Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

Ancora sul riparto di competenza fra Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni

di Saverio Umberto De Simone
Consigliere Corte di appello di Bari
Arrivano i primi chiarimenti della Suprema Corte sul riparto di competenza tra Tribunale Ordinario e Tribunale per i Minorenni in materia di ricorsi ex artt. 330 e 333 C.C.
Ancora sul riparto di competenza fra Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni

1. Lo “stato dell'arte” prima dell'intervento della Suprema Corte con l'ordinanza della Sezione VI civile dell’1-14 ottobre 2014 n. 21633.

Il discrimine tra la competenza del Tribunale Ordinario e quella del Tribunale per i Minorenni è stato sempre individuato dalla Suprema Corte con riferimento al petitum ed alla causa petendi dell’istanza proposta a tutela del minore, sicché in tema di affidamento, ai sensi del combinato disposto degli art. 333 C.C. e 38 Disp. Att. C.C., rientravano nella competenza del Tribunale per i Minorenni le domande finalizzate ad ottenere provvedimenti cautelari e temporanei idonei ad ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore, anche se non di gravità tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla potestà parentale (ora “responsabilità genitoriale” per effetto delle modifiche introdotte all’art. 330 C.C. dall'art. 50 del D. Leg.vo 28/12/2013 n. 154, entrato in vigore il 30º giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta l'8 gennaio 2014, ovvero dal 7/2/2014), mentre rientravano nella competenza del Tribunale Ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di pronunzie ex lege n. 898 del 1970, le decisioni in tema di affidamento dei minori che miravano solo ad individuare quale dei due genitori fosse il più idoneo a prendersi cura del figlio, al fine di consentirgli una crescita tranquilla ed equilibrata (v. Cass. Civ., Sez. I, 16 ottobre 2008 n. 25290; in senso sostanzialmente conforme anche Cass. 15 marzo 2001 n. 3765 e Cass. 4 febbraio 2000 n. 1213).

Prima di tale decisione, comunque, si erano pronunciati nello stesso senso anche i giudici di merito, sostenendo che, pendente la causa di separazione nella quale il Presidente aveva già affidato i minori ad entrambi i genitori secondo la previsione dell’art. 155 C. C. (ora 337 ter C.C.), la competenza a decidere sulle modalità degli incontri tra i minori ed il padre non collocatario della prole spettasse in via esclusiva al Giudice della separazione, non ponendosi alcun problema di interferenza tra provvedimenti emessi da autorità giudiziarie diverse se non laddove il Tribunale per i Minorenni avesse adottato nelle more i provvedimenti ablativi o sospensivi ex art. 330 e 333 C. C. (v. Tribunale di Bari, Sezione I Civile, 29/6/2009 in causa n. 4346/2007).

Ciò perché, in pendenza del giudizio di separazione dei coniugi o divorzile nel corso del quale fosse stato regolato, ex art. 155 C.C. (v.t.), l'affidamento dei figli minori, il Tribunale dei Minorenni poteva essere sempre adito per l'adozione dei provvedimenti, anche cautelari, di cui agli art. 330 e 333 C.C., attribuiti alla competenza funzionale esclusiva di tale ufficio giudiziario, senza che la loro eventuale adozione determinasse un conflitto di competenza con il Tribunale Ordinario, posto che tale organo avrebbe potuto (e dovuto) tener conto della decisione del giudice specializzato, quale fatto sopravvenuto, laddove l'avesse ritenuta rilevante (v., tra le altre, Cass. 28 marzo 1997 n. 2797 e Cass. 30 maggio 1989 n. 2652).

Ed infatti strettamente legata all’individuazione delle rispettive competenze era la problematica relativa alle ricadute che il provvedimento eventualmente adottato dal Tribunale per i Minorenni (recte, il decreto ex artt. 330 e ss. C.C.) poteva avere sulle determinazioni del Giudice della separazione in tema di decisione sull’affidamento dei minori; in tal caso, in mancanza di una espressa disposizione normativa, soccorreva l’insegnamento della Suprema Corte che, pronunciatasi in una fattispecie in cui l’instaurazione della causa di separazione era anteriore al decreto del T. M., aveva sostenuto l’influenza del provvedimento adottato ai sensi degli artt. 330 e 333 C.C. nel giudizio di separazione, affermando che il Giudice “…dovrà tener conto di esso, come ‘factum superveniens’ ai fini della eventuale modifica dei provvedimenti provvisori adottati” (v. Cass. sez. I, 27/3/98 n. 3222; v. anche Cass. Sez. I, 4/6/94 n. 5431).

Il favor verso il giudice specializzato é poi stato ribadito dalla S. C. la quale, chiamata a dirimere il conflitto di competenza insorto tra il Tribunale Ordinario ed il Tribunale per i Minorenni di Milano sul tema dell'affidamento dei figli di coppie non sposate, aveva affermato il principio di diritto secondo cui “La legge 8/2/2006 n. 54…ha riplasmato l’art. 317 bis C. C., dettante lo statuto normativo del genitore naturale e dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto, sicché la competenza ad adottare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al Tribunale per i Minorenni in forza dell’art. 38 co 1° Disp. Att. C. C…La contestualità delle misure relative all’esercizio della potestà e dell’affidamento del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, dall’altro, prefigurata dai novellati artt. 155 e ss. C. C., ha peraltro determinato – in sintonia con l’esigenza di evitare che i minori ricavino dall’ordinamento un trattamento diseguale a seconda che siano nati da genitori coniugati oppure da genitori non coniugati, oltre che di escludere soluzioni interpretative che comportino un sacrificio del principio di concentrazione delle tutele, che è aspetto centrale della ragionevole durata del processo - un’attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla misura e sul modo in cui ciascuno dei genitori naturali deve contribuire al mantenimento del figlio” (v. Cass. Civ., SS. UU., ordinanza 8362/07 del 22/3-3/4/2007).

2. Il nuovo art. 38 Disp. Att. C.C.

In questo contesto di elaborazione giurisprudenziale, che teneva sostanzialmente separate le competenze del Giudice ordinario in materia di affidamento della prole nei giudizi di separazione e divorzio dalle competenze del Tribunale per i Minorenni in materia di misure cautelari nei procedimenti de potestate, recettivo del riconoscimento del favor del legislatore verso il giudice specializzato e comunque espressivo della non interferenza tra i due diversi livelli di giudizio se non nel caso in cui, pendente il giudizio di separazione e divorzio, il Tribunale per i Minorenni avesse emesso provvedimenti ablativi o limitativi della potestà (ora responsabilità genitoriale), si colloca il nuovo testo dell'art. 38 delle Disp. Att. C.C. che ha generato non pochi problemi interpretativi in ordine alla vexata questio del riparto di competenze tra il giudice ordinario e giudice specializzato.

Tale norma innanzitutto individua, nel primo comma, quali siano in via generale i procedimenti funzionalmente devoluti alla competenza del T.M., indicati in quelli all'esito dei quali possono essere adottati i provvedimenti contemplati dagli artt. 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335 e 371 ultimo comma C. C.; poi specifica che: “per i procedimenti di cui all’art. 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario”.

Dopo gli iniziali commenti immediatamente successivi all’entrata in vigore della nuova disposizione normativa, che già profilavano alcuni contrasti interpretativi, e le prime pronunce applicative dei giudici di merito il caso è arrivato al vaglio della S. C. in tema di regolamento di competenza.

3.- Il caso esaminato dalla Suprema Corte

Il Tribunale per i Minorenni di Campobasso, chiamato a pronunciarsi, su iniziativa del Pubblico Ministero, in tema decadenza o limitazione della responsabilità dei genitori sui loro figli minori, aveva ritenuto sussistente la propria competenza sul rilievo che la domanda de potestate dinanzi al giudice specializzato era stata proposta prima dell'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 38 Disp. Att. C.C. come novellato dall'art. 3 della legge 219/12 e prima che, con ricorso del 26/7/2013, fosse introdotto il giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio tra le parti.

Tale provvedimento veniva impugnato con regolamento di competenza dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 38. Sosteneva, infatti, la ricorrente che la norma in questione, correttamente interpretata, determinasse l'attrazione in favore del Giudice Ordinario dei procedimenti de potestate anche se già introdotti dinanzi al Giudice dei Minori; in definitiva la pendenza di un giudizio separativo o divorzile, anche se successiva, spostava in favore del Giudice Ordinario la competenza a pronunciarsi sulle istanze de potestate introdotte anteriormente davanti al giudice specializzato.

I supremi giudici, interpretando la nuova disposizione dell'art. 38 Disp. Att. C.C., hanno individuato nel Tribunale per i Minorenni di Campobasso il giudice funzionalmente competente a decidere sulla domanda di decadenza o di limitazione della potestà genitoriale proposta dinanzi al giudice specializzato prima che fosse instaurato il giudizio di separazione o di divorzio.

4.- Le ragioni della decisione

Superando le difficoltà interpretative collegate all'uso dell'espressione “giudizi in corso” contenuta al co 1° del nuovo art. 38 Disp. Att. C.C. e richiamando piuttosto il principio di prevenzione, la S. C. ha innanzitutto escluso che potesse farsi luogo ad una lettura estensiva dell'art. 38, richiamando a tal fine alcuni fondamentali principi.

4.1.- Innanzitutto la decisione in commento valorizza il primo dei presupposti indicati dal legislatore per rendere operante la vis attrattiva, ovvero che sia “in corso” un giudizio di separazione o di divorzio ovvero un giudizio ai sensi dell'art. 316 C.C.: solo in tal caso, infatti, la competenza del giudice specializzato fissata nel primo comma della norma trova deroga, deroga che si giustifica alla luce della ratio legis, rappresentata dal fine di assicurare la concentrazione davanti ad un unico giudice delle tutele di diritti sostanzialmente analoghi. E, nel caso di specie, l'ordinanza della Suprema Corte fa puntuale applicazione del dettato normativo laddove, prendendo atto che l'istanza ex art. 333 C.C. era stata introdotta dinanzi al Tribunale per i Minorenni prima dell'instaurazione della causa di divorzio tra i coniugi, ha escluso la vis attractiva in favore del Giudice Ordinario ed ha mantenuto ferma la competenza del Giudice specializzato.

A conforto della decisione assunta, viene espressamente - ed a mio avviso correttamente - richiamato il principio della perpetuatio iurisdictionis fissato dall'art. 5 c.p.c., che il legislatore del 2012 aveva già preso in considerazione nell'art. 4 della legge n. 219 laddove aveva stabilito che “Le disposizioni del citato art. 3 si applicano solo ai giudizi iniziati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge”; e, nel caso di specie, la legge de qua era entrata in vigore successivamente alla proposizione della domanda de potestate ex art. 333 C.C. dinanzi al Tribunale per i Minorenni.

4.2.- La S. C. ha poi rilevato che il testo legislativo non fosse univoco nel limitare l'applicazione dell'art. 38 co 1° novellato alla sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 333 C.C. perché in quella stessa disposizione il legislatore richiama “…i provvedimenti contemplati negli artt. 84, 90, 330, 332, 334, 335 e 371…”, stabilendo che “per tutta la durata del processo” la competenza spetti al Giudice Ordinario. E tuttavia, per salvare la coerenza del dato testuale della norma, ha concluso che l'effetto attrattivo opera non solo relativamente alla proposizione di un ricorso ex art. 333 C.C. ma anche in tutti i casi in cui, pendente un giudizio di separazione o di divorzio o ex art. 316 C.C. introdotto successivamente al ricorso de potestate, si renda necessaria la pronuncia degli altri provvedimenti previsti dalle norme innanzi indicate, e specificamente di quello di decadenza dalla potestà genitoriale.

Con l’ordinanza qui commentata la Suprema Corte, dunque, si colloca nel solco di una lettura della norma assolutamente fedele al suo dato testuale, giustificata dall’obiettivo di privilegiare la ratio ispiratrice della novella, finalizzata per un verso a garantire l’unicità delle tutele del minore nella crisi famigliare e per l'altro ad evitare che le parti in causa possano strumentalizzare a piacimento l'astratta possibilità di rivolgersi a diverse AA.GG., tutte virtualmente egualmente competenti, così assicurando la concentrazione dinanzi allo stesso giudice dei procedimenti caratterizzati da un petitum e da una causa petendi sostanzialmente analoghi. La conseguenza della suddetta affermazione di principio è che in tutti i casi in cui venga segnalata alla Procura minorile una situazione gravemente pregiudizievole per i minori ma i genitori abbiano già intrapreso un giudizio di separazione o divorzio, deve riconoscersi la vis attrattiva (e quindi la competenza) in favore di tale ultima A.G. preventivamente adita, sia che il pregiudizio implichi l’eventuale adozione di provvedimenti limitativi sia che si profili l’esigenza di emanare provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale, e ciò in forza del potere spettante al giudice della separazione di assumere, anche ufficiosamente, ogni provvedimento utile nell'interesse della prole minorenne.

Altri commentatori, tuttavia, hanno ritenuto controverso il significato del nuovo art. 38, sostenendo che “…l’inciso trascritto nel 1° comma dopo il segno punto e virgola: in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario, vada in realtà rapportato unicamente al primo periodo della seconda – e non della prima – parte della detta disposizione, in tal modo attribuendosi al giudice ordinario la cognizione dei soli procedimenti (e l’emanazione dei relativi provvedimenti) ex art. 333 c.c. e non di quelli ex art. 330 C.C.; conclusione, questa, fondata sulla considerazione che se l’ultima parte dell’art. 38 avesse realmente voluto rinviare al primo periodo, il riferimento in quest’ultimo all’intero comparto di materie attribuite alla competenza funzionale del T. M. si risolverebbe in una generalizzata ed ingiustificata trasmigrazione verso il G. O. di attribuzioni che nulla hanno a che vedere con l’azione esercitata innanzi a lui dai genitori” (v., testualmente, la nota di commento al nuovo art. 38 Disp. Att. C.C. di Flora Randazzo in questa stessa rivista).

E tuttavia si tratta di una lettura che appare non consentita dal chiaro dato testuale della norma che, piuttosto, costituisce l’espressione di una preoccupazione – ovvero quella dei giudici minorili che la parificazione tra figli “legittimi” e “naturali” comportasse un minus di tutela dei soggetti deboli, quali i minori, garantita attraverso la previsione di un giudice specializzato - che la Suprema Corte non ha evidentemente condiviso, privilegiando la concentrazione delle tutele dinanzi ad un unico giudice che, per essere competente a decidere nella materia familiare (le cause in questa materia, infatti, sia nei grandi tribunali che in quelli più piccoli vengono trattate da sezioni specializzate o quasi specializzate), presenta comunque un elevato grado di specializzazione, anche se non identico a quello del Tribunale per i Minorenni. Del resto i giudici di legittimità si erano già attestati in precedenza sulla conclusione suggerita nell'ordinanza in commento, giungendo a riconoscere la competenza esclusiva del Giudice Ordinario ogni qual volta nel corso del giudizio separativo e/o divorzile si fosse reso necessario assumere una decisione su una domanda fondata sul comportamento pregiudizievole di un genitore, richiamando le norme (artt. 155, 155 sexies e 709 ter c.c., art. 6 L. 898/70) che tale potere esplicitamente o implicitamente gli conferivano (v. Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 20352 del 05/10/2011 secondo cui “La controversia relativa alla modifica delle condizioni della separazione (e del divorzio), nel cui giudizio sia chiesto l'affidamento esclusivo dei figli minori, appartiene all'esclusiva competenza del tribunale ordinario, anche quando la domanda, come nella specie, sia giustificata dall'esistenza di un grave pregiudizio per i figli minori, non essendo tale allegazione idonea a spostarne la competenza presso il tribunale dei minorenni”).

4.3.- Il secondo elemento valorizzato dalla S. C. per rigettare la prospettazione difensiva della ricorrente è quello della “identità delle parti” richiesto anche dall'art. 3 della legge n. 219/2012 quale presupposto fondamentale per l'attrazione della competenza da parte del Giudice Ordinario, presupposto che nel caso di specie non ricorreva perché il procedimento dinanzi al Tribunale per i Minorenni era stato introdotto ad iniziativa del P.M. L’applicazione in via generale di un tale principio dovrebbe condurre alla conclusione che tutte le volte in cui, nel corso di un giudizio pendente davanti al G. O. nelle materie disciplinate dagli artt. 316 e 337 bis e segg. C.C., una delle parti private introduca una richiesta limitativa dell’altrui potestà dinanzi al T. M., il Giudice specializzato successivamente adibito da una di esse dovrebbe comunque declinare la competenza attribuitagli in via generale dal nuovo art. 38, rimettendo gli atti al competente giudice della separazione o del divorzio.

Ulteriore conseguenza è che se il procedimento de potestate viene invece introdotto ad iniziativa del P.M. minorile, la vis attrattiva non può operare per mancanza del requisito della identità delle parti; solo in tal caso, allora, residuerebbe la competenza esclusiva del giudice specializzato. Ciò, tuttavia, rappresenterebbe un vulnus evidente al principio della concentrazione delle tutele e della sostanziale unicità della autorità giudiziaria competente a decidere in presenza di situazioni sostanzialmente analoghe (se non identiche).

Si tratta, tuttavia, di un vulnus che può essere sanato solo dal legislatore e non invocando, con evidente forzatura del dato, la ratio legis, come suggerito da alcuni commentatori secondo cui “…non deve essere considerata una grave torsione del dato letterale interpretare quell'espressione "processo in corso tra le stesse parti" come procedimento in cui vengono coinvolte le questioni dei minori figli degli stessi genitori che contendono davanti al giudice ordinario in un processo di separazione, divorzio o instaurato ai sensi dell'art. 316 c.c.” (v., su questa stessa rivista, il commento alla decisione della S. C. a cura di Costanzo Cea). Di contro, il dato letterale mi sembra insuperabile per la sua chiarezza - quantunque esso indubbiamente tradisca nella sostanza la ratio legis – sicché è ineludibile concludere che in mancanza del requisito della identità delle parti deve ritenersi sussistente la competenza esclusiva del giudice specializzato, ponendosi unicamente, in tal caso, un problema di raccordo tra le decisioni eventualmente assunte nelle diverse sedi da AA.GG. differenti.

4.4.- In terzo luogo la S.C. ha convincentemente sottolineato come, nel caso di specie, ragioni di economia processuale e di tutela dell'interesse superiore del minore, affermata a livello sia costituzionale (111) che sovranazionale (art. 8 CEDU e art. 24 della Carta dei Diritti dell'Unione) impediscano qualsiasi interpretazione della disposizione dell'art. 38 tesa a vanificare il percorso processuale già svolto a seguito di una domanda introdotta ex art. 333 C.C. davanti al Tribunale per i Minorenni prima della proposizione del giudizio di separazione e di divorzio; altrimenti opinando, ha sostenuto la S. C., sarebbe possibile utilizzare strumentalmente il processo al fine di spostare la competenza dall'uno all'altro giudice.

5.- Il commento

La decisione in questione, pienamente condivisibile nonostante la stringatezza della motivazione, si colloca nel solco di altri provvedimenti già emanati all'indomani dell'entrata in vigore della nuova legge.

Richiamo, in particolare, la decisione adottata dal Tribunale di Livorno (del 3/12/2013 nel proc. n. 1746/2013 R.G.) al quale i genitori di una minorenne affidata alla zia con provvedimento del Tribunale per i Minorenni del 22/12/2006 avevano chiesto l’affidamento della loro figlia. Il Tribunale adito, condividendo l'eccezione di incompetenza sollevata preliminarmente dalla zia della minore sul rilievo che competente a revocare il provvedimento emesso ex art 333 C.C. fosse lo stesso T. M. che lo aveva emesso, aveva sottolineato che l’art. 317 bis C.C. consente al giudice ordinario (ai sensi dell’art 38 Disp. Att. C.C.) di emettere, nell’esclusivo interesse del figlio, provvedimenti che incidano sulla potestà dei genitori di figli naturali, limitandola od escludendola; e tuttavia aveva ritenuto che la domanda non potesse essere sussunta sotto tale disposizione normativa in quanto con la richiesta di affidamento della minore ai genitori non veniva formulata una domanda avente ad oggetto il rapporto tra padre e madre in ordine all’esercizio della genitorialità, costituente il proprium dell’istituto regolato d all’art 317 bis C.C., ma implicitamente si chiedeva la revoca, ex art 333 ult. comma C.C., del provvedimento del T. M.

Per tale ragione il Tribunale aveva declinato la propria competenza in favore del T. M. di Firenze, sostenendo che la competenza del giudice specializzato si estende anche al provvedimento di modifica o revoca delle limitazioni genitoriali, trovando la sua disciplina normativa in seno all’art. 333 comma 2° C.C., come richiamato anche in parte qua dall’art. 38 Disp. Att. C.C.; e nel caso di specie, difettando la pendenza di un procedimento di separazione, divorzio o ex art 316 c.c. innanzi al Tribunale, non sussisteva la competenza del giudice ordinario adito.

6. Conclusioni

Alla luce delle superiori considerazioni mi sembra che possa ragionevolmente affermarsi che ove penda un giudizio di separazione o di divorzio e si ravvisi una situazione in forza della quale possono essere adottati provvedimenti limitativi o ablativi della potestà genitoriale, deve escludersi qualsiasi passaggio di competenze dal giudice ordinario al giudice minorile.

Non vi è ragione di soffermarsi, pertanto, sulle forme attraverso cui un tale passaggio di competenze debba avvenire, su cui pure alcuni commentatori si sono soffermati richiamando gli istituti processuali della litispendenza o della continenza di cause (entrambi, comunque, inapplicabili): ciò perché la competenza attribuita funzionalmente ed in via generale al T. M. cede di fronte alla vis attrattiva prevista per legge in favore del Tribunale Ordinario.

Conclusivamente, la decisione assunta dalla Suprema Corte con l'ordinanza qui in commento va pienamente condivisa, quantunque le criticità innanzi evidenziate con riguardo alle affermazioni di principio esulanti dall'analisi del caso concreto ledano il principio ispiratore che sta alla base della legge n. 219/212, ovvero quello della concentrazione dinanzi al medesimo giudice delle tutele riguardanti i minori coinvolti dalla crisi famigliare, che é finalizzato ad assicurare la tendenziale uniformità delle decisioni in subiecta materia ed al contempo ad evitare la dispersione di energie processuali e, quindi, a favorire l'economia processuale.

Il legislatore della novella n. 219/2012, nonostante i buoni propositi, ha dettato una disciplina del riparto di competenze tra G. O. e T. M. fortemente ambigua, suscitando vivaci contrasti interpretativi che la pronuncia in commento ha solo in parte aiutato a dipanare.

Resta auspicabile, pertanto, un intervento del legislatore che definisca in termini più chiari e risolutivi un ambito di competenze nel quale le differenti interpretazioni della norma a livello locale non solo rendono arduo per gli operatori del diritto l’individuazione del giudice cui rivolgersi ma, essendo astrattamente suscettibili di procrastinare i tempi di definizione dei giudizi, rischiano di nuocere all’immagine stessa della giustizia; non è difficile prevedere, infatti, che responsabilità imputabili solo alla politica e direttamente collegate alla scarsa competenza nella tecnica di redazione dei provvedimenti legislativi, verranno ancora una volta “scaricate” sull’ordine giudiziario, con ulteriore perdita di credibilità dell’intero sistema giustizia di fronte ai cittadini.

04/12/2014
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