nel 2014 sono ormai oltre 3.000 i ricorsi pendenti a Strasburgo per violazione dell'Articolo 3 sulla condizione detentiva, per una media di 540 giorni di violazione fonte, come si evince dalle statistiche CEDU disponibili sul sito www.echr.coe.int.

[14] Di costoro, 9.252 sono in attesa di primo giudizio e 7.917 condannati non definitivi. La fonte è il Ministero della Giustizia, e i dati aggiornati al 31 agosto 2014 sono reperibili sul sito www.giustizia.it.

[15] Questo risultato è stato ottenuto attraverso misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria introdotte con il d.l. 23 dicembre 2013 n.146, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2014, n. 10, pubblicata in G.U. del 21 febbraio 2014, n. 43. Oltre all'incentivo delle misure alternative previste dal decreto, ad es. di potenziamento dell’affidamento in prova ai servizi sociali, e all’estensione della liberazione anticipata, sono stati adottati anche rimedi “preventivi”: ove il Magistrato di Sorveglianza abbia accertato l’attualità del pregiudizio, ordina all’Amministrazione di porre rimedio entro un certo termine. Questo ha tra l’altro consentito all’Italia di ottenere dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa un primo riconoscimento dei progressi ottenuti, ed un riesame dei progressi effettuati nel giugno 2015. La legge delega 28 aprile 2014 n.67 ha poi previsto tra le linee guida il potenziamento della detenzione non carceraria.

[16] 1.Quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’Articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fonda-mentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio.”.

[17] “3. Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è liquidato nella misura prevista dal comma 2.”.

[18]  Magistrato di Sorveglianza di Vercelli, Est. Fiorentin, ord. 24 settembre 2014.

[19] Sul versante penale, l’art. 666, comma 2, c.p.p., prevede che l’istanza è inammissibile se manifestamente infondata “per difetto delle condizioni di legge”, pacificamente comprensive non solo dei requisiti formali e processuali necessari per procedere all’esame del merito, ma anche delle deduzioni minime per consentire di valutare se la domanda è fondata. Non dissimili sono le regole che presiedono il ricorso civile, ai fini degli artt.737 e ss. cod. proc. civ., in quanto il sistema non prevede che l'onere di allegazione possa essere colmato dal giudice d’ufficio. Per quanto il giudice possa assumere informazioni ex art.738 3°comma cod.proc. civ., questo è ammissibile solo in presenza di adeguata allegazione dell’istante.

[20] Magistrato di Sorveglianza di Novara, Est. Cali, ord. 22 settembre 2014.

[21] Sotto questo profilo pare fuorviante l’uso di modellini standardizzati che prevedano alternativamente la richiesta della riduzione della pena detentiva da espiare oppure la somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, corredate da una mera indicazione stereotipata di espressioni come “spazio abitabile in cella inferiore a 3mq”, “periodo della giornata trascorso fuori cella inferiore a 5 ore”, “mancata assegnazione ad attività lavorative”, in assenza di circostanziate allegazioni specifiche.

[22] Magistrato di Sorveglianza di Vercelli, Est. Fiorentin, ord. 24 settembre 2014, cit..

[23] Si tratta de “l'inosservanza da parte dell'amministrazione  di  disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un  attuale  e  grave  pregiudizio all'esercizio dei diritti.”.

[24] Ananyev e altri c. Russia, Nos. 42525/07 e 60800/08, [C] 10 gennaio 2012, § 222.

[25] “2. Quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’Articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni.”.

[26]Articolo 2. (Disposizioni transitorie)  1. Coloro che, alla data di entrata in vigore del presente decreto- legge, hanno cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere, possono proporre l’azione di cui all’articolo 35-ter, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354, entro il termine  di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data.”. Entro il medesimo termine semestrale, prosegue il comma 2, può essere convertito il ricorso proposto avanti alla Corte EDU  ai sensi dell'Articolo 3 della Convenzione in ricorso avanti alle autorità giurisdizionali italiane ex art.35-ter O.P., purché non sia già intervenuta una decisione sulla ricevibilità. Si noti che la conversione è una mera facoltà per i ricorrenti avanti alla Corte EDU che potrebbero non avere un interesse a scegliere il rimedio nazionale alla luce del modesto risarcimento per equivalente previsto. Tuttavia, va anche ricordato che la sentenza Torreggiani è una “sentenza pilota” e che, per effetto della condanna dell'Italia, tutti gli altri casi pendenti aventi il medesimo oggetto sono stati sospesi.

[27] Cfr. Cass., SS.UU. 19 gennaio 1970 n.100 sempre successivamente confermata.

[28] Cfr. Cass. 11 luglio 2012 n.11642.

[29] Corte Costituzionale, sentenze nn.348 e 349 del 22 ottobre 2007.

[30] O.d.g. 1095 – Aggiunto del 30 luglio 2014 Fasc. 25/PA/2014.

[31] Cfr. sent. ult. cit., e le successive conformi Cass. 2 luglio 2013 n.16557 e Cass. 12 luglio 2013 n.17277.

[32] Enea c.Italia, No.74912/01, [GC] 17 settembre 2009, § 108 e ss..

[33] Serdar Güzel c. Turchia, No. 39414/06, [C] 15 marzo 2011, § 47 e ss..

[34] Per quanti ritengano la fattispecie una forma di responsabilità extracontrattuale, la si può considerare  sovrapponibile allo schema dell'art.2059 cod. civ. in forza dell’espressa previsione di legge dell’art.35-ter O.P..

[35] Cfr. Decreto Ministeriale 20 giugno 2014 pubblicato su G.U. Serie Generale n. 153 del 4 luglio 2014.

[36] F. Fiorentin, Un rimedio compensativo a forte criticità, in Guida al Diritto, n. 30, 2014, p. 30.

[37] Cass. SS.UU. 11 novembre 2008 n.26972.

[38] Cass. 13 maggio 2011 n.10527.

[39] Si veda la ricerca sull’Italia fatta dall’International Centre for Prison Studies, aggiornata al dicembre 2013, in www.prisonstudies.org, ed il rapporto SPACE II commissionato dal Consiglio d’Europa all’Università di Losanna, aggiornato al 2012 e pubblicato il 25 aprile 2014 reperibile in www.unil.ch.

[40] Cfr. la già citata Cass. pen. n.4772/2013. Si veda anche l’interessante commento di F. Fiorentin, En attendant Godot, ovvero la questione della tutela per i diritti negati in carcere tra Corte EDU e Cassazione, in attesa di una riforma troppo a lungo trascurata, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2013, 2, 973 e ss..

[41] Merita un’ulteriore riflessione valutare se, l’aver evitato di attivare lo specifico rimedio interno oggi introdotto, comporterebbe un motivo di irricevibilità del ricorso alla Corte EDU ai sensi dell’Articolo 35 § 3 a) della Convenzione, o se la modestia del risarcimento per equivalente previsto dall’art.35-ter O.P. porterebbe a considerare che la legge ha introdotto un filtro defatigatorio, in violazione della CEDU.

02/10/2014
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