Magistratura democratica
giurisprudenza di legittimità

A margine del caso Eternit

di Andrea Natale
giudice del Tribunale di Torino
Un tentativo di ricostruzione - nelle intenzioni destinato soprattutto a "non giuristi" - di quali possano essere stati gli snodi interpretativi che hanno determinato l'esito giudiziario del c.d. caso Eternit
A margine del caso Eternit

1. Una sentenza scandalosa?

Come oramai noto, il 19 novembre 2014, la Corte di cassazione ha messo la parola fine su uno dei capitoli della vicenda giudiziaria nota come "caso Eternit". Si dice vicenda giudiziaria, ma, in realtà, si tratta del destino di migliaia di persone e anche di intere comunità.

E la parola "fine" è da intendere in senso letterale: annullamento senza rinvio della sentenza di condanna inflitta in appello (e in primo grado), per estinzione del reato, essendo spirato il termine massimo di prescrizione.

Lo scopo di queste poche pagine non è di offrire un commento tecnico; per quello occorrerà leggere la sentenza, quando verrà depositata. Qui si spera solo di offrire - con il linguaggio il più semplice possibile - una prima chiave di lettura, destinata a chi tecnico non è. 

I fatti storici che sono stati oggetto del processo sono tragicamente noti: una multinazionale produce manufatti contenenti amianto; a seguito della produzione, si determina la diffusione di fibre di amianto all’interno dei luoghi di lavoro e negli ambienti circostanti agli stabilimenti (coinvolgendo intere comunità); l’amianto è nocivo alla salute; a seguito della diffusione di fibre di amianto negli stabilimenti e nei territori limitrofi ad essi, il dato epidemiologico registra nella popolazione un significativo aumento di mortalità connesso a patologie asbesto-correlate; per tali fatti i due “titolari” della multinazionale sono stati tratti a giudizio accusati – tra l’altro – di disastro doloso. Le questioni di fatto non verranno ripercorse in questa sede, in cui si cercherà solo di dare una chiave di lettura alla sentenza resa dalla Corte di cassazione nel c.d. caso Eternit.

La Cassazione ha dunque annullato la condanna a 18 anni di reclusione inflitta dalla Corte di appello di Torino a Stephan Schmidheiny, dichiarando prescritto il reato di disastro ambientale doloso. Annullati anche i numerosi risarcimenti dei danni riconosciuti in primo e secondo grado.

Il che vuole dire due cose.

Primo: la Cassazione non ha assolto  Schmidheiny, ma ha dichiarato estinto il reato per decorso del termine di prescrizione; avrebbe potuto assolverlo in presenza di "evidenti elementi" di innocenza; ma non lo ha fatto; nessuna assoluzione, dunque.

Secondo: la Corte di cassazione ha ritenuto che i reati fossero prescritti già prima della sentenza di primo grado; anche perché, ove i reati si fossero prescritti dopo la sentenza di primo grado, la Corte di cassazione avrebbe comunque dovuto entrare nel merito, quantomeno per le questioni civili connesse al reato. Un processo che, dunque, secondo la Cassazione era nato già morto. Il che, peraltro, dimostra che nemmeno le riforme della disciplina della prescrizione di cui si discute in queste ore avrebbero modificato l’esito di questo processo (pur essendo indubbio che la cd. ex Cirielli ha significativamente ridotto il termine di prescrizione per il reato di disastro doloso).

Sono note le reazioni, tutte emotivamente - e non potrebbe essere altrimenti - molto accese. La critica più ricorrente fa riferimento ad una sentenza scandalosa.

Credo che, leggendola, molti si renderanno conto che non si tratta di una sentenza scandalosa. È difficile immaginare che il nostro massimo organo di giustizia possa avere preso una simile decisione con superficialità, cancellando con un tratto di penna il dolore, il peso dell'assenza, le speranze di intere comunità e anche l'incredibile lavoro giudiziario svolto da inquirenti e giudici di merito.

E, dunque, ci si deve attendere non una sentenza scandalosa, ma una motivazione "in diritto", di natura puramente tecnica. Anche se, talora, sono i risultati della tecnica a risultare “scandalosi”.

2. Il nodo della prescrizione non era una sorpresa

Chiunque abbia seguito il processo ben sa che il problema della prescrizione dei reati contestati a Stephan Schmidheiny e al magnate belga Louis de Cartier (defunto in corso di processo) era uno dei temi sul tappeto. Se n'è discusso molto già nei due giudizi di merito. Se n'è discusso anche in Cassazione.

Semplificando grossolanamente il tema (e sempre nell'intento di aiutare a capire chi tecnico non è), secondo le difese la questione prescrizione andava impostata in questi termini: l'ultimo stabilimento Eternit ha chiuso i battenti nel 1986; sicché da quel momento devono correre i termini di prescrizione. E la prescrizione, per il disastro è 12 anni, interamente decorsi già nel 1998, vale a dire, ben prima dell'udienza preliminare e l'apertura del dibattimento di primo grado.

Diverso lo schema seguito dalla Corte di appello (evidentemente non condiviso dai giudici di legittimità): il disastro doloso ha un evento; questo evento (il disastro ambientale, la contaminazione dei siti, la diffusione delle fibre di amianto e, soprattutto, il fenomeno epidemico, vale a dire le morti e le patologie asbesto correlate) è ancora in atto; e, dunque, il reato - benché già integrato - non può dirsi né consumato (essendo l'evento ancora in atto), né, tantomeno, prescritto.

Su questo crinale si svilupperà – credo – il percorso motivazionale della Cassazione.

3. Due questioni rilevanti: struttura del reato e nozione di disastro e la distinzione con le sue conseguenze

L'art.434 del codice penale dispone che:

«Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa  ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni .

La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene».

Anche qui - e sempre semplificando temi giuridicamente complessi - si può immaginare quali possano essere i potenziali punti di frizione tra decisioni di primo e secondo grado, da un lato, e decisione della Cassazione, dall'altro lato.

3.1. Prima questione. La struttura del delitto di disastro.

Il delitto di disastro ("fatto diretto a cagionare ... un altro disastro") è un delitto che "anticipa" la tutela penale. È un reato di pericolo, che non richiede, per la sua consumazione, che il disastro si verifichi davvero. Basta che sorga il "pericolo" di verificazione del disastro.

Nel caso in cui il disastro si verifichi è, però, prevista una pena più alta. E il problema tecnico giuridico è quello di dare una qualificazione giuridica a tale ipotesi. Semplificando di molto, si danno due tesi.

La prima tesi: il delitto di disastro doloso in cui si è verificato l'evento è un delitto aggravato dall'evento. La verificazione del disastro è una semplice circostanza, il cui effetto sfavorevole può essere bilanciato da altre circostanze (attenuanti generiche, risarcimento dei danni, o altro); ma, soprattutto, in una simile prospettiva interpretativa, il "disastro-circostanza" comporta che il termine di prescrizione decorra dal momento della condotta (e, dunque, nel caso Eternit, al più tardi al 1986).

La seconda tesi: il delitto di disastro doloso, con evento verificatosi è un reato autonomo di evento. Sicché esso si consuma al momento di verificazione del disastro e non al momento della condotta diretta a determinarlo. Il che, in un caso come quello del processo Eternit, può spostare notevolmente il momento di consumazione del reato, con ciò spostando "in avanti" il momento di inizio del decorso della prescrizione.

L'impostazione interpretativa tradizionale era probabilmente nel primo dei due sensi (nel nostro caso, più favorevole alla difesa). Viceversa - e in modo assai argomentato e serio - i giudici di merito avevano aderito alla seconda prospettiva interpretativa (nel nostro caso, più favorevole all'ipotesi d'accusa), delineando un'interpretazione piuttosto innovativa del delitto di disastro doloso.

Sul punto, non si possono nutrire certezze su quale possa essere l'impostazione scelta dalla Cassazione. Si può però segnalare che, pur con alcuni  distinguo, anche il procuratore generale (la cui requisitoria è pubblicata qui) ha aderito al secondo orientamento (disastro come delitto di evento).

3.2. Seconda questione. La nozione di disastro.

Si tratta, forse, della questione centrale, che, probabilmente, ha giocato un ruolo decisivo in questa tragica vicenda. Cosa si intende per "disastro"?

L'interpretazione data alla nozione di “disastro” che risulta oggi prevalente risale ad una decisione della Corte costituzionale, che nel 2008 ritenne la descrizione del reato sufficiente a soddisfare i requisiti di tassatività e determinatezza che la Costituzione impone in materia penale. Scriveva la Consulta nella sentenza n. 327 del 2008:

«La nozione di "altro disastro", su cui gravita la descrizione del fatto illecito, si connette all'impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità e, ciò, soprattutto in correlazione all'incessante progresso tecnologico che fa continuamente affiorare nuove fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto. Inoltre, l'aver anteposto, nella descrizione della fattispecie criminosa, al termine "disastro", l'aggettivo "altro", fa si che il senso di detto concetto - spesso in sé alquanto indeterminato - riceva "luce" dalle species dei disastri preliminarmente enumerati e contemplati negli articoli compresi nel capo relativo ai "delitti di comune pericolo mediante violenza" (c.d. disastri tipici) che richiamano una nozione unitaria di disastro (...)».

«Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare – in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la «pubblica incolumità») – un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti».

Ed è in quest'ultima precisazione che si colloca il nodo interpretativo delicato che - credo - ha diviso i giudici di legittimità da quelli di appello.  Anche qui le esigenze di sintesi debbono prevalere sull'analisi.

Per l'appello le patologie in atto, le morti ancora venire sono la dimostrazione che l’evento pericoloso – la contaminazione ambientale e il "fenomeno epidemico" - è ancora in atto, perché le morti "sono parte del disastro" e le morti continuano a verificarsi. Per dirlo con le parole della Corte di appello di Torino (che corrobora tale affermazione con una pluralità di argomenti): «l’evento è, dunque, rappresentato dall’esposizione all’amianto di determinate popolazioni, poiché, sulla base delle indagini epidemiologiche e della letteratura medico oncologica, l’esposizione è, di per sé, causa di pericolo per i settori delle popolazioni evidenziati nei capi di imputazione»; tuttavia il disastro individuato dalla Corte d’Appello non si esaurisce nella sequenza “dispersione di amianto - inquinamento e immutatio loci - pericolo per l’incolumità pubblica”; prosegue infatti la corte: «l’esposizione al pericolo conseguente all’immutatio loci non esaurisce tuttavia l’evento che contraddistingue la particolare fattispecie di disastro analizzata in questa sede»; e ancora: «la contaminazione ambientale, ossia l’immutatio loci, costituisce solo una tra le componenti dell’evento del reato di disastro oggetto del presente procedimento.

Un’altra componente essenziale è rappresentata dall’eccezionale fenomeno di natura epidemica che il capo di imputazione assume essersi verificato, durante un lungo lasso di tempo, in Casale Monferrato, in Cavagnolo, in Napoli-Bagnoli e in Rubiera. Gli studi epidemiologici, secondo l'Accusa, hanno, infatti, posto in rilievo l'eccesso di malattie asbesto-correlate, tutte caratterizzate da una lunga latenza, che ha colpito le popolazioni interessate dall'esposizione all'amianto nell'arco di tempo preso in considerazione» (Corte di appello di Torino, sentenza del 3 giugno 2013, pp. 327-328).

Per il procuratore generale e, crediamo, per la Cassazione, il ragionamento deve essere diverso, dovendo probabilmente assumere una cadenza quasi algebrica: (a) l’evento pericoloso nel disastro è rappresentato dalla diffusione di fibre nell'ambiente, dalla contaminazione dei siti, ecc., in quanto fenomeni di per sé idonei a mettere in pericolo la incolumità pubblica; (b) il disastro nei termini anzidetti era già “consolidato” nel 1986, al giorno della chiusura degli stabilimenti; (c) le patologie, le morti avvenute successivamente sono “solo” una “conseguenza” del disastro; (d) e, se le morti sono conseguenza del disastro, allora, non sono disastro.

Il che, nel caso Eternit (e in tutti gli altri casi di fenomeni patologici connotati da lunghi periodi di latenza), implica una conseguenza. Il disastro già si era “consumato” nel 1986 e da lì decorrono i termini di prescrizione. Per il resto, si continuerà a morire. Ma non sarà un disastro. Saranno, eventualmente, reati contro la persona.

È probabilmente questa – si diceva – l’interpretazione che la Corte di cassazione ha dato della norma (e che verrà esplicitata nelle motivazioni); lo si può ipotizzare alla luce del comunicato stampa (necessario alla luce dell’importanza sociale del caso e delle sconcertate reazioni conseguenti alla decisione) emesso dall’Ufficio stampa del Palazzaccio: «con riferimento al processo Eternit, celebrato il 19 novembre 2014, la Corte di cassazione precisa che oggetto del giudizio era esclusivamente l'esistenza o meno del disastro ambientale, la cui sussistenza è stata affermata dalla Corte, che ha dovuto, però, prendere atto dell'avvenuta prescrizione del reato essendosi l'evento consumato con la chiusura degli stabilimenti Eternit, avvenuta nel 1986, data dalla quale ha iniziato a decorrere il termine di prescrizione. Non erano, quindi, oggetto del giudizio i singoli episodi di morti e patologie sopravvenute, dei quali la Corte non si è occupata».

4. Una voce dal sen fuggita?

Lo schema di requisitoria del procuratore generale presso la Corte di cassazione ben testimonia la ricchezza di temi di discussione e il rigore interpretativo che ha determinato la pubblica accusa a sollecitare – benché convinta della colpevolezza dell’imputato – l’annullamento della condanna inflitta a Schmidheiny prendendo atto della prescrizione.

Si tratta di un lavoro di grande levatura logica, giuridica e intellettuale, che dimostra come – in casi come questo – il diritto non necessariamente sappia fornire risposte sicuramente esatte e incontrovertibili. C’è, però, un passaggio della requisitoria che non avremmo voluto leggere: «per il disastro innominato sta succedendo quello che sta succedendo per l’omicidio stradale: è un fenomeno criminale non gestibile con le fattispecie incriminatrici a disposizione e con le categorie a disposizione; occorre che intervenga il legislatore (lo aveva già chiesto la Corte cost.): altrimenti ci troveremo molti imprenditori in Corte di assise» (schema di requisitoria, p. 19; corsivo di chi scrive).

Ma quest’ultimo passaggio si rivela proprio infelice, per due motivi: (1) perché sembra tradire un risultato da perseguire con l’interpretazione della legge (la protezione di un certo tipo di possibile imputato); (2) perché nessuna norma garantisce l’immunità degli imprenditori rispetto alle corti di assise…

5. La Convenzione europea per i diritti fondamentali dell’uomo tirata per la giacchetta

A proposito di immunità, si deve dare conto anche delle reazioni dell’imputato Schmidheiny; egli certo non contesta l’esito del giudizio di cassazione e, però, sollecita le autorità italiane a “proteggerlo” da ulteriori iniziative della magistratura italiana. I suoi difensori hanno già palesato che l’inchiesta pendente a Torino per gli omicidi (che l’accusa assume essere volontari e, dunque, imprescrittibili) rappresenterebbe un bis in idem. Sicché, si violerebbe un diritto fondamentale di Schmidheiny; il diritto di non essere giudicato due volte per lo stesso fatto.

Anche qui le esigenze di sintesi devono prevalere sul tecnicismo. Credo che tale approccio non sia corretto: per quanto sinora appreso, la dichiarazione di prescrizione del reato di disastro è legata proprio al fatto che – secondo la cassazione – in quel processo non ci si è occupati delle morti; e, se non ce ne si è occupati allora, nulla vieta che il pubblico ministero di Torino se ne occupi oggi (anzi, l’art. 112 Cost. lo impone). Certo, anche qua, l’esito è tutt’altro che scontato, posto che – sotto questo profilo – se l’ordinamento interno non vieta l’esercizio di azioni penali per reati contro l’incolumità individuale, è altrettanto vero che – nell’ordinamento sovra-nazionale – si propongono sulla questione del bis in idem problemi interpretativi per i quali non è facile prevedere quale possa essere una eventuale futura decisione della Corte Edu.

Ma la Convenzione Edu, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, dice anche altro. Dice – per esempio – che il diritto interno deve farsi carico anche della tutela delle vittime da reato. E ciò impone, per esempio, all’autorità giudiziaria di interpretare il diritto interno anche in una logica di tutela delle vittime. Visto l’esito del giudizio in cassazione e vista la pluralità di possibili esiti, non è detto che ciò sia avvenuto nel caso Eternit.

6. L’interpretazione della legge. Non una scienza esatta.

Chi sbaglia? I giudici di merito o la Cassazione? Chi ha ragione? Non è questa la sede per dirlo; considerazioni più approfondite potranno essere fatte solo dopo avere letto le motivazioni; né è questa la sede per ragionare sull’attività di interpretazione della legge (alla quale, peraltro, Vladimiro Zagrebelsky ha dedicato un bell’articolo su La Stampa del 20 novembre 2014).

Diciamo solo, realisticamente, che la responsabilità di dare l’interpretazione definitiva di una norma ricade istituzionalmente sulla Corte di cassazione. E questo in uno Stato costituzionale di diritto non può che essere accettato.

Ma ciò non vuol dire che quella interpretazione sia necessariamente quella capace di coniugare in modo più equilibrato le esigenze della giustizia con quelle del diritto.

E però è bene dire una cosa con chiarezza: vi è un punto che il giudice non può oltrepassare; egli deve rifiutare – per perseguire intenti di giustizia materiale – la tentazione di tradire il testo normativo, interpretando in modo distorto la legge. Perché questo significherebbe calpestare – oltre al diritto – anche la Costituzione e la garanzia che l’imputato si vede riconoscere dalla nostra Carta fondamentale.

In questo caso, però, la Corte di cassazione avrebbe forse avuto spazi interpretativi per attribuire alla nozione di “disastro” una latitudine capace di comprendere in esso anche il fenomeno di natura epidemica (come aveva fatto in modo argomentato la Corte di appello di Torino); in primo luogo, perché è difficile comprendere la ragione per cui un fenomeno epidemico ancora in atto, con moltissime persone che moriranno (e che, però, ancora non lo sanno), non debba essere compreso nella nozione di evento pericoloso per l’incolumità pubblica; in secondo luogo, perché la sottile distinzione tra disastro e conseguenze del disastro convince fino ad un certo punto; la Consulta scrisse che "l'evento deve provocare – in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la «pubblica incolumità») – un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti"; ma ciò significa che le morti non sono una componente necessaria del disastro; ma ciò non vuole anche dire che - ove morti vi siano - esse non debbano secondo logica essere una parte del disastro (come ritenuto dai giudici di merito).

Del resto, la stessa Corte costituzionale aveva ritenuto che un certo grado di elasticità del concetto normativo di disastro fosse necessario per consentire al diritto penale di affrontare «nuove fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto». Un’elasticità (non indeterminata) che, dunque, risultava necessaria, in quanto utile a garantire una migliore aderenza del diritto al fatto. Perché l’interpretazione anche questo è: non solo attività speculativa su norme; ma anche riconduzione di fatti a norme.

La Cassazione non ha percorso sentieri interpretativi alternativi a quello tradizionale (né ha rimesso la questione alle Sezioni unite), ma ha preferito –a fronte di una questione interpretativa che presentava profili davvero inediti - la stabilità della giurisprudenza; nessuno scandalo, per carità, posto che la stabilità interpretativa resta, comunque, un fattore di razionalità per l’ordinamento ed anche una fondamentale garanzia di uguaglianza per i cittadini di fronte alla legge.

È però difficile non convenire con Vladimiro Zagrebelsky e con la chiusura amara del suo editoriale: «alla nostra Cassazione è mancato il coraggio di affermare un diritto che non oltraggia la giustizia. Sarà il diritto a soffrirne e la fiducia dei cittadini nella legge».

Ma - al di là del coraggio - la "bocciatura" della Cassazione non vuole dire che l’interpretazione proposta dalla Corte di appello di Torino (innovativa rispetto alla tradizione) sia necessariamente quella che, nel tempo, risulterà "sbagliata".

La storia giudiziaria ci insegna che in mille casi, sotto la pressione della giurisprudenza di merito, consolidati orientamenti di legittimità si sono via via sciolti come neve al sole: basti pensare che, sino a poco più di una trentina di anni orsono, ancora si faticava a riconoscere un risarcimento per un danno alla salute che fosse conseguenza di un fatto illecito. Oggi è un dato quasi scontato. Tra “ieri” e  “oggi” c’è la caparbietà interpretativa di qualche giudice di merito che non si è limitato a prendere atto dell’orientamento prevalente in cassazione; c’è la bontà degli argomenti usati a supporto di una tesi (parafrasando gli economisti: interpretazione buona scaccia interpretazione cattiva); e, piano piano (talora d’improvviso), anche la giurisprudenza vive i suoi mutamenti.

Non è avvenuto nel caso Eternit. Ma ciò non impone il ripetersi di un simile esito in casi analoghi che in futuro, purtroppo, si presenteranno ancora ai tribunali di questo Paese.

 

24/11/2014
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